Il Dio violento nella bibbia

Queste esegesi riescono a fornire, attraverso un lavoro di esegesi scientifico e approfondito, un quadro di come sia affrontato il problema della violenza nella Bibbia. Per quanto riguarda l’Antico testamento, l’analisi ha affrontato alcune delle pagine più violente e scabrose del Primo Testamento, svelando come anch’esse, in realtà,mostrino un Dio non violento. Nel Nuovo Testamento sono analizzati sia il linguaggio che le azioni di Gesù per capire se e quando il Cristo possa essere definito “violento”. Infine si osserva come, nel fronteggiare eresie che sostenevano la presenza di due divinità distinte (una violenta nel Primo Testamento e una caritatevole nel Nuovo Testamento), i Padri abbiano saputo invece trovare unità tra due immagini di Dio che, all’apparenza, sembrerebbero diverse.

1° Incontro Pietro Bovatti  Vai
2° Incontro Gianantonio Borgonovo – Vai
3° Incontro Ermenegildo Manicardi – Vai
4° Incontro Daniele Gianotti – Vai

Pietro Bovatti

  1. «Sterminerai ogni essere vivente» (Gs 10,39)

– La conquista della terra di Canaan

Il libro di Giosuè appartiene al genere dei racconti mitici, in cui prevale il carattere di invenzione di personaggi ed eventi, allo scopo di fondare l’esistere del popolo credente. Il giudizio sui Cananei è sempre negativo: sono malvagi e gravemente colpevoli. Da qui nasce la categoria interpretativa della giustizia divina che si realizza storicamente nella punizione dei colpevoli. Dio non è indifferente al manifestarsi del male etico e religioso; proprio perché è un Dio giusto che ama la giustizia, Egli interviene nella storia umana per castigare i colpevoli e salvare le vittime. In Giosuè Israele è lo strumento dell’azione di giustizia condotta dal Signore contro i Cananei, scelto perché è il popolo più piccolo sulla faccia della terra, così che la sua campagna trionfale venga attribuita non alla prepotenza delle armi, ma al potere giudicante di Dio. Ciò spiega perché il libro di Giosuè introduce eventi prodigiosi a favore di Israele e contro i Cananei, con vittorie mirabolanti, impossibili quanto a veridicità storica, ma vere quanto al senso della storia che intendono proporre alla fede del credente.

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«STERMINERAI OGNI ESSERE VIVENTE» (Gs 10,39)[1]    La conquista della terra di Canaan

  1. Introduzione

Il titolo di questo articolo richiama l’episodio della capitolazione della città di Debir, al termine della conquista israelitica del territorio meridionale di Canaan; leggiamo infatti, nel libro di Giosuè: «Presero Debir con il suo re e tutti i suoi villaggi, li passarono a fil di spada e votarono allo sterminio ogni essere vivente che vi si trovava: non lasciarono nessun superstite» (Gs 10,39). Questa frase ci introduce direttamente nell’argomento che vogliamo trattare, argomento difficile, scottante: quello della violenza nella Bibbia.

Se la Sacra Scrittura, da un lato, è stata negli ultimi decenni, riproposta alla comunità della Chiesa cattolica come fonte indispensabile per la sua fede[2], se la Bibbia è d’altronde riconosciuta anche in ambienti laici come un patrimonio di civiltà e addirittura come il grande codice della letteratura dell’Occidente[3], bisogna constatare, d’altro lato, che si sono manifestati negli ultimi tempi segnali di profondo disagio nei confronti del testo sacro, specie dell’Antico Testamento, con una messa in questione molto radicale di questa tradizione religiosa.

Le difficoltà e le obiezioni vertono principalmente su due aspetti o motivi letterari ampiamente attestati nella pagina vetero-testamentaria e parzialmente anche nel Nuovo Testamento. Il primo di questi motivi riguarda il concetto di elezione, che postula un ruolo privilegiato (e in certi casi unico) di Israele nei confronti di Dio, con riflessi precisi sulla storia delle sue relazioni con altri popoli. Il secondo aspetto problematico è costituito dal ripetuto ricorso alla violenza, nella sfera privata e in quella pubblica, non solo non adeguatamente condannato dal testo biblico, ma addirittura prescritto da Dio, e in molti casi da Lui esercitato, in nome del suo assoluto potere. Il monoteismo, con le sue pretese esclusive, sembra infatti scatenare fatalmente dei fenomeni di intolleranza[4]; e il popolo di Israele, nel suo ruolo di testimone e partner dell’alleanza, è abitualmente coinvolto, come attore e talvolta come vittima, in un processo di violenza.

La cosiddetta «conquista» della terra di Canaan da parte del popolo di Israele, narrata nel libro di Giosuè, coniuga entrambi gli aspetti che abbiamo appena menzionati (elezione e violenza). Si rende così necessario suggerire qualche pista interpretativa che sia rispettosa del testo sacro, ma che sia anche doverosamente attenta alle domande e alle critiche dell’uomo di oggi, alla sua sensibilità culturale.

Dove si radica la difficoltà per il lettore moderno? Quali sono gli elementi che appaiono inaccettabili? Mi pare che si possono racchiudere sotto tre punti principali.

1 Il primo aspetto controverso è semplicemente quello della conquista, intesa come lo spodestare gli abitanti del luogo per insediarsi al loro posto. Oggi giorno vengono analogamente contestate le varie conquiste che si sono succedute nella storia, condotte manu militari e presentate ideologicamente dalla propaganda ufficiale come l’avvento della libertà, della civiltà e del progresso. Se infatti si può ragionevolmente accettare che ogni residente autoctono, così come ogni nazione in quanto collettività organizzata, abbia il dovere di accogliere chi è bisognoso di uno spazio in cui insediarsi per vivere, se, in altre parole, è sacrosanto il rispetto dell’ospite, non risulta però giuridicamente fondata la pretesa di prendere il posto dell’altro, in nome di non so quale diritto personale. Il Decalogo, testimone dei valori inalienabili della persona, proibisce il furto (Es 20,15; Dt 5,19) e persino il desiderio di impossessarsi di ciò che appartiene al prossimo (Es 20,17; Dt 5,21); non si può dunque pensare ad una deroga a questi principi fondamentali. Non è infatti accettabile che Dio, fonte del diritto e suo imparziale garante, possa autorizzare o addirittura comandare ciò che non è giusto. Affermare, ad esempio, che poiché tutta la terra appartiene al Signore, Egli può distribuirla a chi vuole, accordando dunque ai suoi eletti e suoi servitori il territorio occupato da un’altra nazione, questa concezione basata su privilegi e su promesse inverificabili, questa indiscussa pretesa insomma, non tiene conto del diritto soggettivo di chi su quella terra si è stabilito, fondando legittime attese, se non altro per il lavoro che vi ha svolto e per le produzioni culturali e sociali che vi ha seminato. E, d’altra parte, non viene nemmeno rispettata l’immagine di Dio quale padre di tutti e tutore di ogni portatore di diritto. La conquista di Canaan dunque è in sé stessa problematica e, naturalmente, lo è ancora di più se è assunta come prassi da imitare nelle relazioni internazionali o come prova del proprio diritto a possedere oggi, in quanto discendente degli israeliti, la terra presa da Giosuè ai Cananei.

2 Un secondo aspetto problematico, strettamente collegato con il primo, è costituito dalla modalità stessa della conquista, portata a compimento mediante la sistematica e radicale eliminazione degli abitanti del luogo. Lo «sterminio», in ebraico herem, è un vocabolo terribile, perché richiama alla mente le barbarie inaudite dei pogrom, dei genocidi, dell’olocausto (come si usa dire oggi), di tutti quei procedimenti sommari e spietati subiti da molti popoli e dallo stesso Israele. Come conciliare allora la condanna unanime dei massacri perpetrati contro intere popolazioni e la lettura di una pretesa epopea israelitica incentrata sullo sterminio?

3 L’orrore – e questo è l’ultimo e più spinoso aspetto problematico – è poi ingigantito dal fatto che sia il Signore stesso a prescrivere l’uccisione di ogni essere vivente, senza alcuna pietà, senza alcuna considerazione degli innocenti. Ne risulta una immagine di Dio così vistosamente crudele, così contrastante con la rivelazione del Dio di amore, da farci dubitare che le pagine di Giosuè siano ispirate, provengano cioè dallo Spirito del nostro Dio. Israele, quale popolo santo, rimarrebbe nell’alleanza solo se fedele esecutore dello sterminio, come lo fu Giosuè: anche questo contraddice l’idea che ci è familiare di un popolo di Dio, mite e compassionevole, che esprime l’amore nell’accoglienza dell’altro e addirittura nella volontaria disponibilità al martirio.

Ecco dunque, sommariamente enunciati, i punti principali di una problematica difficile, con cui si sono confrontati esegeti molto sapienti[5], senza però riuscire a superare le reticenze del lettore cristiano della Bibbia. Non ho perciò la ingenua presunzione di chiarire, in modo convincente, tutte le ombre del testo biblico[6]; intendo solo offrire qualche pista di comprensione che consenta di accogliere con libertà e maturità queste pagine difficili, nel pieno rispetto per ciò che ci è stato divinamente consegnato, ma nel rispetto pure della nostra coscienza e della nostra sensibilità spirituale.

[1] Relazione tenuta a Carpi il 23-01-2011

[2] Di grande rilevanza e fecondità si è rivelata la Costituzione Dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum); cfr. Ch. Theobald, “Seguendo le orme …” della Dei Verbum. Bibbia, teologia e pratica di lettura, EDB, Bologna 2011.

[3] Cfr. N. Frye, Il grande codice: la Bibbia e la letteratura, Einaudi, Torino 1986.

[4] In questa linea si è sviluppata la provocazione di J. Assmann; cfr. Das Gewaltpotential des Monotheismus und der dreieine Gott, ed. P. Walter, QD 216, Herder, Freiburg – Basel – Wien 2005; cfr. anche G.L. Prato, «Tratti di violenza nel volto di Dio», «La violenza», PSV 37 (1998) 11-24.

[5] Citiamo qui solo alcuni studi recenti di maggiore ampiezza: P. Beauchamp – D. Vasse, La violence dans la Bible, Cahiers Évangile 76, Éditions du Cerf, Paris 1991; G. Barbaglio, Dio violento? Lettura delle Scritture ebraiche e cristiane, Commenti e studi biblici, Cittadella, Assisi 1991; P. Gibert, L’espérance de Caïn. La violence dans la Bible, Bayard, Paris 2002; E. Zenger, Un Dio di vendetta? Sorprendente attualità dei salmi imprecatori, Parola di vita, Ancora, Milano 2005; W. Dietrich – M. Mayordomo, Gewalt und Gewaltüberwindung in der Bibel, Theologischer Verlag, Zürich 2005; G. Barbaglio, Amore e violenza. Il Dio bifronte, Al di là del detto, Pazzini Editore, Rimini 2006; A. Wénin, Perché tanta violenza? Quando la Bibbia provoca e disarma, Parola di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011. Il motivo della violenza nella Bibbia è stato oggetto di Convegni e di varie raccolte di articoli; cfr. Gewalt und Gewaltlosigkeit im Alten Testament, ed. N. Lohfink, QD 96, Herder, Freiburg – Basel – Wien 1983; «La violenza», Parole Spirito e vita 37 (1988); La violenza nella Bibbia, Atti del Convegno Nazionale di Biblia (Mantova 31 marzo – 1 aprile 1990), Biblia, Settimello 1990; Sanctified Aggression. Legacies of Biblical and Post Biblical Vocabularies of Violence, ed. J. Bekkenkamp –Y. Sherwood, JSOT.S 400, London – New York 2003; Violence in the New Testament, edd. Sh. Matthews – E.L. Gibson, T & T Clark, New York – London 2005; Violence, justice et paix dans la Bible, Actes des deuxièmes Journées bibliques de Lubumbashi 20-23 mars 2006, ed. J.-L. Vande Kerkhove, Publications de l’Institut St François de Sales 3, Éditions Don Bosco, Lubumbashi 2007; La violenza nella Bibbia, XXXIX Settimana Biblica Nazionale (Roma, 11-15 settembre 2006), ed. L. Mazzinghi, RBS 20, EDB, Bologna 2008; La violència en la Bíblia, ed. d’A. Puig I Tárrech, Scripta Biblica 9, Publicaciones de l’Abadia de Montserrat, Tarragona 2009.

 

[6] Scrive P. Beauchamp: «Il primo imperativo è di lasciare che il libro ci accompagni, in altre parole, bisogna lasciar parlare lo scandalo della Bibbia, della sua propria violenza. Noi non dobbiamo né attaccarla, né “difenderla”, né tanto meno scusarla a motivo della sua appartenenza a un’epoca remota e a una cultura lontana. Sarebbe questo un modo di neutralizzarne il messaggio» («La violence dans la Bible», in: Testament biblique, Bayard Éditions, Paris 2001, 163).

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Gianantonio Borgonovo

2. «Distruggi quei peccatori dei tuoi nemici» (1 Sam 15,18)

Le guerre del re Saul

In ogni sua pagina la Bibbia chiede la collaborazione di un lettore attento per essere compresa. La spiegazione dei brani in cui appare la violenza deve partire dal tentativo di ricollocare tali espressioni nel mondo culturale e spirituale degli antichi scrittori e nelle loro tradizioni religiose, sociali e poetiche. Allora si troverà, non senza sorpresa, che queste pagine – a prima vista sconcertanti – in realtà rilevano una tradizione molto ricca e rivelano i contenuti di una tradizione che possiede un forte anelito di moralità e di religiosità Dunque bisogna evitare di mettere a confronto questi racconti tout court con alcuni passi evangelici. Piuttosto, queste pagine devono essere lette e gustate nella loro versione di tragedia umana, con l’intelligenza di un lettore che conosce il resto della Scrittura. Pertanto esse non risultano essere una conferma dell’uomo violento, che ciascuno cova in sé, ma solamente una provocazione: “Tu da che parte stai”?

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«DISTRUGGI QUEI PECCATORI DEI TUOI NEMICI» (1 Sam 15,18)[1]      Le guerre del re Saul

Gianantonio  Borgonovo

Alcune domande di partenza.

  1. Qual è il senso del rimprovero del profeta Samuele al re Saul, il quale ha “solo” sterminato tutti i nemici, ma non ha distrutto i loro beni? Dunque non basta la violenza sui nemici: Dio ne vuole la distruzione completa e assoluta?
  2. Come conciliare ciò con la visione di un Dio che ama tutti gli uomini? Che senso ha che la Bibbia presenti, invece, un Dio che impone la distruzione degli Amaleciti?
  3. Ancora: quanta importanza ha in questi racconti il “genere letterario”? Che tipo di genere letterario è questo racconto?
  4. Infine: cosa possono insegnare a noi, cristiani moderni, questi racconti così antichi (forse “vecchi”?) e così lontani dalla nostra sensibilità, talora fin troppo “politicamente corretta”?

Questi sono i problemi sul tappeto e attorno ai quali leggeremo “Le guerre del re Saul”. Faremo un discorso in 10 tappe, ossia in 10 momenti di riflessione, per giungere a trattare tutti i problemi sollevati da queste domande.

  1. “Lector in fabula”

Il primo passo lo titoliamo alla maniera di un interessante contributo di Umberto Eco. Cioè: ad ogni pagina la Bibbia chiede la collaborazione del lettore per essere compresa. In ogni atto di lettura vi è bisogno di un lettore attento. La Bibbia presuppone un lettore ed una lettrice che non soltanto ascoltino passivamente quanto viene letto, ma che si mettano in gioco con la proclamazione.

Facciamo due esempi efficaci per capire quanto intendiamo.

In Genesi 22 si trova uno dei racconti più abissali dell’intera Bibbia. Abramo ha finalmente avuto il figlio della fede, Isacco, dopo lunghe attese, dopo che la schiava Agar gli ha già dato un figlio, Ismaele, che però non è il figlio della donna libera, non è il figlio della promessa. Finalmente è Sara a dare ad Abramo un erede, quando entrambi sono al di là della loro possibilità di generare figli. Ebbene, arrivati a questo punto, il racconto biblico narra che «Dio mise alla prova Abramo e gli disse: ‘Abramo! (…) Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò’» (Gen 22,1-2).

Ci è ben noto questo racconto del sacrificio di Isacco. Ma troppe volte noi sorvoliamo sull’inizio del racconto, dove si narra che «Dio mise alla prova Abramo», e andiamo subito oltre a domandarci come possa Dio chiedere ad Abramo il figlio della promessa. Noi non ci accorgiamo che in ebraico quel «Dio», che è il soggetto iniziale, è detto: “Elohim”, ossia “la divinità”. Quale divinità? Narrando tutto ciò, l’autore non dà una risposta, bensì pone un problema: quale Dio può mai chiedere ad Abramo un figlio? Abramo potrebbe pensare che sia il Dio vivo e vero a chiedergli un figlio. Tuttavia, alla fine, quando egli è ormai con la mano alzata, pronto per il sacrificio, l’angelo di Adonai gli appare e gli fa comprendere che Adonai non ha bisogno del sacrificio umano: il Dio vivo e vero fa a meno del sacrificio umano: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Io so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito» (v. 12).

Però il lettore deve essere attento a percepire che quel Dio da cui il racconto muove non è il Dio vivo e vero, bensì l’immagine che Abramo proietta su Dio ad imitazione delle divinità cananaiche. Se c’è un elemento ben fissato nell’intera tradizione biblica, è proprio il fatto che il Dio Adonai non ha mai voluto un sacrificio umano, contro invece le pratiche egiziane, mesopotamiche e, soprattutto, cananaiche. Il Dio Adonai non ha mai voluto il sacrificio umano. Qui si vede bene che il lettore deve essere dentro al racconto, deve essere parte attiva, per comprendere che quel primo «Dio», chiamato con la forma strana: “la divinità”, non è il Dio dell’Esodo, ossia il Dio vivo e vero. Si tratta, invece, di una proiezione umana sulla figura di Dio.

Un altro esempio molto efficace per capire la necessità della cooperazione del lettore in ogni atto di lettura si trova in Gdc 11. Come i due libri di Samuele, anche il libro dei Giudici è ricco di tragedie e di commedie, che, a modo di quadro narrativo, ricordano un periodo in cui le memorie propriamente storiche mancano anche a coloro che scrivono la storia di Israele nel V sec. a.C. Allora si fa riferimento maggiormente a memorie di tipo popolare e nazionale, le quali poi, in un secondo momento, sono rivestite di grande arte narrativa.

In Gdc 11,29-40 un episodio presenta Iefte, figlio di una prostituta, che tuttavia viene assoldato per vincere gli Ammoniti. Avendo accettato l’incarico di combattere contro gli Ammoniti, prima di partire per la battaglia Iefte fa un voto: ucciderà la prima persona che incontrerà al suo ritorno, purché Dio (che qui è chiamato “Adonai”) gli dia la vittoria sugli Ammoniti. Questa diverrà una grande tragedia, poiché la prima persona che Iefte incontrerà al ritorno dalla guerra vinta sarà sua figlia. Iefte dovrà comunque mantenere la fedeltà al suo voto; anzi, sarà la figlia stessa ad incitarlo a mantenere tale fedeltà, purché egli le dia due mesi «perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne» (v. 37).

Dunque alla fine Iefte sacrifica la figlia; in nome di chi? Egli ha fatto un voto ad Adonai, il Dio di Israele. Però Adonai non ha mai chiesto la vita umana. Dunque Iefte sacrifica la figlia in nome di un dio della guerra, che egli chiama “Adonai”. Ma Adonai non è così. In questo caso il lettore deve essere molto attento a percepire il fatto che l’Adonai da lui conosciuto non è l’Adonai di Iefte. Costui pensa ad un dio che possa essere garante della sua vittoria in guerra in nome di un voto fatto mettendo in gioco la vita della figlia; ma questo non è il vero dio.

In questi due episodi il lettore è responsabile di comprendere chi è veramente in gioco e quale Dio è veramente il Dio che la narrazione pone in gioco. Non il Dio Adonai, sebbene sia chiamato proprio con lo stesso termine. Nel caso di Iefte è proprio esplicito: egli pensa che si tratti di Adonai, quel Dio al quale fa voto; ma, in realtà, il Dio Adonai non è il dio pensato da Iefte. Nel caso di Abramo è narrativamente più evidente, poiché si introduce il racconto con un termine generico: “la divinità”. Sì, ma quale divinità?

Dunque la cooperazione del lettore è indispensabile in ogni atto di lettura.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 30-01-2011, non riveduta dall’autore.

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Ermenegildo Manicardi

3.  «Non darò nessun segno ad una generazione malvagia e adultera» (Mt 16,4)Le parole violente sulla bocca di Gesù

Le parole “forti” di Gesù sono da comprendere come dette da uno che subisce violenza. Tutta la questione delle “parole violente” di Gesù va collocata nel quadro dell’esperienza di Gesù: di fatto egli subisce violenza nella sua vita e, soprattutto, nella sua morte. Allo stesso tempo le parole “forti” di Gesù sono anche da comprendere come dette da uno che reagisce alla violenza e che, nella sua prassi e nel suo insegnamento, si è opposto all’uso della violenza. La modalità di Gesù è dialogica (ad esempio l’uso delle parabole). Ma il dialogico comporta il tentativo di rendere efficace il proprio punto di vista, pur senza giungere alla costrizione. Egli usa un linguaggio che vuole ottenere un effetto nell’intelligenza e nel cuore dell’interlocutore. Dunque Gesù è immune sia alla violenza della bocca che alla violenza delle mani, ma con le sue parole “forti” vuole ricordare sempre ad ogni persona che Dio è serio e che la vita dell’uomo è altrettanto seria.

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PAROLE VIOLENTE DI GESÙ NEL VANGELO SECONDO MARCO[1]

Ermenegildo  Manicardi

La nostra riflessione, dopo aver preso avvio da alcune premesse generali al problema affrontato, studia specificamente la questione delle eventuali parole violente sulla bocca di Gesù, soprattutto alla luce della narrazione del Vangelo secondo Marco, e cerca di arrivare ad alcune conclusioni generali.

  1. PREMESSA:

PAROLE VIOLENTE SULLA BOCCA DI GESÙ

Giuseppe Barbaglio, che aveva pubblicato un suggestivo e impegnativo volume intitolato “Dio violento? Lettura delle scritture ebraiche e cristiane”[2], ha presentato anche, in seguito, un articolo più sintetico su «Parole violente sulla bocca di Gesù»[3]. La sua tesi fondamentale è la seguente. Nei Vangeli si incontra una serie di parole di Gesù che si riferiscono ad una violenza divina, che hanno in sé stesse una carica violenta e che hanno il loro apice in quelle che presentano il tema del giudizio divino, vero zoccolo duro della violenza di Dio nella Bibbia ebraica e cristiana. Nel Nazareno coesistono due immagini religiose: una è quella di un Dio “bifronte”, mysterium fascinans et tremendum, e l’altra – opposta alla precedente – è quella di un dio “unifronte”, mysterium esclusivamente fascinans. La prima, che appare appunto nelle parole violente di Gesù, è frutto di un arcaismo culturale. La seconda, che invece segna la figura di Dio Padre soprattutto nel Discorso della montagna (cf. in particolare Mt 5,45-48), si inquadra nella specifica parola di Gesù capace di rivelare la realtà di Dio come Padre.

  1. Parole violente di Gesù o degli evangelisti?

1.1.  Fare i conti con i livelli di formazione dei vangeli

Una prima domanda è senza dubbio: le parole violente che si trovano nei Vangeli sono di Gesù o degli Evangelisti? Anche a proposito delle parole violente di Gesù bisogna fare i conti con i livelli di formazione dei Vangeli. È noto, ad esempio, che probabilmente il rapporto tra i discepoli di Gesù e i farisei deve essere stato diverso al tempo del ministero di Gesù e negli anni della stesura del Vangelo secondo Matteo, avvenuta circa mezzo secolo dopo gli avvenimenti. In questi cinquant’anni c’è stata un’evoluzione sia della comunità cristiana sia del movimento dei farisei. Pertanto, quando nella comunità di Matteo si raccontava dei farisei e si parlava di loro al tempo di Gesù, si tendeva a vederli come erano nella contemporaneità. Come si sa bene, i problemi della vita delle prime chiese, i loro conflitti e le loro paure al tempo della stesura dei Vangeli incidono sulla raccolta e la riproposta dei detti di Gesù. L’esempio più chiaro, a proposito degli scribi e dei farisei, è il lungo discorso contro queste categorie che si trova nel primo Vangelo. L’intero Mt 23 è caratterizzato dal grido: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti», ripetuto per ben sette volte. Emerge qui chiaramente il contrasto tra la comunità di Matteo e gli scribi ad essa contemporanei, che dopo la distruzione di Gerusalemme, nel 70 d.C., erano impegnati – per salvare il giudaismo – ad ostacolare il passaggio dei propri correligionari a quella nuova esperienza dirompente, ossia il cristianesimo che cominciava a diffondersi consistentemente. Al tempo di Gesù, invece, probabilmente la situazione non era proprio questa: sembra, infatti, di capire che il gruppo dei farisei, per tanti versi, non era certamente il movimento più distante da Gesù. A tal proposito, anche noi lettori di oggi dobbiamo stare attenti agli effetti di una lunga consuetudine con i Vangeli canonici. Proprio a causa soprattutto del Vangelo secondo Matteo, infatti, si è creata nella nostra cultura la categoria di “fariseismo” e di “fariseo”, con il rischio serio che queste idee pesanti siano introdotte anche nell’ascolto dei testi biblici. Per capire come tale orientamento non sia adeguato ai fatti, è sufficiente osservare un passo della Lettera ai Filippesi. Negli anni 50 (dunque circa a metà strada tra il ministero di Gesù e il lavoro dell’Evangelista Matteo) Paolo, per elogiare sé stesso e per mostrare quanto sia valida la sua formazione, si vanta di essere «Ebreo da Ebrei – Ebreo non proselita, ma figlio di Ebrei –, quanto alla Legge, fariseo» (cf. Fil 3,5). È tutta un’altra atmosfera rispetto a Mt 23, nella quale si vede bene che i farisei non sono considerati negativamente degli avversari del cristianesimo. Le parole di Paolo mostrano invece che egli li considerava ancora il meglio d’Israele. È evidente perciò che, anche per il tema «parole violente di Gesù», è necessario distinguere tre diversi livelli: 1. Gesù storico; 2. ciò che accade dopo Gesù; 3. il momento nel quale un Vangelo è scritto.

1.2.  Il caso esemplare di parole segnate dalla minaccia «Guai»

Per lo specifico del nostro tema non è difficile vedere che esistono differenze, anche notevoli, tra i diversi Evangelisti. Ci sono, infatti, alcuni Vangeli in cui le parole violente sono numerose e severe e ci sono Vangeli in cui il tono non è così duro. È possibile illustrare le differenze di quadro prendendo come esempio il ricorrere della minaccia «guai» nei diversi Vangeli. Innanzi tutto osserviamo che Giovanni non presenta alcun detto di Gesù che utilizzi la particella «guai», completamene assente nel Quarto Vangelo. Il Vangelo di Marco presenta solamente due detti introdotti con «guai», che ricorrono anche negli altri due sinottici, dove si presentano come le due ultime ricorrenze di tale particella, che sia Matteo sia Luca adoperano in vari altri casi. È da osservare, però, che uno dei due «guai» testimoniati in Marco, ossia il primo – «In quei giorni guai alle donne incinte e a quelle che allattano!» (Mc 13,17)[4] –, di fatto è un moto di compassione di fronte alle donne incinte che non potranno correre per fuggire i pericoli della grande «tribolazione» che precede la venuta del Figlio dell’uomo. Del secondo detto – «Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!» (Mc 14,21)[5] – parleremo trattando specificamente delle parole violente nel Vangelo secondo Marco. La Fonte dei detti – la cosiddetta Logienquelle (sigla «Q») – conteneva probabilmente due parole di Gesù segnate da un «guai». Il primo «guai» è diretto ai villaggi di Corazin e Betsaida, i due centri del lago di Tiberiade, in cui Gesù è stato attivo, ma che tuttavia non si sono aperti al suo messaggio (cf. Mt 11,21 e Lc 10,13). Il secondo «guai» colpisce l’uomo attraverso il quale avviene lo scandalo (Mt 18,7 e Lc 17,1). Il pensiero di Gesù è che, se da un lato «è necessario» che ci siano gli scandali, dall’altro lato non si può per questo scusare l’uomo che li fa accadere, in quanto a causa loro avviene l’interruzione della fede. Lo «scandalo» è proprio ciò che fa sospendere la fede. Può essere interessante osservare che la forma marciana di questo detto (cf. Mc 9,42) non presenta, invece, l’uso del «guai». Nel Vangelo secondo Matteo è presente un crescendo, che sarà anche di Luca. Matteo propone tutti e quattro i «guai» appena visti (i due da Mc e i due da «Q») e, inoltre, presenta il discorso dei sette «guai». La struttura di Mt 23 è determinata profondamente proprio dall’uso di questa minaccia. Il discorso inizia con le parole: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti scribi e farisei» (Mt 23,1). Sono loro gli scribi e i farisei che guidano e condizionano la teologia e tutta l’interpretazione della Torah data tramite Mosè. Di fronte al ruolo che essi hanno assunto, Gesù – secondo Matteo – ammonisce senza mezze misure: «Fate come dicono, ma non fate come fanno». I sette «Guai a voi, scribi e farisei, ipocriti» non fanno che presentare alcune situazioni capaci di mostrare all’evidenza la necessità di allontanarsi dal loro comportamento. Il Vangelo di Luca presenta ben due diversi discorsi in cui la minaccia «guai» è decisiva per i contenuti e per la struttura. Il primo è il cosiddetto Discorso del luogo pianeggiante (cf. Lc 6,17-49). Mentre in Mt 5-7 il Discorso della montagna presenta nove beatitudini, in discorso lucano del luogo pianeggiante ne presenta solamente quattro, a cui però corrispondono quattro «guai». In Lc 6,24-26 i quattro «guai» del discorso del piano (contro ricchi, sazi, ridenti, coloro di cui si parla bene) fanno da contrappeso alle beatitudini. Il secondo discorso lucano contenente «guai» è quello di attacco in cui si affrontano, separatamente e successivamente, farisei (cf. Lc 11,36-44) e scribi (cf. Lc 11,45-52). Il racconto lucano sembra rivelare una situazione diversa rispetto a Mt 23, in cui gli scribi e i farisei sembrano costituire un unico fronte ideologicamente compatto. Pur essendo lo stesso materiale presente Mt 23 e pur trattandosi nei due casi di avversari mortali di Gesù (cf. Lc 11,53-54), Luca fa trasparire una situazione differente: egli non fa un unico gruppo di «scribi e farisei»; di fronte a sé c’è qualcosa per cui deve operare una distinzione: prima si legge «guai a voi, farisei» (cf. Lc 11,42.43.44) e poi «guai a voi, scribi» (cf. Lc 11,46.47.52). Già da questa semplice raccolta dei materiali evangelici contenenti la particella «guai» ci si accorge bene che un conto è sentire le parole di Gesù in Giovanni, un altro conto in Marco ed un altro ancora in Matteo e in Luca. Di conseguenza appare veramente necessario essere capaci di muoversi adeguatamente distinguendo i diversi Vangeli ed evangelisti, per trattare con serietà la questione delle parole violente di Gesù.

[1] Relazione tenuta a Carpi il 6-2-2011.

[2] G. Barbaglio, Dio violento? Lettura delle scritture ebraiche e cristiane, Cittadella Editrice, Assisi 1991.

[3] G. Barbaglio, «Parole violente sulla bocca di Gesù», in Parola, Spirito e vita, n. 37, 1998/1, 117-129.

[4] Cf. Mt 24,19; Lc 21,23.

[5] Cf. Mt 26,24; Lc 22,22.

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Daniele Giannotti

4. Lo scandalo di un Dio violento – Primo e Nuovo Testamento: lo stesso Padre

Da subito le prime comunità cristiane, leggendo i testi della Scrittura (quello che per noi è il Primo Testamento), raggiungono una convinzione di fondo: le Scritture conducono a Cristo. Ma nasce pure la domanda: il Dio misericordioso che Gesù Cristo annuncia è veramente lo stesso Dio di Israele, che spesso appare come un Dio severo e duro, persino violento? Nel fronteggiare eresie come quella marcionita, che sostengono la presenza di due divinità distinte, i Padri fissano dei punti irrinunciabili, quali il canone dei libri ispirati, il principio dell’unità dei due Testamenti, la convinzione della pienezza in Cristo delle Scritture. E combattono le eresie, individuando piste di comprensione del progetto salvifico di Dio, dove tutto è sulla strada per arrivare a Gesù Cristo e scoprire in lui la rivelazione piena del volto di Dio.

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LO SCANDALO DI UN DIO FORTE Primo e Nuovo Testamento: lo stesso Padre[1]

Daniele  Gianotti

1.  I Padri della Chiesa e la questione del «Dio violento»[2]

A partire dalla fine del I secolo e gli inizi del II, le prime comunità cristiane cominciano a guardare ai testi di quella che per loro è la Scrittura (e che per noi coincide col Primo Testamento) e ad interrogarsi. In questi autori c’è una convinzione di fondo: le Scritture conducono a Cristo. È una convinzione che si trova già espressa anche in tutti i testi del Nuovo Testamento (NT); per certi versi, anzi, si potrebbe sostenere che il NT non è altro che una rilettura di Gesù Cristo – della sua opera, della sua persona, del suo mistero – sullo sfondo delle Scritture di Israele.

L’esempio più tipico ed esplicito di tale orientamento si trova in Lc 24, in due episodi collegati tra loro: il brano dei discepoli di Emmaus e quello, appena successivo, di Gesù che appare ai discepoli a Gerusalemme. In entrambi gli episodi risulta questa idea fondamentale: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, [il Risorto] spiegò loro (ai discepoli di Emmaus) in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27); ed ancora il Risorto insegna: «Sono queste le parole che vi dissi quando ero ancora tra voi (i discepoli): bisogna che compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44), ossia nella totalità delle Scritture[3]. Quando Luca, pertanto, riferisce queste parole di Gesù, intende dire che Gesù è colui verso il quale orientano tutte le Scritture, è la chiave di lettura delle Scritture di Israele. È questo il principio dal quale si parte.

Su questa base, però, nasce un problema. I cristiani si resero conto che alcuni aspetti del messaggio di Gesù, del suo Vangelo, della prassi che egli vive ed insegna ai discepoli, del volto di Dio di cui egli afferma di essere la rivelazione definitiva («Chi vede me, vede il Padre», cf. Gv 14,8), potevano essere problematici. Leggendo le Scritture di Israele e cercando di ritrovarvi il volto di Cristo, i cristiani si posero il seguente problema: il Dio che Gesù Cristo annuncia è veramente lo stesso Dio di Israele? Se è il Padre di misericordia, se è il Dio che fa grazia e che perdona, coincide con il Dio di Abramo, di Mosè, di Davide, dei profeti, che spesso appare come un Dio severo e duro, persino violento? Non si trattava di una questione da poco, anche perché, come ha calcolato uno studioso, sarebbero circa un migliaio i passi che pongono problemi di questo tipo.

I Padri della Chiesa, ovviamente, non li hanno esaminati tutti. Leggendo i loro testi quando affrontano questo tipo di domande, si vede che vi sono alcuni testi biblici ricorrenti, che possono essere ricondotti a due categorie fondamentali: da un lato, i testi che riguardano gli attributi, le caratteristiche di Dio; dall’altro, testi che riguardano episodi specifici.

Come esempio di testi relativi alle caratteristiche di Dio, si può leggere un passo di Isaia: «Io faccio il bene e creo il male» (cf. Is 45,7); un altro testo sul quale i Padri si sono lungamente soffermati è: «Dio indurisce il cuore del faraone» (cf. Es 4,21; 7,3), ossia lo rende ostinato e duro nel non obbedire alla volontà di Dio stesso. Oppure ancora: Dio è come «fuoco che brucia tutt’intorno ai suoi nemici» (cf. Sal 97,3).

Ci sono poi, come si diceva, episodi in cui si manifesta un agire violento di Dio. È il caso, ad esempio, del racconto del diluvio, in cui Dio vuole distruggere l’intera umanità, che è infedele (Gen 6-8); o la distruzione di Sòdoma e Gomorra (Gen 19); o ancora l’episodio in cui diversi ragazzi deridono il profeta Eliseo e questi, per tutta risposta, evoca due orse che, all’improvviso, sbranano i suoi sbeffeggiatori (2 Re 2,23-25).

Quest’ultimo episodio è prudentemente evitato dalla liturgia odierna. A proposito di tale prudenza, uno dei problemi che si pone è che la liturgia attuale ha espunto dalla lettura liturgica dei Salmi alcuni versetti ed anche alcuni interi salmi (i cosiddetti “salmi imprecatori”), nei quali, appunto, appare il tema della violenza[4]; si possono capire la ragioni di opportunità, ma si tratta comunque di una scelta molto seria e grave, in quanto è la prima volta che, nella tradizione della chiesa, certi salmi sono sistematicamente espunti dall’intera liturgia.

Tornando all’episodio delle orse evocate dal profeta Eliseo, indubbiamente un «miracolo» di questo genere colpisce noi come colpiva già i cristiani dei primi secoli, i quali contrapponevano a tale episodio quello in cui Gesù comanda: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14), e li mettevano a confronto. Da un lato, Gesù insegna così, mentre dall’altro il profeta Eliseo fa sbranare dei ragazzini da due belve: sono due atteggiamenti davvero lontanissimi tra loro.

C’era poi un testo in particolare che creava grandi problemi ai cristiani: il libro di Giosuè, che racconta la conquista, dopo l’Esodo, della terra di Canaan. Faceva problema, poiché era un testo molto utilizzato, per la semplice ragione che in ebraico «Giosuè» e «Gesù» sono lo stesso nome; sono due modi diversi di italianizzare il nome Yoshua, nome molto comune nel mondo ebraico. Sfruttando la coincidenza del nome, al fine di mostrare la continuità che esiste tra il Primo Testamento e Gesù, i Padri hanno spesso usato il libro di Giosuè, dandone un’interpretazione cristologica[5]. Volevano mostrare, in questo modo, che il Giosuè di allora – il successore di Mosè come capo di Israele al momento della «conquista» della Terra promessa – anticipava Gesù Cristo, che è il vero Giosuè. Ma com’era possibile mettere in rapporto Gesù con quel Giosuè che conquistava le città, che faceva sterminare tutti quanti, uomini, donne e bambini (cf. Gs 6,17-21; 8,14-25; ecc.)? Il problema, evidentemente, era piuttosto serio.

Altre domande erano sollevate del libro di Giobbe, in cui si trovano alcuni testi nei quali il protagonista accusa Dio di odiarlo e di usargli violenza. In realtà, almeno nei primi secoli, i Padri non hanno molto commentato il libro dei Giobbe e quindi non sappiamo gran che delle linee interpretative prevalenti in merito; ma anche questo è un testo che poneva dei problemi.

Del resto, testi problematici si leggevano anche all’interno dello stesso NT. Un esempio è la redazione lucana della «parabola dei talenti»: in Lc 19,11-27 tale parabola è raccontata mescolandola con la storia di Archelao, il figlio di Erode il Grande. Alla morte del genitore, Archelao andò a Roma per chiedere che il regno del padre fosse trasferito a lui; ma i Giudei inviarono un’ambasceria per contestarlo, in quanto non lo volevano assolutamente come governante. Archelao fu comunque nominato re e si vendicò facendo uccidere quei Giudei che avevano dichiarato di non volerlo. La versione lucana della parabola richiama appunto questa vicenda, sicché la figura del protagonista, che dovrebbe essere Dio stesso, è la figura di un re che fa uccidere coloro che lo rifiutano.

In quanto segue cercheremo di mostrare le linee principali di risposta della tradizione cristiana antica ai problemi sollevati dai testi biblici ricordati sin qui.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 20-02-2011, rivista dall’autore.

[2] L’intervento riprende con una certa libertà, e dando un po’ più di spazio alla problematica marcionita, quanto pubblicato in Bondavalli G. – Gianotti D., «La “violenza di Dio” nell’esegesi patristica fra II e III secolo»: Parola Spirito e Vita 37 (1998) 215-229.

[3] L’espressione «La legge di Mosè, i Profeti e i Salmi» corrisponde alla suddivisione della Bibbia ebraica, rispettivamente la Torah (i primi cinque libri), i «Profeti» (che per la Bibbia ebraica comprendono anche alcuni scritti che noi definiamo i libri «storici», quali Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, ecc.); infine «i Salmi», collocati, nella Bibbia ebraica, all’inizio del terzo ed ultimo gruppo, i cosiddetti «Ketubìm» («gli [altri] scritti»).

[4] Ad esempio l’intero Salmo 109 (108); o la parte finale del Salmo 137 (136)…

[5] Per un’informazione sommaria e una prima bibliografia fondamentale al riguardo, cf. S. Leanza, «Giosuè», in: Istituto Patristico Augustinianum, Dizionario patristico e di antichità cristiane diretto da A. Di Berardino [= DPAC], Marietti 1820, Genova-Milano 22006-2010, 2175-2178.

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