L’alba nell’imbrunire di Abram (Gn 15)
E il mio maestro mi insegnò
Com’è difficile vedere l’alba dentro l’imbrunire
(F. BATTIATO, Prospettiva Nevski)
di Antonio Nepi
Il racconto di Gn 15 presenta una sorta di “svolta” nel ciclo narrativo di Abramo e spicca per la sua singolarità sotto vari aspetti. La sua interpretazione resta ancora ardua e continua a far versare inchiostro. Oltre allo stile e al vocabolario, originali sono la figura di Abramo come profeta, come re, come primo credente che esterna i suoi dubbi e continua il suo esodo da Ur. Ancor più saliente è il suggestivo rito di alleanza che Yhwh stipula con lui. Abramo sperimenta di non essere solo dinanzi a ostacoli che sembrano smentire le promesse della sua vocazione e appaiono insormontabili, quasi beffardi. Ma sulla Parola di Yhwh a cui si affiderà egli viene chiamato a saper vedere l’alba dentro l’imbrunire.
1 Analisi narrativa
Il brano si dipana, a mo’ di ripresa, in due tempi e palesa una sua unitarietà. È un dittico, in cui il primo pannello, imperniato sulla visione delle stelle, viene confermato dal secondo, imperniato sulla visione del fuoco, sempre in un orizzonte di realizzazione che resta nel futuro. Tuttavia, nonostante la sua vividezza, il lettore aduso alle narrazione bibliche percepisce che non si tratta di un vero e proprio racconto, ma di un messaggio profetico. Dal punto di vista diacronico è indubbio che questo raddoppiamento – o meglio šenît – derivi dalla sedimentazione – complessa – di almeno due tradizioni; nell’attuale narrazione serve a corroborare la promessa di Dio (cf. Ger 1,13; Gn 41,4).
Nel primo pannello (vv.1-6) il narratore sceglie la modalità mimetica, privilegiando cioè le azioni e soprattutto il dialogo tra Abramo e Dio. Nel secondo (vv.7-21) invece prevale quella diegetica, anche se con l’intarsio dell’ordine e dell’oracolo divini, che creano maggiore suspense e tensione nel lettore. Si tratta del primo dialogo tra Dio ed Abramo. La legge della dualità scenica converge l’attenzione sui soli protagonisti, un fatto unico nel ciclo di Abramo. Sarai è assente, come nell’altro testo-chiave di Gn 22. Il racconto risulta ben delimitato, incorniciato dai due oracoli (v. 1 e vv. 19-21), seguendo lo schema: promessa/obiezione/rassicurazione.
2 Struttura
a) Oracolo di promessa («Non temere…», v. 1)
b) Obiezione di Abramo (vv. 2-3)
c) Oracolo di promessa («Non sarà…», v. 4)
d) Segno delle stelle (v. 5a)
X) la fede di Abramo (v.6)
a’) Oracolo di promessa (v. 7)
b’) Obiezione (v. 8)
c’) Ordine-esecuzione del rito (v. 9-10)
X) pericolo e torpore di Abramo (vv. 11-12)
a’’) Oracolo di promessa («Sappi che….», vv. 13-16)
b’’) Segno. La stipula unilaterale (v. 17)
c’’) Oracolo di promessa (vv. 18-21).
Il racconto risulta unificato, oltre che dai due protagonisti, anche dalle parole-chiave «discendenza» (zera‘, vv. 3.5.13.18) ed «ereditare» (yāraš, vv. 4.7.8), binomio che segnala la posta in gioco.
3 Primo pannello (vv. 1-6)
Il primo pannello richiama la sequenza dei racconti di invio profetici (cf. Mosè [Es 3-4] e Geremia [Ger 1,4.11-13], obiettori per antonomasia; o Ezechiele, la sentinella [Ez 3,16]). Si apre con una formula di transizione temporale («dopo tali fatti/parole»), che collega quanto sta per succedere agli eventi e alle promesse passati, ma lascia nel vago il contesto e il momento preciso.
L’iniziativa è di Dio, che parla «in visione» (maḥăzeh), un termine raro e tardivo, usato per le visioni profetiche (cf. Nm 24.4.16; Ez 13,7). Yhwh come soggetto viene sostituito dalla sua «parola rivolta a», altra perifrasi tipica nell’interpellazione di profeti, che compare solo qui e nel v. 4 nel ciclo di Abramo, e che ricorre spesso in testi esilici (in particolare in Ezechiele, cf. 1,3; 26,1, ecc; 1Sam 15,10; Os 1,1).
Per la prima volta balugina la dimensione profetica del protagonista, che verrà affermata in Gn 20,7. Tuttavia egli resta il progenitore di Israele e non rientra nei canoni classici di figure profetiche come Geremia ed Isaia, né è mai qualificato altrove come tale (cf. Ez 33,24: Is 51,2). Il narratore qui forse vuole evidenziare il carattere di una rivelazione privata, non pubblica, che però ha lo stesso peso veritativo e legittimante.
Yhwh si auto-presenta con il suo tipico “oracolo di salvezza”, in tre stichi in lieve allitterazione. Si apre con l’invito a «non temere» (’al tîrā’), una formula stereotipata di incoraggiamento in oracoli di trionfo indirizzati al re, ma che richiama anche quello rivolto agli esiliati (Is 40,9-19; 41,10; 43,1). Dio lo motiva proponendosi come «scudo» (māgēn) personale per/a vantaggio di Abramo. Il termine rinvia ad un contesto militare, metafora di difesa e di trionfo (Dt 33,29), come ha dimostrato nella precedente vittoria accordata ad Abramo sui re in Gn 14. Stando ad altri testi è sinonimo di roccia incrollabile, salvezza e baluardo per chi in lui si rifugia (Sal 18,3.31.36; 144,2; Pr 30,5), ma anche di calore e luce (Sal 84,12). Per questo sicuro «aiuto» (‘ēzer, Sal 33,20), Abramo può «tenere alta la testa» (Sal 3,4; Sir 11,1) e non sentirsi sconfitto, svergognato o deluso, ma fortificato. Il suono del vocabolo riecheggia anche la vittoria impensabile di Abramo nel capitolo precedente, quando Dio ha «consegnato» (miggēn) i nemici nelle sue mani al pari di un re trionfatore (Gn 14,20). Abramo, dunque, come Geremia, è esortato a guardare in faccia le proprie paure e consegnarle in chi, come Dio, si mostra pronto ad assumerle, presentandosi come scudo rassicurante (P. Bovati).
L’oracolo si chiude con la promessa di una grandissima «ricompensa» (śākār). Tale termine, frequente in scritti post-esilici, esprime un far arridere una vittoria militare al re (2Re 7,6; Ez 29,18), la concessione di un bottino, la paga di un soldato, di un operaio, ma anche il dono di una discendenza (Sal 127,3; Gen 30,18; Is 40,10; Ger 31,16).
La reazione di Abramo è quella amara di un uomo in crisi, ai limiti del sentirsi preso in giro. Nonostante la promessa di una discendenza e di una terra (Gn 12,1-3.7; 13,14-17), nonostante i trionfi e il bottino (che pure ha rifiutati) dal re di Sodoma (Gn 14,21), ancora non tocca con mano la realizzazione delle due promesse. Umilmente, si rivolge a Dio come suo sovrano, ma, sconsolato, chiede retoricamente: «Che cosa mi darai?», facendo constatare a Yhwh Adonay il suo “vuoto” in una frase allitterata in gutturali, che ben esprime la sua ansia; «Io me ne sto andando senza figli» (’ānōkî hôlēk ‘ārîrî; v. 2b). L’ultimo termine in ebraico è oscuro e raro; ricorre in Lv 20,20, Sir 13,3 (ebraico) e Ger 22,30. Quest’ultimo passo è interessante, perché condensa una situazione di disonore e di non futuro, riferito a Conìa, figlio di Ioakim, e di Giuda:
Questo Conia non è un vaso spregevole, rotto, che non piace più a nessuno?…
Registrate quest’uomo come uno senza figli (‘ārîrî),
un uomo che non ha successo nella vita,
perché nessuno della sua stirpe avrà la fortuna
di assidersi sul trono di Davide e di regnare ancora su Giuda.
Restare senza figli, mentre se ne andando /morendo, equivale ad essere un vecchio senza futuro, senza difesa, il cui ricordo sarà cancellato (Sal 109,13.15). Senza figli non si potrà ereditare l’agognata terra. Certamente le due promesse sono correlate, ma la prima è più vitale; la seconda può aspettare… La sua, quindi, è una implicita situazione di maledizione che sembra smentire la benedizione di Dio, anzi può insinuare l’ombra del tradimento. Potremmo pure tracciare un parallelo con la sterile Anna in 1Sam 1,18, rispettivamente intrappolati dai privilegi di Dio, e di Elkana; essere senza figli è “un carcere a vita”. Abramo quindi ha paura, si sente defraudato, e la sua è una “cronaca di una morte annunciata”. Ma a questo punto si insinua qualcosa che il lettore non sapeva e che caratterizza l’indole di Abramo. Non accetta del tutto “i ritardi” di Dio, ma non lo ricatta (Ab 2,3; Gdt 8,9). Da parte sua Abramo si è attrezzato e ha designato un certo Eliezer come suo erede (il nome di questo personaggio secondario tradisce gusti narrativi tardivi, come rilevava C. Westermann; ma non è escluso un voluto ironico gioco di parole).
La presentazione di Eliezer nel testo è irta di difficoltà filologiche e le varie versioni antiche divergono. Il Testo Masoretico recita: «Il figlio di mešeq della mia casa, lui di Damasco (dammešeq) Eliezer» (v. 2c). Sulla base dell’accadico (mār bῑti) “figlio della casa” indicherebbe uno schiavo adottato dopo l’affrancamento. Il problema è l’ambiguo mešeq: alcuni lessicografi antiche lo interpretano come “patrimonio, proprietà”, per cui equivale ad “erede”. Altri, in base all’ugaritico e alla versione di Aquila, lo collegano al “coppiere” (miśqu), inteso come ufficiale (cf. Gn 40,1; 2Re 18,17; Ne 1,11). Il termine omofono seguente sarebbe una glossa esplicativa posteriore di una qualifica divenuta enigmatica indicando la sua provenienza. Ciò che è essenziale è che il lettore assiste nuovamente ad un Abramo che ha la propensione a colmare da solo e di sua iniziativa le lacune o i ritardi di Dio nell’ottenere una discendenza. Si tratta infatti del terzo tentativo, dopo la svendita della sterile Sarai in Egitto (Gn 12,10-20), dopo la fuga del nipote Lot che forse immaginava come erede (Gn 13), cui seguirà, forzato da Sarai, Agar come madre surrogata di Ismaele (Gn 16). Il v. 3 è una “ripresa” – segno di una aggiunta esplicitante – che esprime il punto di vista di Abramo («ecco», hinneh) e conferma la sua scelta di Eliezer, uno straniero e non consanguineo, come erede.
La replica di Dio invita Abramo – e soprattutto il lettore – a guardare dal punto di vista divino («ecco», hinneh) espresso profeticamente («la Parola di Dio»). Ecco il gioco di parole: Eli-ezer significa «Dio è il mio aiuto» (‘ezer) ed Abramo pensa a lui come erede; Dio invece ribalta lo scontato, preannunciando invece che erede sarà la sua «discendenza» (zera‘), un figlio carne della sua carne. Insieme a 2Sam 6,11 e 2Sam 7,12, il v. 4 è l’unico testo che parla di un figlio che esce dalle viscere del padre («colui che uscirà dalle tue viscere», ’ăšer yeṣē’ mimmē’ekā). Ritroviamo una fraseologia che conferma la regalità di Abramo. Ma Dio va oltre ad un figlio e promette una discendenza. Il verbo “ereditare” è tipico del Deuteronomio, ma in particolare di Ezechiele, ovviamente sempre legato alla terra promessa (Dt 33,4; Es 6,8; Ez 11,15, 25,10; 22,24; 25,4; 36,4). Si noti che questa conferma dell’eredità ricorre sempre in testi di scoraggiamento (Ez 11,2; 12,22; 18,2; il più affine al nostro testo è Ez 33,23-24).
Sul momento però è Dio che fa uscire (wayyôṣē’) Abramo fuori, implicitamente dalla tenda (v. 5). Contrariamente a ciò che fa un beduino di notte, egli ordina di contemplare/scrutare (nābaṭ) il cielo. Se teniamo presente la pregnanza simbolica, Abramo è invitato a uscire dal circolo angusto della sua tenda – potremo dire del suo io, e della sua prospettiva umana – per vedere il futuro nell’orizzonte della tenda di Dio che è il cielo (Sal 104,2; Is 40,22). Abramo deve “uscire fuori” nel senso di “rinascere” (come Gesù chiederà a Nicodemo!). Guardare in alto il cielo trapunto di stelle è lo stesso invito che Isaia rivolgerà agli esiliati a Babilonia (Is 40,25-31). La sua discendenza sarà come le stelle (kôkābîm). La metafora, frequente nella Bibbia e nella letteratura dell’Antico Vicino Oriente (AVO), indica una discendenza senza numero, ma anche perenne, che Dio conosce per nome (Sal 147,4; Is 40,26), che gravita nello spazio divino e ripercorre le orbite da Lui tracciate (Sal 8,4; Dn 12,3; Gb 9,8) ed è il suo esercito personale (tale è il senso del sintagma Yhwh Sabaoth, da ṣebā’ôt = schiere). Non soltanto i suoi discendenti saranno innumerevoli come le stelle, ma svolgeranno la funzione tipicamente astrale ed angelica di essere “patroni” di nazioni (cf. Dt 32,8). L’elezione dunque, non è esclusiva ma inclusiva, e conferma la figura di Abramo come “patriarca ecumenico”.
Abramo si fida di questa parola. Il verbo «credere» (’āman), così come «giustizia» (ṣedāqāh) compaiono qui per la prima volta nella Bibbia. Il senso etimologico del credere è quello non intellettuale, ma concreto, di fondarsi, aggrapparsi a un punto stabile, affidarsi a qualcuno, scommettere su di lui. Nella forma weqatal il verbo non è momentaneo, ma implica una continuità: andrebbe tradotto “continuò a credere”. In un confronto “regale” Abramo appare l’opposto dei re Acaz (Is 7,9) ed Ezechia (2Re 20,8-11). Egli trova e continuerà permanentemente a trovare la sua solidità in Dio. In questo Abramo è più grande di Mosè, che ad esempio accumula più obiezioni (Es 3-4) e in Nm 20,12 manca di fede.
La parte finale del v. 6 «glielo accreditò come giustizia» è abbastanza difficile da tradurre, perché ambigua: non è chiaro se il soggetto sia Dio o Abramo. «Accreditare (ḥāšab) a giustizia (ṣedāqāh)» equivale a dichiarare valido, corretto (Lv 7,18; 17,4; Nm 18,7; Sal 106,31). Tradizionalmente si vede in Dio il soggetto, per cui Dio accredita a giustizia, nel senso che gli considera quella di Abramo una prova di lealtà genuina (cf. 2Sam 19,20). Questa è la lettura di Paolo sulla base dei LXX (Rm 4,18-22; Gal 4,6). Nel secondo caso è Abramo che riconosce la giustizia di Dio nella sua fedeltà alle promesse. L’AT – i Salmi in particolare – citano spesso la giustizia di Dio come lealtà che non tradisce o delude la parola data (Sal 5,8; Sal 22,32). In tal senso il testo non potrebbe funzionare come giustificazione per fede secondo la visione paolina. Abramo sta semplicemente notando, constatando il comportamento, l’agire retto e giusto di Dio nei suoi confronti. Una possibilità ulteriore, abbastanza trascurata, è che a credere in Dio sia la stessa discendenza di Abramo, precedentemente menzionata, per cui Dio la riconosce come giustizia a vantaggio del patriarca.
Forse la soluzione migliore sta nel mantenere l’ambiguità del versetto ebraico. Abramo può leggere come segno favorevole, attendibile e indefettibile l’oracolo di Dio – come accade negli ectispici mesopotamici bārû – oppure Dio ha trovato gratuitamente giustificato Abramo, riconoscendone la correttezza ed obbedienza, il suo far proprio la logica di Yhwh, fidandosi dei “tempi” divini. Ci sembra convincente quest’ultima interpretazione, anche alla luce del contesto non solo biblico, ma anche accadico, dove solo Dio accorda giustizia (Dt 9,4-6; Sal 119,66). Non è una semplice dichiarazione, ma trasformazione. La distinzione paolina tra opere e parole molto probabilmente esulava dagli interessi del narratore. La sua discendenza – e il lettore! – troveranno in Abramo il typos che le permetterà di essere benedetta e di benedire (Gn 12,4). Ma resta pur vero che la fede di Abramo lo ha meritato (cf. Ne 9,8).
4 Secondo pannello (vv. 7-21)
Questa seconda parte, più dinamica e iridescente di simboli, si radica nella storia. Si dipana dalla uscita di Abramo da Ur, sino a quella degli Israeliti dall’Egitto, per approdare all’entrata e al possesso della terra promessa (schema intercettabile in Gs 24,2-13; Ne 9,7-25). Dio si impegna dinanzi a lui con un solenne giuramento. Si apre con un’autopresentazione: «Io sono Yhwh che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei» (v. 7), che è analoga a quella del Decalogo (Dt 5,6//Es 20,2), è più affine a Lv 25,38 per il nesso con il dono della terra, ma è più originaria e fondativa perché l’esodo di Abramo è stata la prima rinascita (stesso verbo hiph.: yāṣā’) ed anticipa la nascita di Israele che esce dall’Egitto. La formula è tardiva, anche perché notoriamente il toponimo «Ur dei Caldei» compare solo nel periodo babilonese.
L’obiezione di Abramo non è una critica, o una messa in discussione, bensì una sincera richiesta di un segno, dinanzi ad una cosa di per sé inedita (esattamente come quella di Gedeone in Gdc 6,14-22 o di Maria nell’annunciazione in Lc 1,34, diversa da quella di Zaccaria cui Dio ha proposto un prodigio già compiuto in Lc 1,38). L’attenzione di Abramo (e del narratore per i suoi lettori) si sposta dalla discendenza alla terra.
Il rituale che Yhwh comanda (vv. 9-11) e il suo epilogo (v. 17) sono stati variamente interpretati. In ebraico abbiamo il sintagma “tagliare il patto” (in ebraico kārat berît). Per alcuni studiosi si tratta di un sacrificio, per la maggioranza di un rituale di giuramento o di alleanza. Il rito prettamente sacrificale va escluso, perché ad esempio manca un altare e i volatili, pur essendo sacrificabili, non lo sono secondo le prescrizioni del Levitico (cf. 1,14-17, 5,7-10; 14,22), ma soprattutto restano illesi. Inoltre si parla di «carcasse» (pegārîm), un termine estraneo alla fraseologia sacrificale.
Più pertinente e condiviso appare il rito del giuramento, la cui antichità è attestata in altri testi dell’AVO e risulta praticato all’epoca di Geremia (Ger 34,18) come stipula di una alleanza solennemente giurata. Riti analoghi del mondo arameo ed ittita svolgevano una funzione magica apotropaica in contesti di crisi, di sventure e in particolare di ostilità da parte di nemici. Questo stesso rito poteva significare una auto-maledizione in un patto o accordo come nel caso di Ger 34: una volta divisi in due gli animali, i rispettivi contraenti passavano in mezzo alle due parti pronunciando una formula imprecatoria in cui accettavano di subire la stessa sorte degli animali uccisi se avessero infranto il patto.
Desta curiosità il requisito di «tre anni» per i primi tre animali, che vengono dimezzati, a differenza della tortora e del pulcino di colomba. Un testo illuminante potrebbe essere quello di Gedeone che risparmia il giovenco di suo padre, mentre sacrifica un secondo giovenco di sette anni, simbolo dell’oppressione settennale dei Madianiti (Gdc 6,1.25). I tre anni sono stati variamente identificati con tre epoche o fasi, mentre la tortora e il pulcino (una endiadi?) potrebbero essere simbolo di Israele (Sal 74,19; Os 7,11), finanche dei due regni divisi. Se poi contiamo gli animali, tre vengono sacrificati; il quarto, come unicum, corrisponderebbe alla quarta generazione di cui si parlerà immediatamente, che è la generazione del ritorno. La preparazione degli animali rischia subito di essere vanificata dall’incursione di «uccelli da preda» (‘ayiṭ), un termine tardivo che, spesso associato al generico «uccelli del cielo» (Dt 28,26;1Re 14,11;16) e alle fiere voraci, simboleggia le insidie di nazioni nemiche di Israele, come Babilonia, Moab, Ammon, ed Edom (cf. Ger 12,9; Ez 39,4), ma è la metaphora princeps della catastrofe vergognosa dell’esilio (cf. Sal 80,14).
Il v. 12 sembra contraddittorio, perché colloca l’azione al tramonto, quando nel precedente v. 6, per vedere le stelle, doveva essere già notte. Indubbiamente rivela un’altra tradizione amalgamata alla prima. Il narratore biblico, come altrove, non si preoccupa di una armonizzazione temporale, ma accoglie una seconda “voce” che arricchisce la prima visione del cielo stellato. Questo gli permette anche di far coincidere il crepuscolo ingoiato dall’oscurità con il terrore e il buio che pervadono il torpore di Abramo. Questo «torpore» (tardemāh) è lo stesso del momento in cui Dio addormenta Adamo per creare la donna (Gn 2,21); l’endiadi «terrore e grande oscurità» (’êmāh hẳšekāh gedōlāh) – si noti l’allitterazione tra torpore/terrore – preludono ad una azione teofanica che sfugge completamente al controllo dell’uomo (Es 14,20; Sal 88,16; Gs 2,9; Is 29,10): è un terrore angosciante non umano (Gb 33,7). Qui coincide con due profezie sul futuro dei discendenti di Abramo (vv. 13-14; 16-21), che incastonano quello del patriarca (v. 15) e la visione finale (v. 17).
La maggioranza reputa queste profezie come una inserzione tardiva, ma nel testo tràdito è essenziale vedere qual è la loro funzione drammatica. Sembra logico inquadrarli nella strategia narrativa che intende andare oltre Abramo e il figlio che attende, per allargarlo alla sua intera discendenza e al dono della terra. Abbiamo una prolessi del resto del Pentateuco: il soggiorno in Egitto sotto Giuseppe, visto come migrazione ed esilio in una terra straniera, l’esperienza tragica della schiavitù e della oppressione, l’esodo e il passaggio del mare come giudizio di Dio, il ritorno nella terra promessa dove Dio sta parlando con Abramo. Le proprietà che Abramo aveva rifiutate in dono dal re di Sodoma (14,21) saranno bottino della generazione dell’Esodo. Quanto ad Abramo, non se ne andrà da solo (v. 2), ma «raggiungerà al tramonto (bô’) i suoi padri, in pace», formula che indica una vecchia felice, piena, sazia di giorni.
Salta agli occhi il divario cronologico della durata dell’oppressione egiziana: prima è computata in 400 anni (v. 13), poi si parla di quattro generazioni (v. 16). Le cifre possono far coincidere volutamente il tempo dell’esodo egiziano e il tempo dell’esilio babilonese (40 anni moltiplicati x 10). Il ritorno dovrà aspettare il secondo implicito giudizio di Dio, dopo quello sull’Egitto, che riguarda l’«iniquità» (‘āwôn) degli Amorrei, una designazione collettiva che abbraccia tutti gli abitanti di Canaan. In che senso siano stati iniqui non si precisa, ma – molto probabilmente – si tratta di una rilettura post-esilica, che proietta in questi antichi abitanti, l’ostilità e il sabotaggio del cosiddetto «popolo della terra» (‘am hā-āreṣ) – ovvero coloro che erano restati nel paese e non erano stati deportati a Babilonia e che gli ex-esiliati dovettero affrontare, come appare nei libri di Esdra e Neemia. Il linguaggio forense è tardivo e, più che sulla espulsione di questi concorrenti, fa emergere un prendere possesso che non è frutto di sforzi bellici umani, ma puro atto divino, che non è capriccioso, ma punisce la malvagità che ha contaminato quella terra (Dt 9,4; Lv 18,24-27; 22,24); questo deprivazione, però, non manca di suonare come monito per il lettore. Infatti, letta con il senno di poi, come ha finito per colpire lo stesso Israele che si è macchiato della stessa malvagità (1Re 14,24), così resta attiva anche per i reduci dall’esilio che si riappropriano del paese. Il “qui” come meta del ritorno resta non specificato, (v. 16a), ma, a meno che non si tratti di Mamre/Hebron, non è peregrino pensare che si alluda a Gerusalemme, visto l’incontro con Melkisedeq re di Salem in Gn 14,18 e la menzione degli Amorrei, che in Ez 16.45 è un nickname al singolare maschile di Gerusalemme. In ogni caso è la zona di Giuda (la Yehud provincia persiana del post esilio).
Nel v. 17 il sole è definitivamente tramontato e la scena è immersa in un «buio fitto, pesto» (‘aleṭāh), un termine tardivo che altrove ricorre solo in Ezechiele, come simbolo della tragedia della fine di Giuda e dell’esilio (Ez 12,6.7.12). Qui il piano sonoro riecheggia gli uccelli rapaci, mentre in Ezechiele coincide con il buio degli occhi cavati a Sedecia (2Re 25,7). A questo punto non sappiamo se Abramo si risvegli, o viva in una incubazione la visione come un sogno; l’essenziale – come sempre – è che il lettore venga privilegiato dell’esito finale della scena che è la chiave del racconto. Notiamo infatti alcune significative anomalie e dettagli significativi, in una stipula che di per sé comportava l’azione e l’impegno dei due contraenti, vassallo e signore.
Manca la formula auto-imprecatoria, e la spiegazione è semplice: Dio non può maledire sé stesso. Solo Dio, però, passa sotto forma di «braciere fumante» (tannûr āšān) e di «fiaccola ardente» (lappîd ’eš) (v. 17). Queste immagini ignee molto probabilmente alludono alla nube e la colonna di fuoco che accompagna Israele nel deserto e alla teofania dell’Oreb/Sinai (Es 3,2;13,21; 19,8; 24,17; Dt 4,24); il fuoco è simbolo per antonomasia del divino, del suo mistero fascinans ac tremendum, inafferrabile, trascendente eppure immanente, capace di illuminare la notte e di riscaldare. Questo passaggio incandescente del solo Yhwh significa un impegno unilaterale, vale a dire un’alleanza che poggia unicamente sulla fedeltà e sulla gratuità incondizionate di Dio. Yhwh non impone ad Abramo condizioni da osservare. Abramo e i suoi discendenti potranno venire meno, ma non verrà mai meno la lealtà di Dio e l’impegno eterno, incondizionato per il suo popolo. Il fuoco è simbolo teofanico che annulla ogni possibilità di ripensamento, di tradimento, di smentita, anche nei casi di tradimento più estremo perché, come vedremo nell’esodo, mette in gioco il suo “nome” e detesta che Israele, a cui è stato promesso di «essere come le stelle», venga poi ridicolizzato e «coperto d’onta» (cf. Es 32,11-13; Dt 32,26; Dn 3,35-36!).
L’oracolo finale che «sanziona l’alleanza» (kārat berît) è solenne: il verbo va tradotto con ĝtu devi sapere», quasi un ascolto doveroso ed obbligato. Diversamente dalla traduzione CEI2008, il verbo ebraico non è al presente («io do»), ma al perfetto («ho dato», nātattî) a enfatizzare una decisione-promessa irrevocabile ed indelebile, con valore performativo. Questa terra donata alla discendenza – e non subito ad Abramo – risulta delimitata con una formula tardiva stereotipata (2Re 24,7), ritagliata proprio da confini di morte, vale a dire tra le due nazioni dei due grandi esilii ed esodi: l’Egitto («il torrente di Egitto», Nm 34,5) e Babilonia («il grande fiume Eufrate», Ger 46,6;51,59). Si noti come le due terre delle fondamentali oppressioni di Israele ne siano le due incubatrici di vita nuova. Qui abbiamo la lista più lunga (10 popoli) degli abitanti della terra prima dell’ingresso di Israele rispetto ad altri elenchi di sei o di sette, ad indicare la totale estensione. Nel mondo del racconto sono preisraeliti; in realtà, come anticipato, dietro di loro si potrebbero celare sia i popoli fronteggiati dal regno davidico-salomonico o, molto più probabilmente, i vari componenti del “popolo della terra”. La lista infatti appartiene ad una fraseologia tardiva, frequente nei testi deuteronomistici, ma anche più tardivi (Es 3,8.17; 13,5; Dt 7,1;2,7; Gs 3,10; ecc.), ed è un’aggiunta che, secondo molti, riveste un valore giuridico che ne legittima il possesso.
Abramo non vede il volto di Dio, ma lo contempla in un torpore, al confine tra la vita e la morte, nel fuoco e nel fumo, che sono simboli che esprimono l’essere elusivo di Dio, ma soprattutto il fatto che si potrà “vedere Dio” di passaggio, solo di spalle, cioè nel futuro, come Mosè (Es 33), in «una voce franta», dove è il silenzio a sillabare il senso come per Elia (1Re 19). Vedere Dio è impossibile per l’uomo, altrimenti morirebbe. Anche Mosè avrà un segno, ma al futuro, sul Sinai. La notte di Abramo si illumina di questo fuoco, che poi scompare, ma è promessa eterna, indelebile. L’esodo da Ur (fornace) si trasfigura, trova il suo senso e la sua certezza nel tannûr («braciere») divino che passa.
5 La genesi testuale di Gn 15
Ricostruire la genesi testuale di Gn 15, com’è noto, significa inoltrarsi in un ginepraio di ipotesi spesso agli antipodi. Ripetizioni, incongruenze, fraseologia di varie – e presunte – matrici, lasciano ipotizzare una elaborazione complessa. Già il tosafista Rashsbam (Samuel ben Meir XII s.) si focalizzava sulla contraddizione tra stelle e crepuscolo; più tardi H. Hupfeld, seguito dal più noto J. Wellhausen che forgiò la successiva opinio communis, distinguevano due racconti che sarebbero stati indipendenti; il primo (vv. 1-6), attribuito a E, e il secondo (vv.7-21) attribuito a J. Molti altri ricalcarono le sue orme, aggiungendo però il lavoro di un redattore o più, che sostanzialmente convergeva sull’aggiunta dei vv. 19-21, in particolare dei vv. 13-16, attribuendo la fraseologia a una redazione di impronta deuteronomista. Di fatto si registra una tensione tra i vv. 13-16 e la promessa solenne performativa del v. 18.
Recentemente si tende a ravvisare nel racconto una matrice post-esilica aperto alla resilienza dopo l’esilio. Gli esegeti tendono ad attenuare una autorialità squisitamente deuteronomista, riconoscendone il colore, ma non lo stile o l’ideologia, per dividersi tra una redazione sacerdotale o post-sacerdotale. Con ogni probabilità bisogna riconoscere in Gn 15 un testo post-sacerdotale e alternativo a Gn 17 sacerdotale. Detto altrimenti, è un complemento post-sacerdotale della promessa introdotta in Gn 12, riprendendo il nesso tra discendenza e terra formulato per la prima volta in Gn 12,7 e poi in Gn 13,14-17 (con sequenza inversa terra-discendenza). Mentre in Gn 17 (P) i destinatari della terra sono la moltitudine delle nazioni (non solamente Israele e Giuda, ma anche Ismaeliti, Edomiti ed altri…), in Gn 15 (post-P) solo il popolo d’Israele/Giuda (Isacco) rappresenta la legittima discendenza del patriarca, rispetto a un figlio nato da uno dei suoi servitori (quello eventuale di Eliezer e poi concretamente Ismaele dalla schiava Agar). La scelta preferenziale di Isacco, pertanto, non esclude l’integrazione di altri “diversi”. L’incongruenza tra stelle e crepuscolo si potrebbe risolvere se solo si invertisse la sequenza. Non è mancato chi, come già Ibn Ezra, ha addirittura postulato due notti. Ma non è peregrino pensare che il narratore finale abbia posposto i tempi per dare, in virtù della “legge della precedenza”, maggiore rilievo e impatto alla promessa della discendenza prima di quella della terra. Il motivo è semplice: per i reduci della Gôlāh babilonese la prima urgenza era la sopravvivenza della propria identità, anteriore al possesso di una terra. Entrambi erano importanti, ma il primum necessarium era il popolo che doveva possederla. L’inversione cronologica, che faceva e fa problema agli esegeti per i quali vigono criteri temporali “occidentali”, non lo faceva ai narratori biblici, che spesso alterano la sequenza logico-cronologica secondo il celebre principio formulato dai rabbini: «Non c’è un prima e un dopo nella Torah» (’ên mûqdām ûme’uḥar battôrāh, Tosāfôt a Berākôt 7B).
Abbiamo notato i legami con il testo tardivo di Gn 14, l’unico che presenta una venatura epica di Abramo descritto come capo militare (in sintonia con la tematica della lotta impari contro oppressori stranieri come il libro di Giuditta). Sorge inevitabilmente la domanda sulla storicità del racconto. Diversamente da quanto asseriva W. De Wette, che considerava inaffidabili le storie bibliche, va ricordato che gli antichi difficilmente inventavano di sana pianta, ma che nella Bibbia, per dirla con R. Hendel, «il passato è il passato rappresentato, non il passato in sé stesso». Abramo rientra nel modello del padre fondatore, per certi aspetti affine ad altri eroi extrabiblici come Xuto, padre degli Ioni e degli Achei, o di Danao, il fondatore di Argo, entrambi immigrati da una terra, erranti, che prendono possesso della loro paese. Alla luce di questi elementi possiamo dire che, dietro alla stesura “imitativa” di Gn 15, sembrano intercettabili quanti in epoca post-esilica erano rimasti nella terra e non erano andati in esilio; erano coloro che Ezechiele chiama sprezzantemente gli «abitanti delle rovine», che si identificavano con il solo Abramo (Ez 33,23-24), in alternativa o conflitto con altre tradizioni sull’origine di Israele (come quella che si rifaceva a Giacobbe o a Mosè). Questa autolegittimazione esclusiva dovette affrontare le istanze ed esigenze dei reduci da Babilonia; costoro furono i responsabili dell’inserzione dei vv. 13-16, che sono una rilettura “correttiva” ed ecumenica, tesa a integrare la tradizione dei rimasti nelle proprie rivendicazioni di reduci, in modo meno conflittuale ed alternativo (come si evince dalle tensioni in Esdra-Neemia). In parole più semplici, se all’origine chi si identificava in Abramo era il “popolo del paese”, in seguito Abramo divenne il paradigma della Gôlāh che proveniva proprio da Ur dei Caldei come simbolo della Mesopotamia. Gn 15 ha quindi la precipua funzione di circonfondere il “fondatore” Abramo di un alone di prestigio unico e fondante, che allusivamente democratizzava antiche prerogative istituzionali. Anzitutto quella di re, dal momento che la sua promessa incondizionata anticipa quella di Davide (2Sam 7,12), in sintonia con i Sal 105-106: il patriarca e la sua discendenza rimpiazzano Davide e la sua dinastia con il libro delle Cronache, dove Davide viene presentato come discendente di Abramo. Poi quella di profeta, che si propone come modello della schiera profetica di Israele. Così pure quella di sacerdote, se non altro per il rito che implica alcuni aspetti inevitabilmente sacrificali, preceduto dalle sue costruzioni di altari. In modo riassuntivo, quella del primo credente, il cui esodo da Ur è superiore a quello dall’Egitto. Abramo è più importante di Mosè – come hanno capito i mosaicisti del duomo di Monreale…. Ed il problema della sopravvivenza e dell’identità, in una storia che sembrava remare contro, era più urgente di quello altresì vitale della terra.
Ci sia consentita un’ultima considerazione, forse più di genere midrashico o patristico o, se si vuole, poetico. Il testo attuale, nel suo amalgama non rispettoso della temporalità, crea tuttavia una splendida suggestione tra le stelle e il crepuscolo: come è necessario che il sole tramonti (bô’ vv. 12.17) per poter contemplare le stelle, così solo tramontando/morendo (bô’, v. 15) nella pace, Abramo potrà traguardare la sua discendenza. Nel NT è Gesù che muore come chicco di grano per generare miriadi di spighe (Gv 12,24), chiamati a «risplendere come astri nel mondo» (Fil 2,16). Come i discepoli di Emmaus al morir della sera (klinein) possiamo riconoscerlo Risorto e presente solo se “tramontiamo” (klinein) con lui a tavola nello spezzare il pane (Lc 24,29-30).
Aspettando il sole che verrà… non avremo freddo più…!
(E. Ruggeri, Prima del temporale)