Letture festive – 163. Pregiudizio – 24a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

24a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 15 settembre 2024
Dal libro del profeta Isaìa – Is 50,5-9a
Dalla lettera di san Giacomo apostolo – Gc 2,14-18
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 8,27-33


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letture festive 163

Il protagonista di questa pagina di Isaia parla in prima persona come un essere umano sottoposto a violenze, insulti e torture, che potrebbero farlo apparire, agli occhi del pregiudizio altrui, come qualcuno che meriti un simile trattamento. Il pregiudizio altrui, infatti, in quanto determinato da apparenze che non corrispondono al vero, può farci vergognare e confondere, a meno che non siano convinzioni e motivazioni solide a ispirarci, sostenerci e guidarci, come con Dio o come senza Dio. Nel caso del protagonista del brano di Isaia risultano decisivi la sua fiducia nella vicinanza di Dio e il suo poter contare sul sostegno divino, al punto da potersi permettere di sfidare i nemici, fin quasi a convocarli a giudizio. Quando infatti siamo convinti del valore della nostra causa, della sincerità delle nostre intenzioni e della bontà dei nostri obiettivi, in questo caso possiamo permetterci di affrontare il giudizio o il pregiudizio altrui senza paura, addirittura invitando previamente altri a sottoporci alla loro valutazione, convinti di poter affrontare, sostenere e superare positivamente questa sorta di chiamata in giudizio da parte di altri. Se i con Dio in questa prova del giudizio altrui confidano sulla vicinanza e sull’intervento di Dio, per i senza Dio si tratta di capire su quale forza, su quale sostegno e su quale assistenza possano contare. Al riguardo vi sono almeno tre elementi che – in mancanza di un Dio – potrebbero risultare rilevanti e forse decisivi nel sostenere e guidare attraverso le avversità il vissuto cristiano e credente dei senza Dio: la propria coscienza individuale coltivata con impegno verso la sua maturità, l’ispirazione proveniente dalle pagine bibliche e dal patrimonio di una ricca Tradizione ecclesiale elaborata in due millenni di cristianesimo, il supporto e la vicinanza, individuale o comunitaria, di altri credenti, con Dio o senza Dio, sui quali poter contare al presente o che hanno lasciato tracce positive nella vita di chi li ha incontrati. Quando ci troviamo, come con Dio o come senza Dio, in questa che potremmo considerare una condizione di grazia, allora le avversità e i pregiudizi perdono molto della loro capacità di colpirci e ferirci, di confonderci e di umiliarci facendoci vergognare. In questi casi scopriamo una forza e una capacità di resistenza e di resilienza inattese e che forse non speravamo di poter sperimentare, una forza e una capacità per le quali – in modi diversi come con Dio o come senza Dio – riconosciamo di dover essere grati.

Nell’esistenza cristiana, che Giacomo nella sua lettera sottopone al giudizio di una critica lucida ed esplicita, forme di pregiudizio spiritualistico – alimentate da un’errata comprensione del modo in cui la fede viene presentata nelle lettere paoline – possono minare alla base l’impegno verso i bisognosi, certamente e anzitutto da parte dei con Dio, ma in realtà anche da parte dei senza Dio. Ciò avviene tutte le volte che le teorie sulla realtà o sulla fede cristiana tanto dei primi, i con Dio, quanto dei secondi, i senza Dio, rischiano di prevalere sulle pratiche concrete di aiuto ai poveri. Contro queste possibili derive polemizza l’autore della lettera, ponendo alla base del proprio approccio una sottolineatura che gli proviene verosimilmente dalla tradizione ebraica, la sottolineatura della centralità delle pratiche e di quella forma di impegno etico che si esprime nella concretezza fattiva di chi opera il bene a favore dei bisognosi. Ma se, oltre all’ispirazione, a monte, nell’ebraismo, con Dio e senza Dio volessero cercare per questa pagina neotestamentaria una possibile discendenza, a valle, nella storia del pensiero cristiano, potrebbero forse ritenere il testo di Giacomo come una sorta di manifesto della teoria dei cosiddetti cristiani anonimi proposta dal teologo Karl Rahner. Anche in questa teologia novecentesca, infatti, troviamo una distinzione tra il vissuto di una pratica concreta e la dichiarazione esplicita di una fede religiosa. Anche nel pensiero di Rahner, inoltre, troviamo una ricerca di quelli che potrebbero essere i tratti propri di un’esistenza autenticamente cristiana, nel tentativo di distinguerli attraverso argomentazioni teologiche da eventuali pregiudizi religiosi. In Giacomo, come in Rahner, non vi è ovviamente la necessità inevitabile di una contrapposizione tra i due elementi e cioè tra concrete pratiche di vita ed esplicite professioni di fede. E tuttavia – volendo soprattutto rivolgere un appello accorato a coloro che si dichiarano credenti (più che non agli eventuali cristiani anonimi) – tanto l’autore biblico quanto il teologo Rahner insistono nell’invito a non sottovalutare l’importanza delle pratiche concrete. Si deve evitare, infatti, di cadere nel rischio di invertire l’importanza di queste ultime – le pratiche concrete – rispetto a ciò che si dichiara di credere o di ritenere per vero nell’ambito delle proprie convinzioni, tanto quelle personali e private, quanto quelle condivise ed ecclesiali. La frase conclusiva di questo testo di Giacomo, del resto, illustra due delle quattro possibili condizioni esistenziali che, in base alla teoria dei cristiani anonimi, si possono ipotizzare rispetto all’autenticità di una fede cristiana realmente vissuta. Se infatti in una prima tipologia rientrano i con Dio nei quali vi è corrispondenza e coerenza tra dichiarazioni di fede esplicita e comportamenti concreti evangelicamente vissuti, vi può essere una seconda tipologia di con Dio che, pur dichiarando una fede esplicita, non vi fanno tuttavia corrispondere la coerenza di una condotta evangelicamente ispirata. La terza possibile tipologia è quella di senza Dio che non dichiarano una fede cristiana né si impegnano in uno stile di vita evangelico. La quarta tipologia, invece, riguarda quei senza Dio che non aderiscono alle formulazioni tipiche dei contenuti di una fede cristiana teistica, ma che, tuttavia, conducono la propria esistenza secondo uno stile di vita che si potrebbe definire a pieno titolo evangelico. Per questo, nella frase di Giacomo che critica i credenti che si disinteressano dei poveri, potremmo riconoscere una sorta di provocazione rivolta ai con Dio (appartenenti alla seconda tipologia) da parte dei senza Dio (appartenenti alla quarta tipologia): «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

L’evangelista Marco, in questo passo noto come la confessione di fede di Pietro, mostra in realtà come anche essa consista – per con Dio e per senza Dio – in una forma di pregiudizio, inteso qui nel senso etimologico di un giudizio che precede l’incontro con la realtà stessa, su cui intende formulare un giudizio conoscitivo. Il brano evangelico, infatti, inizia raccogliendo le opinioni che circolano tra la gente riguardo all’identità di Gesù, opinioni evidentemente inadeguate e insufficienti che lo descrivono come il Battista o come Elìa o come uno dei profeti. Il narratore prepara così quella che sembrerebbe essere finalmente – sulle labbra di un Pietro portavoce dei discepoli – la risposta esatta alla domanda sull’identità di Gesù: «Tu sei il Cristo». Ma anche questa professione di fede, benché apparentemente esatta, si basa in realtà su un pregiudizio e non a caso il Gesù di Marco prima invita Pietro a non divulgarne il contenuto e poi, quando lo stesso Pietro rimprovera a Gesù l’aperto insegnamento su sofferenza, rifiuto, morte e resurrezione, gli ordina di andare dietro di lui e cioè di riprendere il suo posto di discepolo. Solo in questo modo, infatti, Pietro potrà evitare di diventare una sorta di Satana che si riduce a pensare in modo troppo meschinamente umano. Come per Pietro, anche per noi lettori odierni con Dio o senza Dio delle pagine evangeliche, il riconoscimento dell’identità di Gesù come Cristo rischia di essere frutto di un pregiudizio, quando – mentre si cerca di esprimere un giudizio adeguato su Gesù dandone una definizione chiara – si tende però a rifiutarne un insegnamento fondamentale. E, come per Pietro, anche per con Dio e per senza Dio, il superamento del pregiudizio è possibile solo a condizione di ritrovare, come discepoli, la via del proprio cammino di sequela rispetto alla figura di Gesù. Ma più in generale, al di là dello specifico caso di questa narrazione evangelica, si dovrebbe forse estendere in ambito cristiano a ogni contenuto di fede la preoccupazione per ciò che rischia di basarsi su un pregiudizio. Si potrebbe, cioè, ritenere che ogni affermazione su contenuti di fede alla quale non corrisponda in coscienza un sincero atteggiamento interiore o alla quale non corrisponda un concreto impegno di vita nella pratica di uno stile evangelico, si trovi – questa affermazione su contenuti di fede – seriamente esposta al rischio di essere basata su un pregiudizio. Con Dio e senza Dio si troverebbero quindi invitati dalle parole evangeliche di Gesù a un prudente silenzio sui contenuti della fede, un silenzio che potrebbe essere legittimamente interrotto solo da parole pronunciate con il giudizio e la coscienza di un sincero atteggiamento interiore e solo da chi, con Dio o senza Dio, pronuncia tali parole sui contenuti della fede facendovi corrispondere il concreto impegno della propria vita in pratiche quotidiane di sapore evangelico.