Letture festive – 162. Bisognosi – 23a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

23a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 8 settembre 2024
Dal libro del profeta Isaìa – Is 35,4-7a
Dalla lettera di san Giacomo apostolo – Gc 2,1-5
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 7,31-37


Su YouTube l’audio-video si trova cercando:
letture festive 162

Il mondo descritto da Isaia è popolato da bisognosi, che sono anzitutto degli smarriti e cioè delle persone che si sono perse, che non riescono più a orientarsi e che quindi si trovano in una condizione che non consente loro di raggiungere e ottenere ciò di cui avrebbero bisogno. Ciò vale non solo per il mondo antico, ma anche per quello di oggi, soprattutto se guardiamo oltre i confini dei nostri paesi che appartengono alla parte ricca e minoritaria del pianeta. E forse oggi più che in passato questa rappresentazione del mondo come popolato da bisognosi costituisce per con Dio e per senza Dio un problema, anche se per ragioni diverse. Per i con Dio, infatti, il problema si pone anzitutto sul piano della pensabilità di ciò che è reale e riguarda il come conciliare questa diffusa e spesso drammatica condizione di bisogno – di un bisogno che tragicamente non trova risposte e spesso neppure ascolto – come conciliare quindi questa situazione con le caratteristiche di Dio, di quel Dio onnipotente e buono nel quale i con Dio, con la propria libertà e con la propria intelligenza, cercano di credere in modo convinto e sincero. Per i senza Dio, invece, il problema solitamente non riguarda il piano della pensabilità di ciò che è reale, perché il mondo che i senza Dio si rappresentano corrisponde purtroppo senza difficoltà al mondo che spesso si sperimenta, un mondo che sembra pesantemente segnato da una casuale e tragica insensatezza e da una diffusa indifferenza per le sofferenze dei viventi. Per i senza Dio il problema, dal momento che non sono previsti interventi salvifici di origine divina, nasce dalla impossibilità di una sorta di piano B rispetto ai fallimenti dell’impegno umano nel rispondere alle istanze dei tanti bisognosi che abitano il mondo. La difficoltà dei senza Dio riguarda quindi, sul piano affettivo, emotivo e della volontà, la sostenibilità pratica e la perseveranza nel tempo dell’impegno a favore dei bisognosi, un impegno che con troppa facilità e frequenza può essere messo sotto scacco e apparentemente vanificato nei suoi risultati. In queste situazioni, invece, i con Dio che ritenessero di aver risolto il loro problema sulla pensabilità della reale esistenza di Dio, potrebbero sempre contare, se non su una soluzione miracolosa in questo mondo, sul riscatto per i bisognosi attraverso la salvezza eterna, tenuta in serbo da Dio per un’altra vita in un altro mondo. Ma a questi problemi il testo di Isaia ne aggiunge un altro, quando affianca vendetta, ricompensa e salvezza divina, quasi fossero sinonimi o declinazioni simili del medesimo contenuto. Qui per i senza Dio può essere relativamente semplice distinguere tra le diverse rappresentazioni di Dio contenute nei testi biblici e criticare poi quelle ritenute eticamente inaccettabili, ad esempio perché descrivono un Dio violento, mentre i con Dio hanno ovviamente qualche problema interpretativo in più da affrontare e da risolvere quando si trovano a leggere pagine bibliche come queste. Sul piano operativo delle pratiche concrete, invece, noi odierni lettori con Dio o senza Dio possiamo facilmente trovare convergenze di impegno, riconoscendo in Isaia un appello affinché ciascuno – a proprio modo e per quanto gli è possibile – metta in atto fin da subito pratiche che diano risposte corrispondenti alle necessità dei bisognosi. Queste risposte alle necessità dei bisognosi vengono rappresentate dall’autore del libro nei termini di una trasformazione cosmica che restituisce l’integrità perduta tanto ai corpi quanto all’ambiente che tali corpi abitano. Così al superamento di deficit fisici e sensoriali corrisponde il ritorno dell’acqua in zone inaridite: zoppie che scompaiono, occhi che si aprono, orecchi che si schiudono, lingue un tempo mute da cui si sprigionano grida di gioia, acque che scaturiscono nel deserto e che scorrono nella steppa.

Questo passo della lettera di Giacomo – tutto proteso nella difesa dei poveri dalle discriminazioni a cui si trovano sottoposti persino nelle comunità e assemblee ecclesiali – descrive in realtà ben tre categorie di bisognosi, anche se ovviamente molto diverse tra loro: i poveri, i ricchi e i componenti o responsabili delle comunità ecclesiali. Si tratta di tipologie, di problematiche e di condizioni che mantengono una loro attualità anche oggi nelle nostre comunità e assemblee ecclesiali, e che possono riguardare tanto i con Dio quanto i senza Dio. In realtà gli unici veramente e realmente bisognosi sono soltanto i poveri e cioè coloro che, con Dio o senza Dio, in passato come anche oggi, sul piano della concretezza delle risorse di cui possono disporre, non hanno garantito il necessario per una vita dignitosa. Ma la lettera di Giacomo, adottando un registro comunicativo che unisce ironia pungente e critica sociale, smaschera i falsi bisogni delle altre due categorie, bisogni falsi in quanto solo apparenti o superficiali, se paragonati a quelli dei poveri. Il bisogno dei ricchi, infatti, consiste nella garanzia che, per ragioni di prestigio sociale, vengano riservati a loro i primi posti e quelli migliori. Ma normalmente – e questo i ricchi lo sanno bene – non è neppure necessario che questo bisogno venga espresso e tanto meno rivendicato, dal momento che qualcun altro provvede a garantirne la soddisfazione prima ancora che i ricchi aprano bocca. In questo caso sono i componenti o responsabili delle comunità ecclesiali a provvedere e nel fare questo, cercano soddisfazione al proprio bisogno e desiderio di riconoscimento sociale (o in certi casi anche economico) da parte di quei componenti delle comunità e assemblee ecclesiali che notoriamente appartengono alla categoria dei ricchi. Il comportamento descritto e stigmatizzato da Giacomo sarebbe meno grave se non coinvolgesse, danneggiandoli, i veri bisognosi, cioè i poveri, relegandoli pubblicamente in una posizione subordinata. Questa posizione subordinata dei poveri – purtroppo spesso una realtà nei diversi contesti sociali – in una Chiesa fedele alle pagine neotestamentarie non dovrebbe certamente avere nessuna ragione d’essere, nessuna giustificazione e nessuna legittimazione. E invece anche nelle comunità ecclesiali di ogni epoca, all’interno delle quali ciascuna delle tre categorie descritte da Giacomo (indipendentemente dal fatto di essere con Dio o senza Dio) ha bisogni diversi, accade che i reali e vitali bisogni dei più bisognosi e dei veramente bisognosi – e cioè dei poveri – siano gli ultimi bisogni che ci si preoccupa di soddisfare. Prima, infatti, ci si occupa e ci si preoccupa dei bisogni solo apparenti o superficiali di coloro che sono più ricchi e di coloro che – anche solo nel piccolo ambito delle loro comunità ecclesiali – hanno più potere. Giacomo sottolinea che, quando ciò accade, si mettono in atto preferenze e comportamenti antitetici a quelli attribuiti a Dio, preferenze e comportamenti che allontanano anziché avvicinare il Regno, un Regno promesso anzitutto e precisamente a quei ricchi nella fede che sono i poveri.

Il Gesù di Marco, in un territorio straniero e popolato da pagani e da senza Dio si prende cura dei bisognosi e quando gli portano un sordomuto, incapace di entrare in relazione e comunicare utilizzando udito e parola, se ne prende cura attraverso una sorta di primitivo rituale di guarigione. I presenti perciò – nonostante il suo comando di non parlarne a nessuno – iniziano a dire di questo Gesù guaritore: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!». Questo aver fatto bene ogni cosa richiama alla memoria di noi lettori con Dio o senza Dio delle pagine bibliche la conclusione del racconto che il primo capitolo di Genesi fa della divina creazione, un’opera creativa che trova il suo culmine nell’essere umano. Il testo di Marco sembra quindi evocare una sorta di rinnovata seconda creazione dell’umano che Gesù è abilitato a compiere per ristabilire l’integrità della prima creazione, dal momento che questa, evidentemente, non è riuscita a garantire nel tempo e per tutti una adeguata soddisfazione dei bisogni fondamentali. Ma l’evangelista, precisamente nell’introdurre nel suo racconto di guarigione un comando di Gesù di mantenere il segreto – comando che potrebbe sembrare incomprensibile e ingiustificato – invita noi suoi lettori odierni con Dio o senza Dio a spostarci a un livello di interpretazione ulteriore e più profondo. I testimoni della guarigione, infatti, quando affermano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!», generalizzano una singola e particolare esperienza, dimenticando il significato e la particolarità della condizione nella quale ciascun bisognoso si trova e la particolarità del modo in cui il suo specifico bisogno dovrebbe essere soddisfatto. La raccomandazione di Gesù di non parlare a nessuno di quanto lui ha compiuto potrebbe allora – da questo punto di vista – invitarci alla cautela quando ci introduciamo al tema di che cosa noi con Dio o senza Dio, in vario modo bisognosi, possiamo oggi aspettarci che avvenga, in relazione alla soddisfazione dei nostri bisogni fondamentali. E paradossalmente la reticenza del Gesù di Marco a essere additato come uno che «ha fatto bene ogni cosa» lo rende ai nostri occhi di odierni con Dio o senza Dio una figura più credibile. E questo perché i nostri occhi sono diventati ormai piuttosto disincantati nel guardare la realtà e le possibilità che i nostri bisogni – compresi quelli più autentici e nobili – trovino soddisfazione. Ma le parole evangeliche rimangono ancora oggi una provocazione persino per i più disincantati tra noi, con Dio o senza Dio, e non perché ci invitino ad attendere qualche risposta miracolosa o miracolistica ai bisogni cui non riusciamo a trovare risposte alternative. No, la provocazione della raccomandazione del silenzio da parte di Gesù consiste piuttosto nell’ invito a una ricerca tra quelli che riteniamo essere i nostri bisogni più veri e profondi. Si tratta, più precisamente, di un invito a ricercare con onestà interiore se – tra quelli che riteniamo essere i nostri bisogni più veri e profondi – vi sia un punto, un luogo, un tempo, nel quale le parole evangeliche offrono un’apertura di ascolto e di parola e ci possono fare almeno un po’ del bene di cui, come bisognosi con Dio o senza Dio, abbiamo necessità.