Letture festive – 161. Aggiungere Togliere – 22a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

22a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 1 settembre 2024
Dal libro del Deuteronòmio – Dt 4,1-2.6-8
Dalla lettera di san Giacomo apostolo – Gc 1,17-18.21b-22.27
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 7,1-8.14-15.21-23


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letture festive 161

Non aggiungere nulla e non togliere nulla ai comandi del Signore diventa, in questo passo del libro del Deuteronomio, una sorta di ulteriore comandamento con il quale oggi anche noi lettori con Dio o senza Dio delle pagine veterotestamentarie dobbiamo confrontarci. Questa formulazione dell’obbedienza religiosa ai comandamenti divini potrebbe essere intesa come il motto di ogni fondamentalismo, di ogni conservatorismo e di ogni tradizionalismo, dal momento che i fondamentalismi intendono attenersi a una comprensione letterale del testo, i conservatorismi intendono evitare ogni perdita dannosa causata da cambiamenti e innovazioni e i tradizionalismi ricercano una fedeltà assoluta al patrimonio trasmessoci dai padri. Si tratta, per con Dio e per senzaDio, di approcci religiosi e culturali, di atteggiamenti e comportamenti che hanno certamente – quando coltivati in buona fede – motivazioni comprensibili e persino nobili e condivisibili, ma che rischiano facilmente di condurre a un tragico e radicale fraintendimento e persino tradimento delle stesse parole a cui vorrebbero invece essere fedeli. Una prima messa in guardia da questi rischi, in realtà, è già presente nello stesso testo che sottolinea come l’ascolto di queste parole e la saggezza che ne può derivare richiedano paradossalmente di non fermarsi alle parole ma di compiere quel passaggio necessario che consiste nella loro messa in pratica. Il paradosso consiste quindi, da una parte, in un’osservanza che, per non aggiungere e per non togliere nulla, richiede inevitabilmente di aggiungere al semplice ascolto una pratica fatta di aspetti concreti e specifici; dall’altra, il paradosso consiste nell’esigenza di togliere alle leggi e ai comandamenti – se li si vuole applicare e praticare – quella genericità e astrattezza che inevitabilmente li caratterizzano nel loro voler essere universali. Tutto ciò è molto presente anzitutto nell’esperienza dell’ebraismo, che richiede fondamentalmente e anzitutto pratiche di osservanza religiosa e di celebrazione rituale, unite a pratiche di studio che non a caso riguardano insieme la Tradizione scritta e la Tradizione orale. Tali pratiche di studio consistono essenzialmente in un susseguirsi infinito di interpretazioni e di interpretazioni di interpretazioni, interpretazioni di parole e di testi, di racconti e di eventi, di riti e di tradizioni, di precetti e di osservanze. Anche come con Dio e senza Dio in un cristianesimo che cerchi saggezza e intelligenza, siamo invitati a percorrere le nostre strade di fedeltà alle parole bibliche ed evangeliche, così come alla tradizione bimillenaria da cui proveniamo, senza aggiungervi e togliervi nulla, ma – paradossalmente – aggiungendo ciò che è necessario aggiungere e togliendo ciò che è necessario togliere. E dovremmo riuscire a interpretare questa chiamata e questo paradosso in modi che ci evitino il tragico e radicale tradimento che – aggiungendo e togliendo in modo improprio – rischiano di mettere in atto i fondamentalismi, i conservatorismi e i tradizionalismi, tanto quelli con Dio quanto quelli senza Dio. Se infatti i con Dio – per il loro rapporto con i contenuti della tradizione cristiana – sono più esposti a questo tipo di rischi, anche i senza Dio non ne sono immuni. Ne è una dimostrazione il fenomeno dei cosiddetti atei devoti e cioè di coloro che – pur essendo convinti della non esistenza di Dio – condividono però sul piano politico, economico, sociale e culturale approcci, orientamenti, opinioni, pratiche proprie di quei cristiani con Dio che potremmo definire fondamentalisti, conservatori e tradizionalisti. Si tratta, per lo più, di posizioni che – accomunando con Dio e senza Dio – caratterizzano, in modo appunto trasversale, buona parte di quelle che oggi nel panorama sociale e culturale, politico ed ecclesiale chiamiamo le destre.

In questo testo della lettera di Giacomo l’unica realtà a cui non si può aggiungeretogliere nulla è Dio stesso, definito come Padre e creatore della luce, presso il quale non c’è variazione né ombra di cambiamento. Ben diversa è la condizione dei destinatari della lettera – compresi noi suoi lettori odierni con Dio o senza Dio – anzitutto per il dinamismo di crescita, simile a quello di un seme, grazie al quale la Parola è stata piantata nei lettori credenti per condurli alla salvezza. Se la Parola infatti va anzitutto accolta con docilità e ascoltata, si deve però aggiungere necessariamente la sua messa in pratica, dal momento che non aggiungere questa messa pratica avrebbe come conseguenza quella di togliere alla Parola stessa una componente intrinseca al suo finalismo e decisiva per il raggiungimento dei suoi obiettivi, che sono fondamentalmente tre. Il primo è l’attuazione concreta, fino al suo compiersi, di una vita autenticamente vissuta, ciò che viene chiamato salvezza e che riguarda anzitutto il singolo ascoltatore della Parola, il secondo obiettivo è il soccorrere le persone deboli, emblematicamente rappresentate come orfani e vedove, il terzo è quello di evitare l’omologazione a una mentalità egoisticamente mondana. Qui l’aggiungere e il togliere si esprimono, per con Dio e per senza Dio, in particolare con l’aggiungere la messa in pratica della Parola ascoltata, da una parte, e, dall’altra, con il togliere ciò che, allontanando dal messaggio evangelico, condurrebbe a una deriva egoistica e mondana. Anche in questo caso possiamo notare come l’aggiungere e il togliere qualcosa siano componenti essenziali di ogni percorso che intende porsi in ascolto della Parola. Questa Parola, definita dall’autore della lettera come un buon regalo e un dono perfetto giunto dall’alto, appunto come fosse un pacchetto regalo non può restare chiusa ma deve essere aperta. Solo così, infatti potrà essere goduta come portatrice di luce e di verità e utilizzata, sia mettendola in pratica nella sollecitudine verso i bisognosi sia, necessariamente, sottoponendola a un’adeguata interpretazione.

Che cosa si possa e debba aggiungere o togliere nella comprensione, nell’interpretazione e nell’osservanza delle pratiche e delle regole, delle tradizioni e degli insegnamenti religiosi è precisamente la questione che questo testo di Marco propone ai suoi lettori, compresi noi che oggi, con Dio o senza Dio, ci troviamo ad affrontare problematiche analoghe, anche se certamente in un contesto molto diverso da quello delle prime comunità cristiane. Già quella che viene definita dagli interlocutori di Gesù come tradizione degli antichi rappresenta evidentemente il risultato di un aver aggiunto qualcosa e di un aver tolto qualcos’altro alla parola biblica, come mostrano del resto i versetti saltati nella proclamazione liturgica, quelli in cui Gesù contesta una specifica interpretazione giuridica che, con il pretesto delle offerte religiose, sottrae risorse che andrebbero invece dedicate ai genitori bisognosi. Qui l’accusa che il Gesù di Marco rivolge ai suoi interlocutori è quella di trascurare il comandamento di Dio per osservare la tradizione degli uomini, ma il problema che viene evidenziato non è tanto quello di evitare il formarsi di tradizioni umane per seguire il comandamento di Dio in una presunta forma pura, che probabilmente non esiste, quanto piuttosto quello che c’è nel cuore umano di con Dio e di senza Dio. E cioè in che modo si comporta il contenuto magmatico, misterioso e ribollente di quella sorta di sorgente e insieme di ricettacolo individuale dei desideri e delle volontà che orientano l’agire personale. Questo, infatti, dipende ultimamente non tanto dal dichiarare la propria ispirazione come proveniente da un comandamento divino o da una tradizione umana quanto piuttosto da ciò che si produce nell’interiorità di ciascuno. Per con Dio e per senza Dio questa interiorità, abitata da desideri e da passioni, da emozioni e da sentimenti, da volontà e da intelligenza, attraverso continue interazioni con la realtà esterna, finisce per tradursi in pratiche concrete, la cui qualità etica ed evangelica – presente o assente, maggiore o minore – può essere riconosciuta e apprezzata anche da altri con Dio o senza Dio. Ciò che sta a cuore al Gesù di Marco andrebbe quindi colto e coltivato, da parte di con Dio e da parte di senza Dio, tenendo insieme – riguardo all’aggiungere e al togliere – l’insegnamento di due classici della tradizione cristiana come Gregorio Magno e Francesco di Assisi. Il primo, infatti, afferma che le parole bibliche crescono insieme ai loro lettori, i quali inevitabilmente aggiungono agli stessi testi che leggono qualcosa che proviene dal proprio modo di leggere e di comprendere. Quanto all’insegnamento del secondo, quel Francesco di Assisi che nel proprio testamento comanda ai frati di seguire la regola sine glossa e cioè senza commenti e aggiunte, un altro Francesco, vescovo di Roma, ha interpretato questo insegnamento del santo da cui ha scelto di prendere il nome come un invito a prendere il Vangelo senza calmanti e cioè a lasciarsene interpellare e provocare senza togliere al Vangelo stesso, attraverso commenti e interpretazioni accomodanti, quella forza dirompente che lo caratterizza.