Letture festive – 169. Fragili – 30a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

30a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 27 ottobre 2024
Dal libro del profeta Geremìa – Ger 31,7-9
Dalla lettera agli Ebrei – Eb 5,1-6
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 10,46-52


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letture festive 169

Le parole che il profeta Geremia mette sulla bocca del Signore Dio riguardano in modo particolare due categorie di persone fragili, anche se per ragioni molto diverse tra loro: il cieco e lo zoppo, da una parte, e la donna incinta e la partoriente dall’altra. Come odierni lettori con Dio o senza Dio di questa pagina veterotestamentaria potremmo essere colpiti anzitutto da questo accostamento tra persone che sembrano trovarsi in condizioni di fragilità radicalmente differenti, pur essendo tutte determinate da una particolare condizione del proprio corpo. Da una parte la fragilità del cieco e dello zoppo dipende dall’essere impediti in modo parziale ma permanente nell’abitare, nell’attraversare e, per il cieco, anche nel cogliere visivamente la realtà del mondo. Si tratta di persone fragili in quanto sottoposte a oggettive limitazioni nella potenziale vitalità e pienezza del loro abitare il mondo, un mondo che invece – a parità di altre condizioni – le persone non soggette a queste fragilità possono abitare con maggiore vitalità e pienezza. Dall’altra parte, invece, l’essere fragile della donna incinta e della partoriente si collega paradossalmente a una sorta di temporanea, preziosa ma anche pesante, eccedenza di vita nell’abitare il mondo. Questa eccedenza di vita dipende dalla condizione di attesa che una nuova esistenza umana inizi ad abitare il mondo. Ma ciò comporta una particolare fragilità, determinata dalla delicatezza, transitoria ma pericolosa, che riguarda i processi della gestazione e del parto. Si tratta, perciò, di una condizione di fragilità che espone pericolosamente al rischio di un frantumarsi della vita proprio nel momento del manifestarsi della sua generativa sovrabbondanza. Se interpretati in questo modo i due tipi di fragilità, che potremmo definire rispettivamente per difetto e per eccesso, ci rimandano a tutta una serie di altre situazioni, non necessariamente collegate alle condizioni corporee, nelle quali, come con Dio o come senza Dio, dobbiamo riconoscerci fragili, per difetto o per eccesso. Anche a noi, perciò, si potrebbe applicare il messaggio di salvezza rivolto ai fragili evocati dal profeta Geremia e descritti con immagini cariche di significato: fragili che appartengono a quel popolo del Signore che viene definito il resto di Israele; persone che, partite nel pianto, saranno fatte ritornare, tra canti di gioia, per una strada dritta, dopo essere state radunate dalle estremità della terra; persone che saranno ricondotte a fiumi ricchi d’acqua da un Signore Dio che si definisce un padre per Israele. Da una parte, allora, le nostre fragilità per difetto possono farci sperare in una qualche forma di recupero di capacità o in una qualche forma di compensazione di facoltà che ci faccia vedere, abitare e attraversare il mondo con una qualità rinnovata. Dall’altra, invece, le nostre fragilità per eccesso necessitano di una particolare cura e delicatezza perché la novità cui possono potenzialmente dare vita sia custodita e accompagnata, protetta e fatta evolvere fino al tempo maturo per potersi esprimere nella sua sovrabbondante eccedenza, a beneficio di con Dio e di senza Dio.

Questo passo della lettera agli Ebrei presenta coloro che si trovano nell’ignoranza e nell’errore come persone fragili, a favore delle quali il sommo sacerdote, nell’ambito del sistema religioso e sacrificale del tempio di Gerusalemme, offre doni e sacrifici per l’espiazione dei peccati. Ma l’autore della lettera sottolinea anche come il sommo sacerdote venga scelto tra gli stessi esseri umani dei quali condivide debolezze e fragilità. Come odierni lettori con Dio o senza Dio di questo testo potremmo riconoscervi una fragilità che accomuna tutti noi credenti, potenzialmente soggetti a ignoranza ed errore anche nel cogliere la verità di specifici contenuti teorici che ciascuno associa all’esperienza del discepolato cristiano. Quali che siano le dottrine, le teologie e le filosofie che personalmente troviamo più convincenti, tra le molte che si sono avvicendate e spesso combattute tra loro nel corso dei secoli cristiani, dagli inizi e fino ad oggi, il riconoscerci fragili in quanto potenzialmente ignoranti o nell’errore rispetto a determinati contenuti dottrinali, testimonierebbe paradossalmente una preziosa consapevolezza di fede. E il passo della lettera agli Ebrei sembra suggerirci che neppure l’autorità religiosa nell’esercizio del suo ufficio pastorale – essendo anch’essa soggetta alla fragilità – è in condizione di sottrarci del tutto alla possibilità di ignoranza ed errore, come testimonia del resto la storia delle dottrine cristiane, tanto nei numerosi cambiamenti intervenuti nel modo di comprendere ed esprimere il patrimonio di fede della Tradizione, quanto nei conflitti dottrinali che hanno condotto le diverse confessioni e comunità ecclesiali cristiane a reciproche condanne, scomuniche e scismi, nel corso dei duemila anni di storia cristiana. Anche per questo la consapevolezza della nostra fragilità, che riguarda la nostra possibile ignoranza e il nostro possibile errore nel cogliere concettualmente gli aspetti teorici del cristianesimo costituiscono per tutti noi, con Dio o senza Dio, da una parte un ottimo antidoto al fondamentalismo, ma dall’altra anche un invito a relativizzare l’importanza degli aspetti più teorici e concettuali rispetto alla centralità per la fede cristiana di un vissuto credente personale ed ecclesiale coerente con il messaggio evangelico. Il fatto di essere e di doverci riconoscere tutti, con Dio e senza Dio, così fragili da non poter escludere la nostra eventuale ignoranza e il nostro eventuale errore nel cogliere ed esprimere adeguatamente la verità dei contenuti teorici del messaggio cristiano, non ci dispensa tuttavia dal cercare la verità di questi contenuti con impegno onesto e sincero, ciascuno secondo le proprie possibilità e utilizzando gli strumenti che ha a disposizione, così come non ci dispensa dal cercare presso altre persone l’aiuto che potrebbero offrirci.

In questo racconto evangelico anche le persone fragili, come lo è certamente un cieco che siede lungo la strada a mendicare, possono dimostrare di possedere quella forza inattesa e infine portatrice di salvezza, che il Gesù di Marco chiama fede. Anche per noi odierni con Dio o senza Dio può risultare utile notare in che modo venga rappresentato dall’evangelista il percorso che può condurre una persona in condizione di fragilità a sperimentare la salvezza. Il punto di partenza è l’avvertire dolorosamente la mancanza di una capacità di vedere ormai perduta e il bisogno o il desiderio di recuperare nuovamente questa capacità. Sembra quasi che la fede si possa sperimentare solo là dove, nella condizione di fragilità, si avverte la mancanza di qualcosa di importante che un tempo c’era o che sembrava esserci, un qualcosa che rende possibile una percezione del mondo più ampia e varia. Un secondo elemento è dato dall’attenzione necessaria per cogliere il momento opportuno di un passaggio che potrebbe cambiare radicalmente la situazione, ma che potrebbe anche essere perduto per sempre, come un’opportunità offerta e accessibile ma non colta, nella fragilità del suo passare rapidamente. Perché, se è vero che finché c’è vita c’è speranza, è vero anche che ciò che si spera si attua se si è pronti a riconoscere e cogliere il momento del suo attuarsi. Ma il desiderio e la prontezza a cogliere il momento opportuno servono solo a creare le condizioni perché vi sia una presa di parola, indispensabile per dare voce al desiderio o al bisogno, una presa di parola che deve essere pronta a essere ribadita e amplificata nonostante eventuali rimproveri e inviti a tacere. È forse questo il momento decisivo nel quale i con Dio o i senza Dio che si riconoscono fragili devono riuscire a compiere un salto di qualità, uscendo dal silenzio che la loro condizione di fragilità suggerirebbe per prendere la parola nel modo, nel momento e nella direzione necessaria. Quando la presa di parola viene attuata nel modo necessario, nel momento adeguato e nella direzione giusta, allora la vicenda conosce una svolta, che nel testo di Marco è rappresentata dal fatto che Gesù fa chiamare colui che ha preso con insistenza la parola. La prontezza nel rispondere alla chiamata di Gesù rende possibile nel vangelo l’incontro con qualcuno che non si vede ancora ma che parla e chiede di esplicitare la consapevolezza del proprio desiderio. Questo processo, emblematicamente rappresentato nella narrazione evangelica si potrebbe definire come fede che salva, intesa come il giungere a una visione della realtà che conduce a intraprendere la sequela di Gesù, nella modalità di un cammino che la ritrovata capacità di vedere la realtà consente di riconoscere come quello da compiere, perché se ne è riconosciuto, sperimentato e apprezzato il significato e il valore. Da questo punto di vista, il processo che si compie per con Dio e per senza Dio è in realtà il medesimo, anche se gli uni e gli altri potranno attribuire contenuti e significati in parte diversi a quella che si presenta insieme come una guarigione, come una capacità di visione ritrovata e come il manifestarsi di una forza buona che riesce ad esprimersi pur partendo da condizioni di fragilità.