Leggere Qohelet sull’orlo dell’abisso

Ma per te anche il più infelice fra noi
trova dimora nel grande Libro,
o cantore della virtù inutile,
dissacratore di miti indistruttibili,
o Qohelet

(D. M. Turoldo)1

di Gianpaolo Anderlini

E’ significativo che la “XXXII Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei” sia dedicata alla Megillat Qohelet, al rotolo di Qohelet, o all’Ecclesiaste, per usare il termine proprio della Bibbia in lingua greca e latina. E’ significativo perché le parole di questo uomo che “oltre che essere sapiente insegnò al popolo la conoscenza” (Qoh 12,9), sono proposte a noi oggi in un tempo di grande difficoltà che sembra, nel suo perdurare, mettere in discussione tutto ciò su cui stavano saldi i nostri piedi, nel rapporto sia con gli altri uomini ed il mondo, sia con Dio; in un tempo in cui non sappiamo trovare risposte alle domande che ci assillano e tutto, come dice Qohelet, sembrano un vano affaticarsi sotto il sole.
Siamo sull’orlo dell’abisso e Qohelet è il nostro viatico o un’ancora di salvezza a cui aggrapparci, tutti: donne e uomini, malati e sani, credenti e non credenti.
Scrive mons. Ambrogio Spreafico nel presentare il Sussidio relativo alla XXXII giornata:
“Concludiamo quest’anno la riflessione comune sulle Meghillot fermando la nostra attenzione sul libro di Qohelet. Non ci poteva essere migliore coincidenza di questa che affrontare assieme, ebrei e cattolici, le domande che ci vengono da questo tempo di dolore e di morte con il libro di Qohelet. Infatti, proprio questo libro mette in discussione il senso della vita davanti al comune destino della morte. Scrive William P. Brown nel suo commentario: “Qohelet è un prodotto dello Zeitgeist (ndr: “spirito del tempo”): un’era di malinconia e di interrogativi, una cultura di morte e di disillusione” (Qohelet, Claudiana, Brescia 2012, p. 19)2. La pandemia ci ha afflitto ponendoci di fronte alla morte e alla fragilità dell’essere umano, che si è trovato a fronteggiare un male inatteso, mostrandosi impreparato e privo dei mezzi necessari per sconfiggerlo alla radice, nonostante i progressi della scienza. Quel sapere, che sembrava renderci padroni assoluti del creato, ha faticato e fatica ancora a opporsi a questo virus.”3
Di fronte a questo libro, difficile da comprendere nella sua complessità, nelle contraddizioni che lo animano e nell’apparente girare a vuoto delle parole che sembrano rincorrersi su sponde opposte, si sono trovate spesso impotenti le generazioni dei figli dell’uomo, da quando il libro è entrato nel canone della Bibbia ebraica (e, di conseguenza, in quella cristiana) fino ai nostri giorni. Per questo, quando ci si avvicina a Qohelet, si è fortemente condizionati dalla storia dell’interpretazione del libro e dalla modalità di lettura che, rispettivamente la tradizione ebraica e quella cristiana, hanno proposto e imposto.
La precomprensione ebraica passa attraverso l’interpretazione del Midrash e del Targum che fanno di Qohelet insieme un saggio e un pio che indica all’uomo qual è la via da seguire: affaticarsi nello studio della Torà.4
La traduzione in lingua aramaica di Qoh 1,3, ci indica chiaramente qual è la chiave di lettura che il pio ebreo deve seguire nelle leggere le parole di Qohelet:

“Che cosa rimane all’uomo dopo la sua morte di tutti gli sforzi che egli ha compiuto sotto il sole in questo mondo, a meno che egli non si sia dedicato allo studio della Torà, che gli consentirà di ricevere una piena retribuzione nel mondo a venire davanti al Maestro del mondo”. (Targum Qoh 1,3)

La precomprensione cristiana, invece, si è fondata per lungo tempo sulla lettura che ne fa Tommaso da Kempen nel De imitatione Christi: Qohelet, sulla scorta della traduzione di Girolamo, Vanitas vanitatum et omnia vanitas, diviene il portabandiera della vanità delle cose del mondo che in quanto tali devono essere disprezzate:

Vanitas vanitatum et omnia vanitas præter amare Deum et illi soli servire. Ista est summa sapientia per contemptum mundi tendere ad regna cælestia.

Vanità delle vanità e tutto è vanità eccetto l’amare Dio e servire lui solo. Questa è la somma sapienza: tendere al regno celeste tramite il disprezzo del mondo”. (De imitazione Christi, I, 3)

Se questo non è Qohelet, o forse queste letture sono solo volti tra i mille volti di Qohelet, non sono Qohelet nemmeno le letture che noi moderni imponiamo alle sue parole, anche se è vero che ogni generazione tende a leggerle con le domande e con i dubbi che le sono propri. Possiamo dire che esiste anche una precomprensione contemporanea che tende a fare di Qohelet un antesignano dei nostri dubbi esistenziali (e, perché no, teologici) o il nostro compagno nella vana e inutile ricerca del senso di una vita ormai orfana di Dio sotto il sole.

Allora, tra una lettura conservatrice che ne fa un asceta, un lettura peggiorativa che lo vede senza Dio e un migliorativa che riconosce in lui una spinta irrinunciabile alla ricerca dell’eterno, qualunque cosa sia, chi è Qohelet?
Qohelet è forse un pessimista ateo o è colui che cerca e trova Dio per altre vie?
E’ uno scettico deluso e disperato o uno scettico fedele?
E’ forse il filosofo dell’aurea mediocritas o il negatore del senso dell’etica e della giustizia?
E’ il predicatore della gioia o il negatore di ogni possibile felicità?
E’ l’ultima parola possibile della Bibbia o è parola che si apre ad altro e ci interroga oltre?
E’ la posizione della logica dei doppi pensieri o l’impossibilità di trovare un punto di equilibrio nelle contraddizioni della vita?
E’ una porta che si apre per tutti anche per quelli che non vogliono entrare o è la constatazione che entra solo chi non esce dalla tradizione in cui è nato?
Forse, per noi oggi figli del nostro tempo e di una condizione umana sempre più fragile, potrebbero bastare per leggere Qohelet le parole di Paolo De Benedetti che insistono sulla laicità delle vie percorse da Qohelet:

“Qohelet è un intellettuale che pensa “laicamente” in maniera singolarmente moderna e in polemica, ora tacita ora esplicita, contro il ben pensare religioso. Il suo punto d’appoggio religioso è la certezza che Dio c’è e che agisce: ma agisce in modo incomprensibile […] E’ di grande importanza che Qohelet sia stato incluso nel canone biblico: ciò significa che una religiosità così laica, conflittuale, critica, negatrice di tutta la tradizione, è legittimata addirittura come “parola di Dio”. Non dobbiamo vedere in questo qualcosa di contraddittorio, quanto piuttosto un’implicita ammonizione a coloro che si adagiano soddisfatti nel pensare religioso e che considerano il pensiero laico un affronto fatto a Dio”.5

E’ vero e, nello stesso tempo, non lo è del tutto, perché Qohelet, in modo implicito ma anche in modo esplicito, rilegge e reinterpreta la tradizione e il modo di concepire Dio e la storia contenuti nella Torà e nei Profeti. Il libro di Qohelet è parola di Dio perché analizza, demolisce e (forse, per alcuni, e certamente, per altri) ricostruisce la parola di Dio, così come si era sedimentata nei testi fino ad allora riconosciuti come tali. Il problema di fondo non sarà, pertanto, quello di individuare le eventuali citazioni da parte di Qohelet di passi di altri libri della Bibbia ebraica, ma quello di fare emergere le modalità del ricercare e dell’esplorare (Qoh 1,13) utilizzate da Qohelet.
Come sostiene Herztberg, possiamo porre un punto fermo in questa indagine: “Non c’è alcun dubbio: il libro di Qohelet è stato scritto con Genesi 1-4 davanti agli occhi dello scrittore; la visione di vita di Qohelet è costruita sulla base della storia della Creazione.”6 E potremmo aggiungere: con sotto gli occhi tutti i libri della Torà, Giobbe, i Salmi, i libri dei Proverbi ed i Profeti. La maggior parte, cioè, di quello che sarà, qualche secolo dopo, il Canone delle Scritture ebraiche.
I temi che affronta Qohelet non sono nuovi nella Bibbia ebraica. Sono nuove le domande che egli pone, prima fra tutte: מִ֣י יוֹ ד ע , “Chi sa?” (Qoh 3,21; 6,12), e sono nuove le strade che egli percorre per trovare possibili risposte o per aprire con la sua ricerca strade a domande fino ad allora inespresse ma già contenute nelle parole della Torà e dei Profeti.
Qohelet, dunque, non è un libro “stravagante” della Bibbia (Bickermann) o scandaloso, è tutt’altro: è, se letto nell’alveo della tradizione ebraica, una chiave capace di aprire dall’interno le porte delle stanze in cui sono racchiusi i significati dei passi della Bibbia (oltre i settanta che altre chiavi aprono). Cioè: nella Bibbia ebraica ci sono significati che possono essere detti solo purificando le parole del testo nel crogiuolo di Qohelet e, senza questo affinamento doloroso e insieme necessario, non si possono più e non si potranno più dire.
Detto in altre parole, Qohelet ci obbliga a fare continuo midrash delle parole della Scrittura partendo dal midrash che di quelle parole egli ha fatto, come è detto:

“E ho indirizzato il mio cuore a ricercare (לדְרוֹשׁ ) e a esplorare (לָתוּר ) con sapienza tutto ciò che accade sotto i Cieli 7: un’infelice occupazione che Dio ha dato ai figli dell’uomo per adoperarvisi”. (Qoh 1,13)

“Ricercare” (לדְרוֹשׁ ) indica l’indagine e la ricerca all’interno di un campo conosciuto, mentre לָתוּר esprime l’investigazione, come accade per gli esploratori inviati a perlustrare la terra d’Israele (Num 13, 2.16.17), di ciò che è sconosciuto o non ancora conosciuto; il primo si sviluppa lungo le vie tracciate dalla tradizione, mentre il secondo percorre le strade dell’innovazione (o del non noto) e apre la possibilità non solo di una parola altra, ma anche di una parola fuori dagli schemi fino ad allora consentiti. Qohelet, fin dall’inizio, sembra essere cosciente della duplice natura della sua indagine ed è per questo che, ad una prima lettura, può apparire pessimista perché vede che il suo esplorare condiziona e dirige il suo ricercare, perché sa che il suo ricercare, al contrario di ciò che insegnano i Profeti e la Sapienza d’Israele, si trasforma in un esplorare che lo conduce a non trovare nulla di ragionevole e di utile sotto il sole (cfr. Qoh 7,28).
Ma Qohelet non è rinchiudibile in questo orizzonte, basso e senza luce; in lui c’è sempre altro, un’altra sponda, un’altra parola, un’altra possibilità. Egli ha percorso un territorio da cui ha potuto trarre risposte e un altro che gli si è presentato come luogo oscuro che la ragione non sa e non può normalizzare. Egli è, allo stesso tempo, dentro e fuori dalla tradizione, dentro e fuori dalla Bibbia, ma lo è come chiunque ricerchi ed esplori; come ogni grande maestro sa, per usare parole che comunque la sapienza di Qohelet avrebbe potuto usare, trarre dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove (Cfr. Mt 13,52).
Se così stanno le cose, se Qohelet è allo stesso tempo dentro e fuori dalla tradizione, dentro e fuori dalla Bibbia, o se è la parola che apre la tradizione e che rende veramente detta per noi oggi le altre parole della Bibbia, è necessario andare in cerca del nostro Qohelet (ognuno il suo) e lasciarci guidare, come presi per mano, dalle parole di tre poeti che hanno qoheleticamente aperto il vaso della crisi dell’uomo del Novecento (e oltre) e ci trattengono sull’orlo dell’abisso, ed è solo scrutando l’abisso verso il quale siamo inesorabilmente condannati a scivolare nel nostro vivere sotto il sole che possiamo ritrovare ciò che sta e ci attende sopra il sole.
Oggi.
Con i nostri dubbi e con le nostre crisi, ma anche con la certezza che sicuramente c’è un luogo su cui possiamo posare il piede per non essere inghiottiti dall’abisso. 

1. Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale (1925) 8

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

2. La pietà (4) di Giuseppe Ungaretti (1928) 9

L’uomo, monotono universo,
crede allargarsi i beni
e dalle sue mani febbrili
non escono senza fine che limiti.

Attaccato sul vuoto
al suo filo di ragno,
non teme e non seduce
se non il proprio grido.

Ripara il logorio alzando tombe,
e per pensarti, Eterno,
non ha che le bestemmie.

3. Seconda notte di David Maria Turoldo 10

Piove e la notte è ancora più cupa, Qohelet.
Amico delle verità supreme,
neppure di te sai dire
se una fede e quale
ti illumini oppure ottenebri la mente.

Anche tu di nessuna verità puoi dirti certo,
tale è la rasura delle parole.
Meno ancora Ragione ti giova:
non un bagliore che rischiari

il campo dal dubbio: è legge
che Ragione deve contraddirsi.

E dunque, in cosa credere, o Qohelet?

A commento di questo testo scrive Gianfranco Ravasi:
“Qohélet scrive frasi sconvolgenti come: «Io ho odiato la vita». Padre David ha voluto intorno a questo autore costruire il libro, scritto in notti piovosissime, quando oramai la sua parabola umana stava concludendosi (morirà, infatti, dopo pochi mesi). Egli vede in Qohélet la «rasura della ragione», una ragione implacabile che taglia tutto, che però mostra, disperando e dubitando, che anche quando si è nel silenzio di Dio, nel vuoto più assoluto, anche in quel momento non possiamo dire che Dio non c’è perché quelle parole sono sotto l’ispirazione divina. Il che vuol dire che anche nel silenzio Dio parla, anche nell’ateo c’è una scintilla della parola di Dio.” 11

Forse, per non cadere nell’illusioni di avere letto e compreso un poeta attraverso le parole di chi l’ha letto, è bene ascoltare anche le riflessione con cui Turoldo introduce il suo percorso poetico su Qohelet:

“Perché di tali cose, presentando questa operetta su Qohelet? Per molte ragioni. Primo, perché Qohelet è un “picco” nella Bibbia: un libro-vetta; meglio un libro che ti porta senza rimedi al fondo dell’abisso. Gli abissi non sono che montagne rovesciate, vette che si fanno fondi oscuri del mistero. Tale è il libro di Qohelet: un autore, forse l’unico, che sia fra tutti un vero ateo. […] Qohelet è dunque uno che combatte dall’interno, a piena carica, quanto ogni pessimista della terra ma si è sognato o si sognerà. Ed è per merito suo che nella Bibbia – il “Grande Libro” nel cui richiamo concludo i miei canti -, anche i più radicali negatori trovano una loro collocazione, una loro ospitale dimora: il vero Dio, l’Ineffabile, cioè il nostro Dio, li accoglierà…”12

C’è un’aporia di fondo che vieta a Turoldo e ad altri con lui di vedere nelle parole di Qohelet il segno di una fede matura che, come tale, si muove in un territorio borderline e che non ha bisogno dell’abbraccio di Dio per essere fondata. Dio non è, per Qohelet, colui che si rivela e che si dà all’uomo sotto il sole, e questo è un limite insuperabile per chi, come cristiano, si pone al cospetto delle parole della Bibbia, a meno che non si veda in Qohelet l’istanza ultima di un uomo che non ha risposte e che lascia aperta ad altro il rivelarsi di Dio sotto il sole, in quell’incarnazione che riporta definitivamente Dio sotto il sole e l’uomo sopra il sole.
Ma questa è una (ri)lettura di Qohelet guidata dalla precomprensione cristiana, certamente valida e possibile, ma comunque non volta a fare emergere fino in fondo, o dal profondo, lo spirito che muove Qohelet.
Qohelet, la vibrazione delle cui parole sembra essere in sintonia con le perplessità e le crisi dell’uomo moderno, apparentemente non prospetta un oltre; egli sembra essere legato a un Dio che è esclusivamente nel suo luogo e non c’è qui in un rapporto io/tu, come avviene invece in Giobbe. Anche se sembra, pertanto, porsi come un “Giobbe che non ha superato la prova” (Bickermann), è comunque colui fa esplodere le “malattie dell’esistere”, come dice Ravasi, o “il male di vivere”, secondo le parole di Montale, o il limite congenito al monotono volgersi delle cose umane, secondo Ungaretti, o la “rasura delle parole” che vanifica anche la Ragione, nell’interpretazione di Turoldo. Ma Turoldo, in quel denso midrash poetico che dopo Qohelet si volge al Cantico dei cantici e a Giobbe, legge tra le parole di Qohelet quella dimensione che sembra negata ma che, in absentia o in potenza, esiste e si dà, e, per altre vie, ritrova quella prospettiva dell’oltre che la tradizione ebraica aveva comunque indicato:

“Così è. Sotto il sole. Ma oltre?

O Qohelet.” 13

Nel cammino di ricerca di Qohelet partiamo da un punto fermo, da uno dei tratti che caratterizza ed identifica in modo inoppugnabile il suo parlare.
Sotto il sole (תִ֣ חת השֶֶּׁ֔מֶשׁ , tàchat ha-shèmesh) 14.
L’espressione compare ventinove volte nella Bibbia ebraica, tutte nel libro di Qohelet, e costituisce una delle colonne portanti l’elemento delle riflessioni di questo anziano pensatore atipico e forse scandalizzante che tanto ha fatto discutere i Maestri prima di essere ammesso a pieno diritto nel canone biblico. E una volta entrate nella Bibbia le “parole di Qohelet, figlio di David, re in Gerusalemme” (Qoh 1,1) sono a tutti gli effetti parola di Dio e da esse non possiamo prescindere se vogliamo veramente provare a comprendere chi sia Dio per noi, oggi.
Di quale Dio ci parla Qohelet?
O meglio: qual è e chi è il Dio di Qohelet?
Sembra a prima vista un Dio impersonale, altro rispetto al Dio che parla e di cui parlano gli altri libri della Bibbia ebraica, Ester escluso.
Non è il Dio che si è rivelato ad Abramo, non è il Dio che ha liberato il suo popolo dall’Egitto, non è il Dio che ha donato la Torà al monte Sinai, non è il Dio che si prende cura dell’uomo e rimane fedele alle promesse. E’ un Dio imperscrutabile e non conoscibile, e del quale nulla possono dire la sapienza e la ragione; al cui cospetto l’uomo deve mantenere, possiamo dire, una distanza di sicurezza e usare prudenza, perché “Dio è nei cieli e tu sulla terra” (Qoh 5,1).
Nonostante questo, in Qohelet, anche se non compare mai il nome divino espresso dal Tetragramma sacro e se non c’è nessun dialogo Io/tu con Dio, c’è, comunque, una continua ricerca di Dio, anzi una sorta di ossessione. Il nome divino ha-Elohim 15, scritto con l’articolo determinativo, compare 32x e il semplice Elohim 7x, per un totale di 39x. A queste attestazioni va aggiunto “il tuo Creatore (alla lettera: i tuoi Creatori)” di Qoh 12,1.16 Di queste attestazioni 38 sono, usando la suddivisione introdotta dalla critica moderna, nel libro vero e proprio di Qohelet e due nella cosiddetta aggiunta ad opera del secondo epiloghista.
La riflessione su Dio ha un posto centrale nella prima parte del libro, parte in cui Qohelet riporta i risultati della sua ricerca e della sua esplorazione. Il passo non è di facile lettura e pone problemi interpretativi in particolare nelle parole di 15b, che rivelano uno dei lati del linguaggio di Qohelet: l’oscurità potremmo dire esoterica di parte dei suoi detti.

9 Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?
10 Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. 11 Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, in più egli ha messo la nozione dell’eternità ( אֶת־הָעלָֹ ם ) nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine. 12 Ho riconosciuto che non c’è nulla di meglio per essi, che godere e agire bene nella loro vita; 13 ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio. 14 Ho riconosciuto che qualunque cosa Dio fa è per l’eternità (לְעוֹלֶָּׁ֔ם ); non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché (gli uomini) abbiano timore di fronte a lui. 15 Ciò che è, già è stato; ciò che sarà, già è stato; Dio ricerca ciò che è già stato (lett.: ciò che è fuggito) 17.” (Qoh 3, 9-15)

E con tono sapienziale, abbandonando la riflessione in prima persona, così si esprime nella seconda parte del suo libro:

13 Osserva l’opera di Dio (אֶת־ מעֲ שִ֣ה הָאֱלֹ הִ֑ים ): chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? 14 Nel giorno lieto sta’ allegro e nel giorno triste rifletti: «Dio ha fatto tanto l’uno quanto l’altro, perché l’uomo non trovi nulla da incolparlo».” (Qoh 7,13-14).

Paolo De Benedetti così commenta il difficile e complesso passo di Qoh 3, 9-15:

“Direi che questi versetti (non per difetto, ma proprio perché rispecchiano nel modo più preciso il pensiero di Qohelet) sono un affollamento di contraddizioni. Si parla prima di un Dio che fa doni, che mette la nozione di eternità nel cuore dell’uomo. Sembra quasi un Dio interventista, tutt’altro che passivo. Ma poi si conclude con questa frase misteriosa: “Dio ricerca ciò che è già passato”. Che cosa significa questo mezzo versetto, che secondo me è rimasto per metà nel cuore di Qohelet, e per metà sulle sue labbra? Non lo si può spiegare analiticamente, ma vi vedrei semplicemente la ciclicità, che equivale alla permanenza, del tutto e di Dio. E’ un Dio che in qualche modo – sto per dire una cosa paradossale – è riconosciuto come attivo ed esistente a partire da ciò che avviene. Però non si può assolutamente ricavare nessuna legge né interpretazione di ciò che viene da parte di Dio.”18

E, ancora, per approfondire:

“Secondo lo spirito del Qohelet, Dio starebbe sopra i cieli, ma si tratta solo di un’immagine, in cui i cieli non sono la dimora di entità angeliche che attraversino spesso lo spazio celeste per venire in aiuto agli uomini. I cieli sono qui una tenda, una barriera che nasconde in modo totale e senza eccezioni il volto di Dio. Anzi, ho già detto qualcosa di troppo, perché noi non sappiano nemmeno se Dio abbia o no un volto.”19

Il Dio di Qohelet certamente non è il Dio che si nasconde (ha-mistatter) o che volge altrove il suo volto, per poi mostrarsi di nuovo nei tempi e nei modi da lui scelti per consolare e redimere Israele; è un Dio irraggiungibile, impenetrabile e incomprensibile che sembra agire (perché il Dio di Qohelet opera e agisce) come se l’uomo non dovesse intendere nulla del tutto che accade per opera divina. E’ forse il Tremendum che ci sovrasta e dal quale dobbiamo guardarci, ma dal quale non possiamo prescindere perché egli, volenti o nolenti, è e non ci permette di vivere e di agire etsi Deus non daretur.
E qui si pone un problema che percorre tutto il libro di Qohelet: l’oscurità e l’ambiguità del linguaggio che assieme alle contraddizioni che animano tutto il libro non permettono di dire con certezza quale sia il pensiero di Qohelet e cosa sia o chi sia il Dio di Qohelet.
In Qoh 3,11 è detto che Dio ha posto l’eternità ( הָעלָֹ ם ,ha-‘olam) nel cuore dell’uomo; è la stessa eternità (לְעוֹלֶָּׁ֔ם , le’olàm) di cui si parla al versetto 14?
In 3,11 il senso dell’eterno, come di solito si traduce, potrebbe essere l’elemento che separa l’uomo dagli altri esseri viventi, con i quali, d’altra parte, condivide sotto il sole la stessa sorte. Ma la parola, per la particolarità con cui è scritta in ebraico,20 può indicare anche “ciò che è nascosto” e, allora, sarebbe Dio stesso a porre nel cuore dell’uomo il senso stesso del divino ossia di quella alterità incommensurabile con cui l’uomo non può rapportarsi direttamente ma da cui non può prescindere.
Si crea, allora, un rapporto asimmetrico che, come due schiene contrapposte che non permettono agli sguardi di incontrarsi, costringe l’uomo (quello saggio, almeno) a non dimenticare mai la propria condizione e quella schiena che, forse oltre la cortina del luogo di Dio, incombe e si ripresenta perché nulla esce dalla ciclicità del tutto in cui l’uomo (e forse anche Dio) è imprigionato o nulla, secondo un’altra via interpretava, si dà diversamente da come Dio l’ha fatto.
Ed ecco, allora, emergere un aspetto che non ci aspetteremmo in quel Qohelet che tanti, senza dare ragione della bipolarità del uso pensiero, hanno classificato come ateo: il timore di Dio, che si presenta come lo scudo difensivo dell’uomo nei confronti di Colui-che-non-si-può-conoscere e come velo che tiene Dio al riparo da chi vorrebbe di nuovo alzare la voce, pregare e dire “tu” o solamente fare del fatto religioso un rapporto di do ut des, come se da tutto ciò, direbbe Qohelet, si potesse trarre un qualche vantaggio (yitròn). E’ quello che emerge da Qoh 3,14 e da altri passi, in particolare da Qoh 4,17-5,6, versetti in cui Qohelet esprime in modo chiaro quale deve essere il rapporto con Dio e con il sacro che a lui si accompagna sotto il sole:

17 Bada ai tuoi passi, quando ti rechi alla Casa di Dio. Avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non comprendono neppure di far male.

1 Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra (כִ֣י הָאֱלֹ הִ֤ים בשָ מי ם וְ אתִָ֣ה על־הָאֶָּׁ֔רֶץ ); perciò le tue parole siano parche, poiché

2 dalle molte preoccupazioni vengono i sogni e dalle molte chiacchiere la voce dello stolto (כְ סִ֖יל) .

3 Quando hai fatto un voto a Dio, non indugiare a soddisfarlo, perché egli non ama gli stolti (בכְ סי לִ֑ים ): adempi quello che hai promesso.

4 È meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli.

5 Non permettere alla tua bocca di renderti colpevole e non dire davanti al messaggero che è stata una inavvertenza, perché Dio non abbia ad adirarsi per le tue parole e distrugga il lavoro delle tue mani.

6 Infatti quando sovrabbondano sogni e vaneggiamenti si moltiplicano le parole. Tu invece temi Dio (אֶת־הָאֱלֹ הִ֖ים יְרָָֽא ).” (Qoh 4,17-5,6)

Così commenta il passo Luca Mazzinghi, che dà al tema del timore di Dio un ruolo centrale nella comprensione del pensiero di Qohelet:
“Davanti a Dio il culto esteriore non serve, i “sacrifici degli stupidi” non sono graditi a Dio, come i voti fatti alla leggera; le lunghe preghiere nel tempio con le quali l’uomo spera di essere gradito a Dio, di mutarne la volontà o riceverne i doni sono solo parole; ma soprattutto non servono i mezzi che la nascente apocalittica andava diffondendo: il sogno e, se accettassimo l’ipotesi di Rofé, le rivelazioni di angeli. Un’unica cosa è necessaria, davanti a Dio: temerlo. Il Qohelet sceglie, non a caso, il verbo forse più rappresentativo del vocabolario religioso d’Israele: in un epoca in cui “temere Dio” era diventato un concetto forse troppo formale, il Qohelet ne richiama i contenuti fondamentali. “Temere Dio” significa ascoltarlo, stare in silenzio davanti a lui, riconoscere e accettare il mistero della sua attività”.21

Il tema del timore di Dio è fondamentale per comprendere Qohelet e, forse, in tutti gli studi, le riflessioni e i commenti che hanno anatomizzato Qohelet scorgendo in lui mille e uno volti, non è stato affrontato in modo dovuto o non gli è stato riconosciuto il peso che invece riveste. Questo probabilmente perché quelle che sono le parole del cosiddetto secondo epiloghista hanno tratto in inganno:
“Conclusione del discorso, ogni cosa è stata ascoltata:
temi Dio e osserva i suoi precetti (אֶת־הָאֱלֹ הִ֤ים יְרָ א וְאֶת־ מצְוֺתִָ֣יו שְׁמֶּׁ֔וֹר ) perché questo è compito di ogni uomo, perché Dio porterà in giudizio ogni azione, ogni cosa nascosta, che sia buona o che sia cattiva.” (Qoh 12,13-14)

Si tratta di un tradimento del pensiero di Qohelet o di una sua normalizzazione per rendere il libro inseribile nel Canone?
Nulla di tutto ciò. L’epiloghista, che probabilmente è un discepolo dello stesso Qohelet o uno di una generazione successiva cresciuto alla scuola del suo pensiero, rende con parole che sono proprie del suo tempo quello che è il punto centrale del pensiero di Qohelet o del Qohelet, per usare la forma che compare in 12,9, e che tanto piace agli interpreti moderni.
Se tutto è vanità, vuoto e un vano affaticarsi, quindi se il fare non è risposta al destino dell’uomo, e se la sapienza non dà risposte, e quindi lo studiare e l’ascoltare non sono la chiave per comprendere chi siamo, quale può essere l’ancora di salvezza per l’uomo che, nonostante sia un soffio inutile, è pur sempre creatura di Dio (12,1) e ha in sé quel senso dell’eterno o del mistero che Dio stesso gli ha posto nel cuore?
Qohelet non ha dubbi (e con lui l’epiloghista): è il timore di Dio.
Come abbiamo già visto in 3,15, è Dio che vuole che l’uomo lo tema, mentre da 5,6 abbiamo appreso che il timore di Dio è la via propria dell’uomo nel rapporto con il Tremendum e l’Inconoscibile. E’ un timore che non ha forza proattiva ma che si riduce a rispetto e a distanza di sicurezza; è come se Qohelet ci mettesse in guardia: sappi di fronte a chi tu stai, non prendere le cose alla leggera e non fare di Dio (meglio della religione) un idolo a cui aggrapparti, perché Dio è quello che è non quello che vuoi tu.
Sarà questo un timore reverenziale, o forse solo paura, e certo non genera amore, ma è la risposta di chi dall’interno, senza annullare la Torà e ciò che comporta, prova a chiedersi come si deve vivere in una realtà che è in tutto e per tutto contraddittoria e in cui la mano, la voce e il volto di Dio non sembrano mai essere stati presenti o, se lo sono stati, ora non lo sono più.
Qohelet sembra dirci che quel Dio in cui si è creduto non c’è più, non parla più e non tende la sua mano per salvarci. Siamo soli e abbandonati a noi stessi, ma grazie a quel senso dell’eterno (o del nascosto) che è in noi, possiamo tentare di andare comunque in cerca di un qualche significato anche se non siamo ancora, sembra dirci Qohelet, capaci di trovarlo o non potremo mai trovarlo.
Allora, nel tempo della crisi e delle non certezze, la sapienza di un saggio che ha cercato e ha esplorato e che ha adeguato ai tempi nuovi le domande, ci insegna la via della prudenza. E il timore di Dio per Qohelet altro non è che questo.
Prudenza nel culto e nel suo luogo.
Prudenza nella preghiera.
Prudenza in ciò che non è richiesto direttamente dalla Torà.
Prudenza nelle parole.
Prudenza nella tentazione di cerare altre vie e un altrove.
E, si badi, la prudenza è necessaria perché Dio opera anche se noi non comprendiamo il senso del suo operare 22 o anche se non ne vediamo i riflessi qui ed ora e il suo operare è avvolto nel mistero perché non conosciamo più l’alfabeto che ha permesso ad altri e ad altre generazioni di comprendere il suo agire e di interagire con lui.
Dio ora non è parola rivelata, non cammina più con noi, è mistero intangibile e di fronte al mistero l’uomo può, come fa Qohelet, porsi a rispettosa distanza o, come farebbe un mistico, cercare di penetrarvi.
Qohelet non osa andare oltre, sa che nessuna via conduce da qualche parte quando si vuole penetrare Dio. Ci insegna a non confidare in nulla perché l’uomo non può discutere con Dio e su Dio: “Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle” (Qoh 1,8)! E in particolare sono le parole della sapienza a mancare l’obiettivo perché la sapienza porta affanno e il sapere dolore (Qoh 1,18) e Dio non si lascia raggiungere dalle nostre parole e del nostro ricercare:
16 Quando ho applicato il mio cuore a conoscere la saggezza e a considerare le cose che si fanno sulla terra, perché gli occhi dell’uomo non godono sonno né giorno né notte, 17 allora ho scrutato tutta l’opera di Dio e ho visto che l’uomo non può trovare quello che si fa sotto il sole; egli ha un bell’affaticarsi a cercarne la spiegazione, non riesce a trovarla; e anche se il saggio dice di saperla, non può però trovarla”. (Qoh 8, 16-17)

La sapienza può cercare e investigare, ma non può trovare. E, qui Qohelet, dice una parola altra rispetto alla parola della profezia.
Diceva Isaia: “Cercate Dio nel suo farsi trovare, invocatelo nel suo essere vicino”(Is 55,6).
Qohelet nega che Dio, in qualche modo, lo si possa trovare in un luogo o in un tempo stabiliti. Qualsiasi tentativo fallisce perché egli non è con noi e non è per noi, egli è nel suo luogo (nei cieli, dice Qohelet) e il suo operare non corrisponde alle nostre modalità di intendere e di comprendere, sotto il sole.
Detto in altre parole, Qohelet è il primo “teologo” nell’ambito della cosiddetta tradizione giudeo-cristiana, dico giudeo-cristiana perché il libro fa parte della Bibbia e riguarda sia gli ebrei sia i cristiani.
Egli, infatti, non parla a Dio, ma di Dio. La sua fede, inoltre, non è l’emunà ebraica o la pìstis cristiana, è un altro approccio, quello dell’interrogazione.
Egli, nel suo discorso su Dio (e nessuno può negare che il suo libro in ultima analisi sia un discorso su Dio), non ribalta la domanda rivolta da Dio ad Adamo: dove sei?
Non si chiede nemmeno: chi sei?
E neppure: cosa sei?
In lui non c’è nessun dialogo con Dio, nessun rapporto io/tu.
La sua domanda è: cosa mai è? La stessa domanda che i figl id’Israele si pongono nel deserto all’apparire della manna: מִָ֣ן הֶּׁ֔וּא , man hu’, “cosa mai è questo?” (Es 16,15). Dio, allora, è come la manna, ciò che, quando evapora la vacuità del tutto, troviamo, senza spiegazioni e senza sapere da dove viene, qui nel deserto delle nostre vite; ed è ciò di cui non possiamo fare a meno perché, in qualche modo la sua mano ci nutre e tutto viene da lui nei giorni che ci concede di vivere sotto il sole.
Ma quello che conta, alla fine del discorso, non è la manna/Dio ma il nostro camminare nel deserto verso la morte o verso un altrove sopra il sole, come insiste ad intendere la tradizione ebraica.
Ma Qohelet è, comunque, al di là delle interpretazioni e delle letture che ne diamo, e non si può andare a lui senza passare per la provocazione e senza tenere assieme i doppi pensieri.
Prima provocazione.
Qohelet è l’autore o un personaggio del libro?
In alcune parti ci appare come un personaggio, in altre come colui che dice “io”, ma soprattutto è il maestro le cui parole sono riportate dai discepoli.
Sette volte compare il termine Qohelet: sei scritte senza l’articolo (1,1.2.12; 7,27; 12, 9.10); una con l’articolo (12,8); tre contenute nella prima parte del libro; una a conclusione della seconda; due nell’epilogo finale. In una dice io (1,12); in tre si riporta che egli disse (1,2; 7,27; 12,8); in due si parla di lui (12, 9.10) e una, la prima (1,1), introduce il libro con la formula profetica “Parole di Qohelet”. Questa formula ci assicura che ciò che è detto è parola ispirata da Dio e per questo inserita, con tutte le discussioni che l’hanno accompagnata, nel canone biblico.
La domanda che dobbiamo porci non è chi fosse Qohelet (certo, dal punto di vista storico ed esegetico non Salomone), ma perché è chiamato con questo nome che in ebraico è un participio femminile (e sottolineo femminile). Tutto ciò che lo riguarda concorda al maschile, eccetto un caso (7,27) in cui il verbo “disse” in ebraico è alla terza persona femminile: “la Qohelet disse” (אָמְרִָ֖ה קהִֶֹ֑לֶת ). Gli esegetici e i commentatori trattano la forma come un errore dei copisti 23, ma nel testo tradito è così e con questa forma dobbiamo fare i conti e, se possibile, renderne ragione.
Rashi sostiene che la forma femminile del verbo sottintende che nel passo manchi la parola “anima” o la parola “sapienza” a fare da soggetto e che Qohelet, in questo caso, non sia un nome proprio o un nome di unzione, ma un semplice participio femminile, “colei che raduna, che raccoglie. Il passo va, allora, così inteso: “Ha detto la capacità intellettuale che ha raccolto (questi pensieri)”.
E’ una interpretazione interessante ma volta a giustificare ciò che è scritto come è scritto perché in quelle lettere e in quelle parole sono impressi i settanta sensi della Scrittura.
Allora, manteniamo e mettiamo in evidenza questo femminile e facciamolo con la provocazione che ci viene dalle parole, sempre profonde e stimolanti, di Amos Luzzatto:

“[…] perché il protagonista del libro ha un nome femminile? La risposta più semplice è: perché Qohelet, almeno “quel” Qohelet che parla, è proprio una donna.
Questo non è poi molto strano, perché sappiamo già che il re era circondato da donne, se ne interessava tanto che la sua prima sentenza da giudice riguarda una vertenza fra donne e che, unico fra i personaggi biblici, aveva avuto a che fare con una donna sapiente, la regina di Saba, che lo aveva addirittura esaminato (1Re 10,1) – e anche approvato! – per verificare le sue conoscenze.
E’ dunque possibile che si tratti anche qui di una donna sapiente, forse una sua allieva che gli fa da portavoce in vecchiaia, quando per lui potrebbe essere penoso parlare a lungo o ricordarsi dei tempi felici della gioventù nella fase terminale della vita, tanto realisticamente e crudamente descritta nell’ultimo capitolo, quasi con l’orrore di osservare se stesso divenuto vecchio e decrepito. Del resto anche suo padre David era ricorso in vecchiaia a una fanciulla, sia pure non qualificata come saggia e soltanto per farsi riscaldare; Salomone se non altro lo avrebbe fatto per comunicare meglio al vasto pubblico la sua saggezza accumulata nel corso degli anni.” 24

E’ una prospettiva interessante, certamente provocatoria e di rottura con le letture edificanti o distruttive del libro; è, comunque, uno stimolo a leggere con occhi diversi il libro.
Fate una prova.
Leggete il libro dall’inizio alla fine pensando a una Qohelet, a una donna, e vedete se da quelle parole escono altri sensi.
Un esempio.
In Qoh 3,2, nella prima coppia di tempi contrapposti al morire non si contrappone il nascere ma il partorire (עֵ֥ת לָלִֶ֖דֶת ), tratto nascosto nella maggior parte delle traduzioni (si pensi al tempus nascendi della Vulgata e alle versioni ufficiali in lingua italiana).
Un secondo esempio.
La tradizione qabbalistica ci insegna che i numeri hanno un valore particolare. Se prendiamo il cap. 3 e le 14 contrapposizioni che lo caratterizzano, otteniamo 28 tempi, numero che corrisponde al mese lunare e al mese femminile.
E’ un caso?

Forse, ma giocando sulla forma femminile, potemmo, allora, tradurre il nome Qohelet di 7,27, si tratti di un nome proprio o di una funzione, così: “Colei che raccoglie in assemblea”.
E chi è?
Stando alle parole di Qohelet è la sapienza che porta ad una conoscenza non finalizzata a se stessa ma, come nota il secondo epiloghista, ad essere insegnata al popolo (12, 9).

Seconda provocazione
“Abele degli Abeli, tutto è Abele”.
La parola guida del libro di Qohelet, secondo tutti i commentatori antichi e moderni, è , hèvel, tradotta quasi da molti con vanità: , “vanità”, dai LXX , vanitas da Girolamo, eitel, “futile, vano”, da Lutero, vanity dalla King James Version, vanità da Diodati. Gli esegeti moderni, stregti da lsuono e dal vuoto di questa parola-chiave, hanno tentano altre strade per meglio comprendere il pensiero di Qohelet: vuoto secondo Ravasi, soffio secondo Stefani e Mazzinghi, alito (fuggente) secondo Luzzatto, fumo secondo Lohfink, vapore, fumo secondo la D’Alario. E potremmo continuare con tutte le diverse proposte di lettura.
La parola compare 73 volte nella Bibbia ebraica di cui 38 nel libro di Qohelet ed indica, in senso reale e metaforico, qualcosa di inconsistente: un vapore, un alito, un soffio, qualcosa di vacuo e di evanescente e che è di breve durata.
Quello che sorprende in Qohelet è l’utilizzo frequente di questa parola e soprattutto il fatto che i suoi detti comincino con versetto in cui la parola è ripetuta ben cinque volte a rimarcare il fatto che il libro si svilupperà attorno a questa parola e alla forte carica che porta con sé; potremmo dire che tutto il libro di Qohelet non è altro che un midrash del versetto secondo del primo capitolo.
Va aggiunto che i detti di Qohelet si concludono, forse ad opera del primo epiloghista, con la ripresa dello stesso concetto (12,8), a creare un’inclusione che toglie ogni dubbio a chi volesse vedere in altro il cuore del pensiero di Qohelet.
Vediamo, allora, Qoh 1,2.
Ve lo leggo in ebraico per darvi il senso delle parole stesse dette da Qohelet:
הֲ בִ֤ל הֲבָ לי ם אָ מִ֣ר קהֶֶֹּׁ֔לֶת הֲ בֵ֥ל הֲבָ לִ֖ים הכֵ֥לֹ הָָֽבֶל׃
havèl havalim – amàr qohèlet – havèl havalim ha-kol hàvel.
Traduco utilizzando le parole di Ravasi: “Un immenso vuoto – dice Qohelet – un immenso vuoto, tutto è vuoto!”. 25 Perché “un immenso vuoto”? Per il fatto che l’espressione ebraica הֲ בִ֤להֲבָ לי ם , havèl havalìm, è da leggere come una forma di superlativo: vanità al massimo grado, vuoto senza fine.
Tutto è vuoto fumo, vapore, inconsistenza. E’ questo un pensiero che una volta detto non abbandona più chi si nutre della Parola di Dio. Si pensi alla citazione implicita in Giacomo 4,14:
ποία ἡ ζωὴ ὑμῶν– ἀτμὶς 26 γάρ ἐστε ἡ πρὸς ὀλίγον φαινομένη, ἔπειτα καὶ ἀφανιζομένη–
“Cos’è la vostra vita? Voi siete un vapore che appare per poco e poi scompare.”

Oppure si ascoltino le parole di Paolo in Romani 8,20-21, che certamente rileggono quelle di Qohelet secondo la versione dei LXX:
20 τῇ γὰρ ματαιότητι ἡ κτίσις ὑπετάγη, οὐχ ἑκοῦσα ἀλλὰ διὰ τὸν ὑποτάξαντα, ἐφ᾽ ἑλπίδι 21ὅτι καὶ αὐτὴ ἡ κτίσις ἐλευθερωθήσεται ἀπὸ τῆς δουλείας τῆς φθορᾶς εἰς τὴν ἐλευθερίαν τῆς δόξης τῶν τέκνων τοῦ θεοῦ.
“la creazione infatti è stata sottomessa alla vanità (ματαιότητι), non per suo volere ma per volere di colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavit della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”.
Dopo Qohelet, nell’ambito di una riflessione che provenga dalla Bibbia e dalla sua interpretazione, chi usa, come Paolo, ματαιότη mataiòtes, lo fa sapendo il peso che quella parola porta con sé.
In Qoh 1,2 compare un’altra parola chiave: הַכֹּ֥ ל , ha-kol, “il tutto”, termine che appartiene al linguaggio, che potremmo dire filosofico, proprio di Qohelet. Egli ne fa uso 18 volte su 61 attestazioni nella Bibbia ebraica. Secondo alcuni interpreti va inteso in senso ontologico a designare l’essere, secondo altri, e forse a maggior ragione, indica semplicemente tutto ciò che accade sotto il sole, in senso esperienziale e esistenziale.
Dobbiamo dirlo, anche se alcuni esegeti hanno fatto di Qohelet un filosofo influenzato dai pensatori greci, dai cinici in particolare, in realtà egli è semplicemente un chakàm, un saggio, cresciuto alla scuola d’Israele, come mostra la maggior parte dei suoi detti e, in particolare, la seconda parte del libro.
Ma torniamo a hével. Va aggiunto che non per noi ma per un ebreo che legge il testo, il richiamo diretto è a un altro hével, al nome proprio con cui in ebraico è chiamato Abele. Anche se non abbiamo modo di approfondirlo ora, si può affermare che tutto quanto il libro di Qohelet non è comprensibile senza un richiamo continuo e diretto a Genesi 1-4.
Allora il testo suonerebbe così: “Abele degli Abeli – ha detto Qohelet – Abele degli Abeli, il tutto è Abele”.
Questo rapporto diretto con Abele è una grande intuizione di André Néher:
“Non si riferisce ad una cosa, bensì ad un uomo. è il secondo figlio di Adamo. Quello che, nelle nostre traduzioni della Genesi, siamo abituati a chiamare Abele. Quando la Bibbia dice:, siamo dunque di fronte ad un’anfibologia. Il testo può designare al contempo la nozione di vapore e l’uomo che, nel racconto biblico, incarna questa nozione. Gli esegeti di Qohèlet, per quanto ne so, non hanno messo in evidenza questo dato e, a maggior ragione non ne hanno tenuto conto. Eppure mi sembra assai importante in quanto permette di scoprire un primo senso possibile della ricerca filosofica del Qohèlet. Questa ricerca mette in relazione il destino al mito di un personaggio che fu investito di un ruolo particolare nella storia delle origini dell’umanità.” 27

E ancora scrive:
“Quel tutto è un inseguire il vento: non c’è alcun vantaggio sotto il sole potrebbe essere ora tradotto: sotto il sole gli uomini sono compagni di Abele, sostituiscono i suoi figli e camminano con lui di cui sono i rappresentanti.” 28
Proviamo, allora, a cambiare il punto di vista e a leggere Qohelet con gli occhi di hével/Abele e forse tutto tende a ricompattarsi e a consegnarci, pur nell’inconsistenza delle cose sotto il sole, la chiave per decodificare il destino dell’umanità.
Se tutto è Abele, tutto si dà nella mancanza e nell’assenza, proprio perché tutto è “un pascolo di vento” ( רְעֵ֥וּת רָֽוּ ח , re‘ùt rùach) (Qoh 1,14).29 Ma tutto è anche continuare ad essere la voce dei sangui di Abele che gridano dal suolo, allora come ora. Essere hèvel/Abele per strappare, per quanto è possibile, il mondo dalle mani di Caino, da chi vorrebbe fare di tutto un acquisto senza riconoscere che tutto è nelle mani e dalle mani di Dio.

Terza provocazione.
Tutto è fatica inutile e tutto è gioia.
Abbiamo detto che il libro di Qohelet è il libro delle antinomie o dei doppi pensieri, questo non perché Qohelet non abbia le idee chiare o perché ci siano nel libro due Qohelet, ma perché la vita sotto il sole non è facilmente inquadrabile in uno schema unico e definito.
Cosa succede all’uomo sotto il sole?
Egli si affatica inutilmente nella ricerca di ciò che è utile e forse di ciò che è bene ma nessun vantaggio ne trae, perché tutto è solo “un pascolare il vento”.
Il fare muta, secondo Qohelet, di direzione, sia che si tratti di ciò che l’uomo compie sia dello sforzo per comprendere le cose. Tutto è fatica, detto con la parole proprie di Qohelet:
מה־י תְרִ֖וֹן לָאָָֽדִָ֑ם בְכָל־עֲמָלֶּׁ֔וֹ שֶָֽׁי עֲמִ֖לֹ תֵ֥ חת השָָֽמֶשׁ׃
“Che vantaggio per l’uomo c’è in tutta la sua fatica con cui si affatica sotto il sole?” (Qoh 1,3).
Qui compare un’altra parola-guida del complesso linguaggio di Qohelet:, “fatica, pena”, tradotto da Gerolamo con labor.30 Rappresenta secondo le parole di Ravasi: “il lavoro pesante e faticoso, meccanico e non creativo. […] E’ questa una delle maledizioni dell’uomo: «Con fatica trarrai il cibo dal suolo per tutti i giorni della tua vita!» (Gn 3,17). Siamo ben lontani dall’entusiasmo con cui la sapienza tradizionale descriveva le capacità straordinarie dell’homo faber.”31
Nel libro è soprattutto nel capitolo 2 che viene espresso il senso di fatica che accompagna la vita dell’uomo:

כי מֶָֽה־הוִֶֹ֤ה לָאָָֽדָ ם בְכָל־עֲמָלֶּׁ֔וֹ וּבְ רעְיִ֖וֹן לבִ֑וֹ שֶׁהֵ֥וּא עָ מִ֖ל תֵ֥ חת השָָֽמֶשׁ׃

Per l’uomo cosa mai ne è di tutta la fatica e del tormento del suo cuore con cui fatica sotto il sole? (Qoh 2,22).
Tutto ha visto e tutto ha provato Qohelet e tutto è fatica che affatica invano il cuore dell’uomo. Non c’è il senso positivo del fare e nemmeno il valore creativo dell’agire dell’uomo che muta e trasforma il mondo. Per Qohelet l’agire dell’uomo è , “fatica”, e , “opera” o il semplice fare, e tutto sembra un vano e faticoso rincorrere il nulla.32
Ma Qohelet ancora una volta ci sorprende e ci invita, con sano realismo, a considerare un aspetto fondamentale della vita, che la tradizione ebraica ha messo in evidenza tanto da prescrivere la lettura del libro durante la festa di Sukkòt, la festa della gioia:
אָֽין־טִ֤וֹב בָאָדָ ם שֶׁיאֹ כִ֣ל וְשָׁתֶָּׁ֔ה וְהֶרְאָָ֧ה אֶת־נ פְשׁׁ֛וֹ טִ֖וֹב בעֲ מָלִ֑וֹ גם־ז ֹ ה רָ אִ֣י תי אֶָּׁ֔נ י כׁ֛י מ יֵ֥ד הָאֱלֹ הִ֖ים הָֽיא׃ 
כִ֣י מֵ֥י יאֹ כׁ֛ל וּ מֵ֥י יָחִ֖וּשׁ חֵ֥וּץ ממֶָֽנ י׃ 
“Non c’è nulla di meglio nell’uomo che mangiare e bere e vedere con la sua anima il bene nella sua fatica. Anche questo ho visto che è dalla mano di Dio.
Chi, infatti, può mangiare e chi essere soddisfatto senza di lui?” (Qoh 2,24-25).

Sembrano parole non di Qohelet, ma in realtà questo è Qohelet, a tal punto che il richiamo a mangiare e bere e a godere di ciò che la vita dà compare altre sei volte: 3, 12-13; 3,22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,9.
In particolare sono gli ultimi tre passi ad avere il maggior contenuto provocatorio.
Vediamo il primo passo.

וְ שׁ בִ֤חְ תָֽי אֲנ י אֶת־ ה שמְחֶָּׁ֔ה אֲשֶֶׁׁ֨ר אָֽין־טִ֤וֹב לָאָָֽדָ ם תִ֣ חת השֶֶּׁ֔מֶשׁ כׁ֛י אם־לֶאֱכֵ֥וֹל וְ לשְׁתִ֖וֹת וְ לשְמִ֑וֹ ח וְה֞וּא י לְוִֶ֣נוּ
בעֲמָלֵ֗וֹ יְ מֵ֥י חיָׁ֛יו אֲשֶׁר־נָ תן־לֵ֥וֹ הָאֱלֹ הִ֖ים תֵ֥ חת השָָֽמֶשׁ׃

“E ho lodato la gioia (ה שמְחֶָּׁ֔ה ) perché non c’è nulla di meglio per l’uomo sotto il sole se non mangiare, bere e gioire ( וְ לשְמִ֑וֹ ח ) e questo l’accompagnerà nella sua fatica per i giorni della sua vita che il Signore gli dà sotto il sole”. (Qoh 8,15)
Vediamo il secondo passo.
לִ֣ךְ אֱכִ֤לֹ בְ שמְחָ ה לחְמֶֶּׁ֔ךָ וָּֽשֲׁ תֵ֥ה בְלֶב־טִ֖וֹב י ינִֶ֑ךָ כִ֣י כְבֶָּׁ֔ר רָצֵָ֥ה הָאֱלֹ הִ֖ים אֶָֽת־ מעֲשֶָֽיךָ׃ 7
בְכָל־ עת י הְיֵ֥וּ בְגָדִֶ֖יךָ לְבָ נִ֑ים וְשִֶׁ֖מֶן על־ראֹשְׁךֵָ֥ אַל־יֶחְסָָֽר׃ 8
רְ אה חיִּ֜ ים עם־ אשִָ֣ה אֲשֶׁר־אָ הבְתָ כָל־יְ מ י ח יִ֣י הֶבְלֶֶּׁ֔ךָ אֲשִֶׁ֤ר נָ תן־לְ ךָ תִ֣ חת השֶֶּׁ֔ מֶשׁ כִ֖לֹ יְ מִ֣י הֶבְלִֶ֑ךָ 9
כִ֣י הִ֤וּא חֶלְקְ ךָ בָֽ חיֶּׁ֔ ים וּ בעֲמִָ֣לְךֶָּׁ֔ אֲשֶׁר־ אתֵָ֥ה עָ מִ֖ל תֵ֥ חת השָָֽמֶשׁ׃

“7. Va’ mangia con gioia il tuo pane e bevi con cuore lieto il tuo vino perché Dio ha già gradito le tue opera. 8. In ogni tempo le tue vesti siano bianche e non manchi olio sul tuo capo.
9. Vedi la vita con la donna che ami tutti i giorni della tu vita fugace che (Dio) ti ha dato sotto il sole, tutti i giorni della tua vita fugace perché questa è la tua parte nella vita e nella tua fatica con cui ti affatichi sotto il sole.” (Qoh 9,7-9)

Ed ora il terzo.

שְ מָ֧ח בָחִ֣וּר בְי לְדוּתֵֶ֗יךָ ויָֽ טָֽיבְךִָ֤ לבְ ךָ בי מִ֣י בְחוּרוֹתֶֶּׁ֔ךָ וְ ה ל ךְ בְ דרְ כִ֣י לבְךֶָּׁ֔ וּבְ מרְ אִ֖י עינִֶ֑יךָ וְדֵָ֕ע כָ֧י על־כָל־ אׁ֛לֶה
יְ בָֽיאֲךֵָ֥ הָ אֱלֹ הִ֖ים ב משְׁפָָֽט׃

Gioisci, giovane, nella tua fanciullezza e rendi felice il tuo cuore nel giorni della tua giovinezza; cammina lungo le vie del tuo cuore e assecondando quello che i tuoi occhi vedono, ma sappi che su tutto ciò Dio ti porterà in giudizio” (Qoh 11,9)

Questi sette riferimenti alla gioia sono problematici ed hanno disorientato i commentatori e gli esegeti tanto che, come del resto avviene per tutto il pensiero di Qohelet, si danno interpretazioni contrapposte. Lasciamo ad altri il compito di dirimere la questione e limitiamoci ad un’osservazione.
Qohelet parla di “gioia”, di “gioire” e di “vedere” e mai usa in questi sette passi espressioni che indichino il godere o il piacere33 e già questo è un indizio, e lo fa sempre al termine di una serie di riflessioni che mettono in evidenza la vanità dell’affaticarsi dell’uomo, eccetto nell’ultima attestazione che funge da introduzione al bellissimo poemetto sulla vecchiaia di Qoh 12, 1-7. E, cosa per noi più interessante, in tutti i sette passi la gioia è sempre in rapporto con Dio: ciò di cui si gioisce viene dalla mano di Dio o è un suo dono (2,23-24; 3,13; ); si gioisce nei giorni della vita concessi da Dio (5,17; 8,15 ); si deve gioire perché Dio ha già accettato le opere dell’uomo (9,7); si deve gioire pur sapendo che Dio ce ne chiederà conto (11,9). Solo in 3,22 non c’è riferimento a Dio ma si parla del gioire della propria opera perché questa è l’unica parte è concessa all’uomo.34
Allora, come considerare questa sorta di inno alla gioia 35?
Non è consolazione per il vuoto che ci accompagna nell’inutile fatica di vivere e non è nemmeno il cogliere profitto da ciò che nonostante tutto possediamo, c’è molto di più e ce lo dice, col solito linguaggio ambiguo di Qohelet, il passo di 11,9: “ma sappi che su tutto ciò Dio ti porterà in giudizio”.
A prima vista potrebbe sembrare un insegnamento sapienziale di stampo etico-morale del “secondo” Qohelet, come a dire: sta’ attento a come gioisci del beni perché Dio ti chiederà conto delle trasgressioni. Così inteso sarebbe un invito alla moderazione, a quell’aurea mediocritas di cui alcuni esegeti parlano. O, forse, letto in direzione opposta, potrebbe essere un invito a fare propria la logica del carpe diem.

In realtà quelle parole si possono leggere anche in un’altra direzione. Qohelet, in un epoca di passaggio, sull’orlo dell’abisso come noi (potremmo dire), si pone domande a cui daranno risposte altri dopo di lui: i Maestri del giudaismo rabbinico.
Nei limiti consentiti dalla Torà (e, si badi, Qohelet non mette in discussione in nessun modo la Torà e il suo contenuto normativo) l’uomo è chiamato a gioire dei beni che il Signore gli ha dato per vivere la vita in pienezza e, come insegnano i Maestri del giudaismo rabbinico, Dio, quando saremo chiamati in giudizio, ci chiederà conto dei beni che ci ha dato e di cui non abbiamo gioito.
Ecco, allora, un’altra modalità per leggere Qohelet: egli è colui che anticipa le istanze di quella parte del giudaismo antico, o del primo giudaismo come si dice oggi, che formeranno la base dell’ebraismo rabbinico e, poi, dell’ebraismo come oggi lo intendiamo.
Detto in altre parole: non ci sarebbe ebraismo (e, di conseguenza, anche cristianesimo) senza le istanze di Qohelet.

Quarta e ultima provocazione.
Nelle Bibbie rabbiniche la prima lettera di Qoh 12,13, la lettera samekh, è scritta più grande delle altre ( סוֹף , sof, “termine, fine”).
Perché?
Nella Scrittura ogni elemento, anche il più piccolo e apparentemente insignificante, è portare di senso e va considerato perché Dio è nel dettaglio e in quella lettera samekh scritta in forma diversa dalle altre lettere c’è un insegnamento che siamo chiamati a ricercare e ad esplorare.
Forse vuole insegnarci che le parole di Qohelet si aprono sulla samekh cioè sul mistero (, sod) di Dio, col quale in qualche modo ogni uomo, sia che creda sia che non creda, è chiamato a confrontarsi.
Qohelet, allora, è la parola ultima, forse estrema e destabilizzante, ma della quale (oggi più di ieri) non possiamo fare a meno.
Se si potesse ridisegnare il canone della Bibbia, sia di quello discendente della Bibbia ebraica sia di quello ascendente della Bibbia cattolica, io metterei il rotolo di Qohelet come ultimo libro della Bibbia ebraica e del Primo Testamento, perché alle domande devastanti che Qohelet pone l’ebreo può trovare risposta nel “faremo e ascolteremo”, senza bisogno di un Dio che parli ancora; il cristiano può volgere lo sguardo a Ges che nel condividere la sorte dell’uomo porta di nuovo Dio sotto il sole e l’uomo sopra il sole; chi vive nel dubbio può trovare in Qohelet quella mano tesa che non trova altrove; in Qohelet, l’ateo e l’agnostico, incontrano non chi dà ragione alle loro istanze ma chi non li esclude perché la loro, come quella di Qohelet, è una via diversa di dire e di incontrare il divino che è in noi e oltre di noi.
Termino con le parole di Paolo De Benedetti:

“Nella storia di Israele, il tormento qoheletico riemerge di tanto in tanto: pensiamo a Jochanan ben Zakkaj ammalato, che rifiutava i dolori e la ricompensa dei dolori, a Elisha ben Avujà, che apostatò vedendo morire colui che, osservando il precetto di Deuteronomio 22 sui nidi, aveva lasciato libera l’uccellina madre, e anziché ottenere la lunga vita promessa era stato morso da un serpente. O pensiamo a Yossl Rakover, personaggio simbolico, ma quanto mai reale nella sua mortale contesa con Dio. Ecco, il Qohèlet è come una porta attraverso la quale qualcuno in passato (quando il libro era letto come programma ascetico) andava non solo verso il Dio di Giobbe, ma anche verso il Dio di Abramo. Una porta sulla cui soglia si ferma, senza chiuderla alle sue spalle, il lettore moderno la cui fede si riconosce nelle parole di Qohèlet 3,21: «Chi sa?»”.36
מִ֣י יוֹ ד ע , mì yodèa, “chi sa?”, è la domanda che Qohelet si pone quattro volte, tre delle quali (2,19; 3,21; 6,12) sono legate alla sorte finale dell’uomo che lo accomuna a tutti gli altri esseri viventi e all’impossibilità di conoscere ciò che avverrà dopo di lui.37
Qohelet, allora, con questa domanda ci invita non allo scetticismo come se non ci fosse nessuna risposta possibile, ma ad essere concentrati sulla nostra opera, qui ed ora, sotto il sole, per vivere, anche se tutto sembra vuoto e inutile, al massimo grado di pienezza e con gioia tutto ciò che Dio ci concede nei giorni della nostra vita, perché tutto viene da Dio e tutto è opera sua.
Questa è la sola certezza che le parole di Qohelet ci consegnano mentre ci invitano a non tentare mai la scalata del cielo e a rimanere, nonostante tutto, uomini in cerca di Dio, sotto il sole.


1 D. M. Turoldo, Mie notti con Qohelet, Garzanti, Milano, 1992, p. 38.
2 Aggiungo, per chiarire meglio il pensiero di Brown, il seguito: “Tali parallelismi, soprattutto quelli che ci vengono dall’Egitto, confermano ciò che è dolorosamente chiaro nell’«autobiografia» di Qohelet: il libro è, fondamentalmente, un necrologio, in verità il necrologio della vita stessa. Come ha acutamente notato H. Wheeler Robinson, «introno al libro aleggia davvero l’odore della tomba»” (Qohelet, Claudiana, Brescia 2012, p. 19).
3 Sussidio per la XXXII Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei: 17 gennaio 2021, UNEDI, p. 4.
4 Qohelet rabbà 1,3: “Che vantaggio c’è per l’uomo in tutta la sua fatica con cui si affatica sotto il sole (1,3)? Disse rabbi Binyamin: I saggi cercarono di nascondere il libro di Qohelet dopo che vi avevano trovato parole che possono indurre all’eresia. Dissero (i saggi): Ecco tutta la saggezza di Salomone che giunse a dire: quale vantaggio ha l’uomo di tutta la sua fatica che compie sotto il sole? (Qoh 1,3). Queste parole possono riferirsi alla fatica nello studio della Torà. Tornarono a considerare la questione e dissero: Non dice di tutta la fatica ma di tutta la sua fatica, non si tratta della fatica in senso generale, ma della fatica di colui che si affatica nello studio della Torà”. Tutto il paragrafo, di cui ho riportato solo la parte iniziale, mostra i dubbi e le relative soluzioni che sono state trovate dai Maestri d’Israele per inserire definitivamente Qohelet nel canone biblico.
5 P. De Benedetti, “In mezzo al villaggio. La dimensione della laicità nell’ebraismo”, Qol, n. 11-12 (1987), p. 4.
6 H. W. Hertzberg: “Es ist kein Zweifel: das Buch Qoh ist geschrieben mit Gn 1–4 vor den Augen seines Verfassers; die Lebensanschauung Qoh’s ist an der Schöpfungsgeschichte gebildet” (Der Prediger [KAT 17/4], Gütersloh, Mohn, 1963,p. 230).
7 In questo schizzo autobiografico Qohelet usa l’espressione “sotto i cieli” e non l’usuale “sotto il sole”. L’espressione compare altre due volte.
8 E. Montale, Ossi di seppia,Torino, Piero Gobetti Editore 1925.
9 G. Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1974, p. 171. Il testo, parte finale della poesia La pietà, è tratta dalla raccolta Sentimento del tempo.
10 D. M. Turoldo, Mie notti con Qohelet, Garzanti, Milano, 1992, p. 28.
11 Gianfranco Ravasi, “Quando la fede incontro la poesia: David Maria Turoldo”, in http://rosanecessaria.blogspot.com/2014/09/gianfranco-ravasi-su-turoldo-n-0.html
12 D. M. Turoldo, Mie notti con Qohelet, Garzanti, Milano, 1992, p. 21-22.
13 D. M. Turoldo, “Prima notte”, in Mie notti con Qohelet, Garzanti, Milano, 1992, p. 27.
14 Nel libro di Qohelet compare 3x anche l’espressione תִ֣ חת השָ מי ם , tàchat ha-shamàyim, “sotto i cieli” ( 1,13; 2,3; 3,1). In totale l’espressione compare 11x nelle Bibbia ebraica.
15 L’uso di ha-Elohim anche se caratteristico nella lingua di Qohelet non è una sua prerogativa esclusiva: nella Bibbia ebraica compare infatti 375. Nelle attestazioni fuori dal libro di Qohelet i commentatori non ritengono che il termine esprima la divinità in senso generale.
16 Nel versetto la parola è al plurale: “i tuoi Creatori”. Lo si può intendere, secondo l’opinione di molti, come un plurale maiestatis. Quello che è importante è che usato il verbo , barà, “creare”, proprio dell’atto creativo di Dio come narrato in Gen 1. E’ questo un altro elemento che collega il libero di Qohelet a Gen 1-4.
17 Non è possibile approfondire qui la complessità e la difficoltà interpretativa di 3,15b. La traduzione migliore potrebbe essere: “Dio ricerca (i tempo) fuggito”. Per una panoramica delle interpretazioni rimando a: L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato. Studi su Qohelet, EDB, Bologna, 2001, pp. 233-236.
18 P. De Benedetti, Qohelet. Un commento, Morcelliana, Brescia, 2004, p. 55.
19 P. De Benedetti, Qohelet. Un commento, Morcelliana, Brescia, 2004, p. 53.
20 In Qoh 3, 11 la parola הָעלָֹ ם , ha-‘olam, è scritta in forma difettiva senza la waw per segnare la vocale. La struttura consonantica della parola permette, quindi, una lettura diversa.
21 L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato. Studi su Qohelet, EDB, Bologna, 2001, pp. 261-262.
22 Dell’opera di Dio Qohelet parla in tre passi: 7,13; 8,17; 11,5.
23 Molti propongono di emendare il testo e di leggere con un semplice spostamento della lettera: ‘amar ha-qohélet, “disse il Qohelet”.
24 A. Luzzatto, Chi era Qohelet?, Morcelliana, Brescia, 2011, p. 7.
25 G. Ravasi, Qohelet, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1988, p. 63.
26 Il greco ἀτμὶς, “vapore”, corrisponde alla traduzione di fatta da Aquila, Simmaco e Teodozione.
27 A. Néher, Qohèlet, Gribaudi, Milano, 2006, pp. 46-47.
28 A. Néher, Qohèlet, Gribaudi, Milano, 2006, p. 54.
29 L’espressione compare solo 7x e tutte in Qohelet: 1,14; 2,11.17.26; 4,4.6; 6,9.
30 Il verbo compare 12x nelle BH di cui 8x in Qohelet; il sostantivo compare 55x di cui 22x in Qohelet; l’aggettivo 9x di cui 5 in Qohelet.
31 G. Ravasi, Qohelet, Edizioni Paoline, Cinisello Basalmo (Mi), 1988, pp. 69-70.
32 In Qoh 9,1 compare al plurale la parola aramaizzante ‘avàd, “opera”. Si tratta di un hapax e pertanto di una attestazione particolarmente significativa. Come aramaismo corrisponde all’ebraico ma‘asé, ma viene da chiedersi perché Qohelet l’abbia usato in quel preciso contesto. Sta parlando, infatti, delle opere dei Sapienti e dei Giusti e non dell’opera dell’uomo in generale (o di Dio). Allora, la loro opera si presenta non come un semplice fare, ma come ‘avodà, “lavoro, servizio”. E’ questo un punto su cui bisogna riflettere e approfondire.
33 Il termine che indica piacere ( , chèfetz) è usato in altre situazioni per esprime la vacuità della sua ricerca: 3,1.17; 5,3.7; 8,6;12,1.10. Come verbo in 8,3.
34 In Qoh 3,22 non si parla di “fatica” ma di “opere” dando a queste una caratteristica specifica: sono ciò che differenzia l’uomo dagli animali con cui condivide la medesima sorte.
35 In Qoh 2,1-2 si nega la possibilità della gioia e del riso: “1 Io ho detto in cuor mio: «Vieni! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu vedi il bene!». Ed ecco che anche questo è vanità. 2 Io ho detto del riso: «È una follia»; e della gioia: «A che giova?»”.