Letture festive – 165. Ostacolare – 26a domenica del Tempo ordinario – Anno B
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
26a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 29 settembre 2024
Dal libro dei Numeri – Nm 11,25-29
Dalla lettera di san Giacomo apostolo – Gc 5,1-6
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 9,38-43.45.47-48
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letture festive 165
Nell’episodio narrato dal libro dei Numeri ai lettori viene posto il problema di che cosa può realmente ostacolare o, al contrario, agevolare la presenza e l’azione di una profezia e di un guida della comunità che siano autenticamente spirituali, tema attuale anche oggi, per con Dio e per senza Dio, in una Chiesa cattolica che faticosamente sta cercando di ripensarsi e di riformarsi in una direzione più aperta, sinodale, partecipativa e – contemporaneamente – meno patriarcale, clericale e piramidale. Un primo aspetto interessante in questa narrazione biblica è che lo spirito divino viene – per iniziativa divina – parzialmente tolto all’unica guida, Mosè, per essere redistribuito a una pluralità di figure autorevoli, i settanta anziani. Già qui le nostre comunità ecclesiali – che nella stragrande maggioranza sono, a tutti i livelli, per lo più a guida monocratica, clericale e maschile – potrebbero trarne utilmente ispirazione per ripensarsi e riformarsi, riconoscendo potenziali capacità spirituali di servizio e di guida a un numero molto maggiore di credenti (la proporzione nel libro dei Numeri è di settanta a uno). Si dovrebbe, cioè, poter discernere in un numero molto maggiore di credenti – con Dio o senza Dio, maschi o femmine, laici e non – una presenza di spirito di fede che li abiliterebbe a svolgere con autorevolezza servizi e funzioni di vario tipo, comprese quelle che nell’attuale struttura della gerarchia cattolica richiedono una qualche forma di ordinazione sacramentale o di istituzione ministeriale. Ma un secondo aspetto del racconto biblico risulta ancora più sorprendente: parte di questo spirito divino può trovarsi, per le ragioni più diverse, anche tra coloro che non sono compresi e previsti in questo processo di allargamento già molto significativo. Può trattarsi di appartenenti alla comunità ai quali non si era ufficialmente riconosciuta autorevolezza, può trattarsi di chi per un motivo o per l’altro si trovava in un luogo e in una situazione diversa da quelle programmate, può trattarsi di una delle tante casualità che modificano anche in modo importante il corso delle nostre di vite di credenti con Dio o senza Dio. E tuttavia proprio questo allargarsi di una autorevolezza spirituale e profetica oltre i recinti religiosi prefissati è vissuta da qualcuno – verosimilmente un fedele con Dio più che non un credente senza Dio – come qualcosa che può ostacolare il funzionamento corretto della comunità di fede. Non è un caso che – una volta informato che qualcuno ha messo in atto pratiche non autorizzate di profezia – sia proprio il fedele Giosuè destinato a succedere a Mosè come guida del popolo a chiedergli di impedire tali pratiche. Ma i due che profetizzano lo fanno in quanto inconsapevoli beneficiari della redistribuzione dello spirito profetico dello stesso Mosè e infatti al suo futuro successore Giosuè – che uno zelo religioso fuori luogo spinge a essere più papista del papa – Mosè stesso risponde: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». Questo riconoscimento e auspicio di una autorevolezza spirituale e profetica diffusa dentro e fuori i recinti religiosi sono stati in realtà un riconoscimento e un auspicio ben poco praticati nella storia delle comunità ecclesiali cristiane. Queste ultime hanno perlopiù visto in questo tipo di persone e di esperienze profetiche qualcosa in grado di ostacolare piuttosto che di arricchire il vissuto cristiano delle Chiese. Di conseguenza hanno ostacolato e proibito, impedito e se necessario represso anche con la violenza, quella verbale e spirituale dell’imposizione del silenzio o della minaccia di scomunica, ma talvolta anche quella fisica e politica della persecuzione e dell’incarcerazione, fino ad arrivare nei casi più estremi alla tortura per spingere all’abiura o giungere infine alla condanna a morte. Oggi con Dio o senza Dio che praticassero forme di profezia non autorizzata all’interno delle proprie comunità cristiane di appartenenza non subirebbero più le conseguenze fisiche e politiche più violente. Rischierebbero però facilmente di incorrere in censure e richiami, comprese l’imposizione del silenzio e la scomunica, come capita effettivamente ancora in qualche raro caso, nonostante la tolleranza ecclesiastica per le profezie non autorizzate sia notevolmente aumentata rispetto a un passato anche molto recente. Rimane perciò ancora valida – tanto per con Dio quanto per senza Dio che appartengono alle comunità ecclesiali – la provocazione-obiezione con cui Mosè risponde alla richiesta da parte di Giosuè di un intervento repressivo. E in questo senso dovremmo chiederci se sono le manifestazioni non autorizzate di uno spirito profetico o non piuttosto la loro repressione ciò che ostacola maggiormente chi vorrebbe avvicinarsi a un’autentica vita cristiana ed ecclesiale.
A giudicare dalla passione che si intuisce in questo brano neotestamentario della lettera di Giacomo, pare proprio che – per il suo autore – a ostacolare scandalosamente e più di ogni altra cosa la vita umana e credente dei singoli e delle comunità siano le ricchezze non equamente distribuite. Queste, infatti – indipendentemente dal fatto che ci si trovi nella condizione di con Dio o di senza Dio – rischiano di ostacolare gravemente non solo la vita dei poveri, che di ricchezze sono privi, ma anche la vita dei ricchi, che dalle loro stesse ricchezze rischiano di essere divorati. Oggetto della requisitoria di Giacomo – che è insieme sociale, politica e religiosa – sono in particolare le ricchezze accumulate attraverso lo sfruttamento del lavoro dei poveri, uno sfruttamento che, non retribuendo equamente il lavoro, ostacola la vita dei poveri costringendoli a un’esistenza stentata e piena di ostacoli quotidiani, difficili da superare. Il Signore Dio che Giacomo chiama in causa viene rappresentato come decisamente orientato a quella che, negli anni del post-concilio e in riferimento alla Chiesa, è stata definita la scelta preferenziale per i poveri. Nel suo linguaggio religioso Giacomo riprende i toni minacciosi e apocalittici dei profeti veterotestamentari e a chi sfrutta il lavoro dei poveri, senza pagarli e accumulando così ricchezze, ricorda che queste ultime vengono divorate dalla stessa ingiustizia che le ha prodotte. Ma soprattutto queste ricchezze, iniquamente accumulate in un perverso e illusorio delirio di eternità, anche quando sono costituite dai metalli più preziosi e durevoli, si rivelano in realtà soggette a un inesorabile processo di decadimento, che fatalmente corrompe fino a divorare del tutto anche gli illusi che le hanno accumulate. Dai tempi di Giacomo ad oggi, gli squilibri nella distribuzione delle ricchezze non sembrano certo essere stati superati e probabilmente si sono invece accresciuti, per cui con Dio o senza Dio che volessero lasciarsi ispirare dalle pagine neotestamentarie, avrebbero certamente modo di seguire, in termini di consapevolezza, di denuncia e di impegno l’esempio di Giacomo nella lotta a un’iniqua e scandalosa distribuzione delle ricchezze, che ostacola gravemente anzitutto e di certo la vita dei poveri, ma in fondo e nonostante le apparenze anche quella dei ricchi.
Questo passo di Marco presenta diverse situazioni – non lontane da quelle in cui oggi possiamo trovarci anche noi, discepoli con Dio o senza Dio – situazioni nelle quali è necessario un discernimento per capire ciò che può ostacolare o meno l’annuncio del messaggio evangelico e il vissuto di chi dal vangelo vorrebbe lasciarsi ispirare. Una prima situazione ricalca l’episodio veterotestamentario dello spirito profetico di Mosè che opera anche al di fuori di coloro ai quali l’istituzione intenderebbe riservarlo. E anche qui al discepolo zelante che vorrebbe impedire di fare il bene in nome di Gesù a chi non è ufficialmente un suo discepolo autorizzato, lo stesso Gesù risponde che chi non è contro di noi è per noi, e questo vale ogni volta che qualcuno, dichiarandosi ispirato dalla figura di Gesù, fa qualcosa di realmente buono, come può essere il liberare chi si trova imprigionato in sé stesso o anche solo il dare da bere a un assetato. Così anche oggi dovremmo dire che, secondo l’insegnamento di Gesù, accogliere la richiesta fatta da un qualche discepolo zelante di censurare un con Dio o un senza Dio che fa il bene, solo perché esterno alla comunità ecclesiale, ebbene praticare questa censura sarebbe un modo di ostacolare l’annuncio del messaggio evangelico. Riguardo poi a che cosa possa scandalizzare e cioè ostacolare l’adesione al vangelo di quelli che Marco chiama i piccoli che credono in Gesù, ebbene questo è anche oggi per con Dio e per senza Dio un tema controverso e di grande attualità ecclesiale. Si tratta infatti di un passo evangelico che quanti si oppongono alle riforme ecclesiali di ogni tipo (teologiche o liturgiche, organizzative o disciplinari) spesso invocano a sostegno delle proprie opinioni e posizioni. L’argomentazione inizia con l’identificare i piccoli della pagina evangelica con quei credenti che – privi o scarsamente forniti di formazione culturale e teologica – sono affettivamente legati alle forme tradizionali, devote e popolari apprese nell’ambiente religioso nel quale sono stati cresciuti e formati. Da questa identificazione si fa derivare l’esigenza evangelica di evitare ogni cambiamento di queste forme tradizionali che possa turbare la fede di questi semplici e ostacolare il loro credere in Gesù. Questa interpretazione è perlopiù condivisa da molti degli stessi sostenitori di riforme ecclesiali, che per uscire dall’imbarazzo si sentono in dovere di modulare queste stesse riforme ecclesiali con tempi molto lenti e modalità molto attenuate, per evitare uno scandalo che potrebbe ostacolare la fede dei piccoli. Si tratta, tuttavia, di una interpretazione e di una identificazione discutibili, per almeno due ragioni: la prima riguarda il comportamento del Gesù narrato nei vangeli e la seconda riguarda coloro che oggi potremmo legittimamente identificare con i piccoli di cui parla il vangelo. Il Gesù narrato nei vangeli, come testimoniano molti brani degli stessi, non appare per nulla preoccupato di evitare turbamento e scandalo né ai propri discepoli né alle figure religiose tradizionali e anzi, sembra suggerire – spesso con parole molto dure – che a ostacolare l’accoglienza del suo messaggio sono in molti casi proprio le forme religiose tradizionali, soprattutto quando si irrigidiscono e vengono assolutizzate, dimenticando le originarie motivazioni e perdendo di vista i veri obiettivi. Quanto al modo nel quale credenti con Dio o senza Dio potrebbero interpretare il testo evangelico sui piccoli, nulla impedirebbe di identificarli oggi con coloro che – essendo magari dei senza Dio che guardano alla Chiesa dall’esterno – si trovano ostacolati, respinti e perciò scandalizzati nel loro credere in Gesù precisamente da un’identificazione esclusiva del messaggio evangelico e della vita ecclesiale con forme tradizionali, devote e popolari tipiche di una determinata epoca e di uno specifico ambiente religioso. Queste forme di cristianesimo, infatti, per qualcuno potranno essere ancora parlanti e utili ma per molti dei nostri contemporanei, con Dio o senza Dio, risultano del tutto estranee e anzi fuorvianti rispetto a un possibile incontro con il messaggio cristiano e con la comunità ecclesiale che lo dovrebbe testimoniare. Da questo punto di vista, si dovrebbe interpretare e riattualizzare criticamente anche la strana metafora proposta da Marco, riguardante la rinuncia – tramite auto-amputazione – a quelle parti del proprio corpo che scandalizzano e che, cioè, sono di ostacolo. Ciò non andrebbe interpretato, come spesso storicamente avvenuto da parte di con Dio e di senza Dio, come un invito alla mortificazione del corpo e dei sensi, nel cammino di una santità disincarnata verso una salvezza attesa nel paradiso ultraterreno. Si dovrebbe piuttosto invitare il corpo ecclesiale nel suo insieme a non esitare nel liberarsi di quelle appendici che – se vuole restare o ridiventare un corpo ecclesiale vitale e sano – risultano inservibili e dannose, impedendo alla comunità credente di essere, come dovrebbe, aperta e accessibile, ospitale e accogliente. Tale, infatti, dovrebbe essere la Chiesa, non solo per chi vi è di casa da sempre, ma anche per i con Dio o senza Dio che vorrebbero entrare e potersi sentire, insieme a tutti gli altri, come a casa propria.