Letture festive – 168. Attraversare – 29a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

29a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 20 ottobre 2024
Dal libro del profeta Isaìa – Is 53,10-11
Dalla lettera agli Ebrei – Eb 4,14-16
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 10,35-45


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letture festive 168

Come si può attraversare la sofferenza, avendone riconosciute le contraddizioni, perché sia in qualche modo fruttuosa? Questa è una domanda che con Dio e senza Dio potrebbero porre a sé stessi e potrebbero porsi reciprocamente, a partire da questo famoso testo di Isaia sul servo sofferente. Un testo ricco di contraddizioni e di ambiguità, la prima delle quali si trova nell’affermazione che al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori, un’affermazione che risuona oggi per noi come terribile e insieme inaccettabile sul piano etico, un’affermazione che sembra delineare i tratti di un Dio addirittura sadico. Il primo attraversamento da compiere quindi è riservato a noi lettori di questa pagina veterotestamentaria e riguarda tutto ciò che – separandoci dalla cultura religiosa e dalla sensibilità etica che ha ispirato l’autore biblico – va appunto attraversato se si vuole che un nostro incontro e confronto con questo testo abbia la possibilità di verificarsi anche oggi, verosimilmente grazie a interpretazioni che possano risultare accettabili per con Dio e per senza Dio. E la situazione non migliora più di tanto quando si parla di un offrire sé stesso, da parte del servo, in sacrificio di riparazione o quando la giustificazione che il servo giusto otterrà per molti si realizzerà attraverso l’addossarsi le loro iniquità, come in un rito del capro espiatorio. Anche in questo caso l’attraversamento della distanza che separa buona parte di noi lettori da questa logica sacrificale presente in tante forme religiose non sembra essere operazione facilissima, né per con Dio, né per senza Dio. Ma la sofferenza, per con Dio e per senza Dio, che Dio esista o che invece non esista, rimane in ogni caso qualcosa che si incontra e che si deve provare ad attraversare, sperando di trovare qualcosa di buono alla fine di questa traversata, traversata che secondo l’autore biblico si caratterizza per quello che viene definito un intimo tormento. E il passo di Isaia sembra invitare a una fiducia, aprire una speranza e delineare una sorta di via d’uscita. I verbi utilizzati sono quelli di un’esistenza che riprende vigore e ridiventa feconda: vedere una discendenza, vivere a lungo, diventare il luogo del compiersi di una volontà divina, vedere la luce e saziarsi di conoscenza. Anche se con Dio e senza Dio pongono certamente determinate sottolineature in modi diversi, entrambi possono riconoscere qui i caratteri di esistenze che riescono ad attraversare la sofferenza uscendone vive e vitali. L’attraversamento delle sofferenze importanti infatti è una di quelle esperienze che in molti casi sembrano ancora riuscire ad accomunare gli umani, con Dio o senza Dio, e avvicinarli tra loro.

Quando e in quali modi l’attraversare le distanze da parte di qualcuno può essere d’aiuto a qualcun altro e risultare così una forma di soccorso che giunge al momento opportuno? Nella teologia dell’autore della lettera agli Ebrei la figura che esemplifica una possibile risposta a questa eventuale domanda da parte di noi suoi lettori con Dio o di senza Dio è la figura di Gesù, rappresentata come quella di un particolarissimo e grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli. E proprio in questo aver attraversato una grande distanza perché potesse realizzarsi un incontro di aiuto che può essere definito addirittura di salvezza risiede la condizione di possibilità di una fede autentica. Questa fede, infatti, può essere professata con fermezza in quanto esperienza di fiducia. Si tratta di una fiducia che, a propria volta, si basa su una comunanza e condivisione di esperienze e di condizioni che riguardano in particolare la debolezza e le prove affrontate. Sperimentare – attraversandole – debolezze e prove è ciò che accomuna e fa riconoscere tra loro – avvicinandoli – coloro che attraversano insieme l’esistenza, un’esistenza che non è certamente facile ma nella quale c’è possibilità e speranza di essere aiutati e ricevere misericordia, quando ve ne sia la necessità e – secondo l’autore biblico – grazie anzitutto alla figura di Gesù. Ma la possibilità di aiutare superando le distanze non si ferma qui e non si limita alla figura di Gesù. Tutti coloro che, con Dio o senza Dio, hanno attraversato distanze grandi o perfino incommensurabili, distanze reali o simboliche, per farsi vicini e prossimi a noi, con Dio o senza Dio, non sono lontani dalla verità del vangelo e non ci portano una forma di salvezza necessariamente meno preziosa di quella che può provenirci dal divino.

Se si vuole continuare a seguire Gesù e se si vuole farlo in modo comunitario che cosa si deve essere disposti ad attraversare? Questa domanda può forse aiutare noi lettori odierni con Dio o senza Dio ad avvicinarci al nucleo reale dell’esperienza del discepolato cristiano ed ecclesiale. Ma – nello stesso tempo e per contrasto – questa narrazione evangelica ci mette in guardia da possibili fraintendimenti ed errori in cui si può facilmente incorrere, oggi come al tempo dell’autore evangelico, accingendosi a compiere questi attraversamenti. Uno dei paradossi dell’esperienza cristiana del discepolato riguarda, infatti, la possibilità che quanto sembra vicinanza quotidiana e comunanza di esperienza con il Gesù evangelico nasconda in realtà distanze abissali, punti di vista divergenti e atteggiamenti opposti. Qualcosa del genere sembra emergere nel dialogo innescato dalla richiesta che Giacomo e Giovanni fanno a Gesù: concedere loro di sedere, nella sua gloria, uno alla destra e uno alla sinistra. Inevitabilmente non solo l’autore del testo ma anche noi lettori odierni proiettiamo su questa domanda la conclusione del suo racconto evangelico, dove i due condannati alla crocefissione insieme a Gesù, uno alla destra e uno alla sinistra a un certo punto lo insultano, facendo eco agli insulti provenienti dalle autorità religiose. Se questa è la gloria di colui che viene definito nella scritta sulla croce il re dei giudei, allora i posti che l’evangelista riserva alla destra e alla sinistra di Gesù si presentano molto diversi da quelli cui ambiscono Giacomo e Giovanni. L’incomprensione e il fraintendimento riguardano di conseguenza anche gli attraversamenti che Gesù richiede: Giacomo e Giovanni non immaginano certo che il bere lo stesso calice che Gesù beve e ricevere lo stesso battesimo nel quale Gesù viene battezzato riguardino l’accettazione di un destino analogo a quello del maestro e la conseguente discesa nell’abisso della morte e di una morte sulla croce. La richiesta di due dei dodici scatena, come prevedibile, le rimostranze degli altri dieci, non perché questi ultimi ne critichino l’inadeguatezza o le motivazioni, ma perché si sentono ingiustamente esclusi da un privilegio e da un posto di potere al quale ritengono di avere diritto, allo stesso modo dei due che hanno osato chiederlo apertamente, esprimendo evidentemente un sentire condiviso dagli altri dieci. A questo punto è lo stesso Gesù che prova a ri-orientare i suoi in una direzione coerente con la propria predicazione, anche se ciò richiede la loro disponibilità ad attraversare tutta la distanza che separa le logiche e i meccanismi del potere dalle logiche e dalle dinamiche del servizio. Benché infatti i discepoli nel vangelo di Marco sperimentino la vicinanza quotidiana con Gesù e condividano costantemente il suo cammino sembra davvero abissale la distanza che separa le loro fantasie sul potere e sulla grandezza dalla proposta di Gesù di mettersi a servizio come ultimi e addirittura come schiavi e come persone disposte a dare la propria vita. Probabilmente noi odierni lettori con Dio o senza Dio della pagina evangelica vorremmo sentirci in questo caso molto diversi dai dodici, ma in realtà dobbiamo forse riconoscere di coltivare, almeno in qualche caso, punti di vista divergenti e atteggiamenti opposti rispetto a quelli del Gesù di Marco. Se è così e se desideriamo davvero cercare di essere discepoli con Dio o senza Dio del Gesù evangelico allora anche per noi si presenta la necessità di attraversare le grandi distanze che separano le nostre fantasie sul potere e sulla grandezza dalla scelta del servizio così come la propone il vangelo, così che alla familiarità che ricerchiamo con la figura di Gesù possa corrispondere la vicinanza vissuta del nostro sentire e del nostro agire.