Letture festive – 152. Profeti – 14a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

14a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 7 luglio 2024
Dal libro del profeta Ezechièle – Ez 2,2-5
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi – 2Cor 12,7-10
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 6,1-6


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letture festive 152

In questo passo, tratto dal libro del profeta Ezechiele, che si presenta come una sorta di autobiografia spirituale, troviamo uno dei tratti principali che in ogni tempo caratterizzano coloro che ritengono sé stessi dei profeti, con Dio o senza Dio. Si tratta, da una parte, della pulsione che ciascun profeta sperimenta a rendersi disponibile per portare un determinato messaggio, ma, dall’altra parte, della consapevolezza che tale messaggio resterà probabilmente inascoltato e che addirittura i destinatari potrebbero reagire in modo ostile. Si tratta di una tensione che attraversa coloro che – con Dio o senza Dio – si sentono in qualche modo investiti di una missione profetica e che, quando incontrano avversità, devono continuamente riscoprire le ragioni del proprio impegno, in un modo che risulti convincente anche quando si sperimentano fallimenti. Nei casi come quello di Ezechiele, questa prospettiva di un possibile, se non addirittura probabile, fallimento viene espressamente dichiarata dal Dio biblico che lo invia in missione, attraverso la ripetuta sottolineatura che i destinatari del messaggio sono ribelli in rivolta contro il Signore Dio, figli testardi e dal cuore indurito, i cui padri si sono comportati allo stesso modo. Se questi sono i destinatari del messaggio si può certamente sperare che ascoltino il profeta, ma è più verosimile attendersi che invece non lo ascoltino. È precisamente questa la condizione della maggior parte dei profeti con Dio o senza Dio, una condizione caratterizzata in modo drammatico, per non dire tragico, da una triplice difficoltà. La prima difficoltà: avvertire in coscienza come non evitabile la chiamata ricevuta a compiere una missione impegnativa e gravosa; seconda difficoltà: riconoscere che i destinatari della missione ricevuta non sono persone che per le loro caratteristiche meriterebbero l’impegno gravoso richiesto al profeta; terza difficoltà: sapere fin da subito che le parole che, con impegno gravoso andranno rivolte a persone che non le meriterebbero, anziché essere ascoltate e accolte come preziose e decisive, più probabilmente saranno non ascoltate e non comprese, non accolte e sminuite, contestate e rifiutate. Se questa è la condizione tragica dei veri profeti con Dio o senza Dio, per gli stessi profeti il problema diventa appunto quello di riscoprire le ragioni del proprio impegno, cosa che verosimilmente con Dio e senza Dio possono fare in modi tra loro parzialmente diversi. Solo i profeti con Dio, infatti, possono contare sulle motivazioni iniziali di un’obbedienza assoluta dovuta in ogni caso a una vocazione o a un ordine provenienti dall’autorità divina, così come solo i profeti con Dio possono contare sulle motivazioni finali di una ricompensa ultraterrena, garantita anche e soprattutto in caso di fallimento della missione affidata. I profeti senza Dio, invece, devono ricercare in direzioni diverse possibili ragioni e motivazioni del proprio impegno, ragioni e motivazioni che in realtà possono valere anche per i profeti con Dio. Una prima possibile motivazione: la forza dall’appello interiore proveniente dalla propria coscienza etica, spirituale ed evangelica o la forza dell’appello esteriore proveniente da soggetti cui si attribuisce autorevolezza e autorità; una seconda possibile motivazione: il significato e il valore che personalmente si riconoscono ai contenuti del messaggio del quale si diventa portatori, indipendentemente dal significato e dal valore che i destinatari potranno riconoscergli o dai risultati che si potranno produrre; una terza possibile  motivazione: l’importanza decisiva convintamente assegnata alla pratica, ispirata dalle parole evangeliche, di una dedizione di amore gratuito e perdonante, esercitato nei confronti dei nemici o anche semplicemente nei confronti degli indifferenti, degli ingrati, degli inconsapevoli e in generale delle persone di cui il profeta non ha una buona opinione, dei quali probabilmente si ritiene migliore o dai quali si sente interiormente molto lontano. Soltanto i profeti con Dio o senza Dio che sanno coltivare con perseveranza queste ragioni e motivazioni possono sperare di portare a compimento la loro missione così che, come afferma il profeta Ezechiele, i destinatari delle loro parole, ascoltino o non ascoltino, in ogni caso, sapranno che un profeta si trova in mezzo a loro.

La sofferta riflessione autobiografica dell’autore della seconda lettera ai Corinzi potrebbe essere applicata all’esperienza di tutti i profeti e cioè di chiunque, con Dio o senza Dio, si senta chiamato a svolgere una funzione o ricoprire un ruolo che si possano definire in qualche modo profetici. Si tratta di un aspetto dell’esperienza profetica che, nel momento in cui viene riconosciuto, accolto e attraversato, ha la capacità di ridimensionare il rischio di eccessiva presunzione che certamente potrebbe correre chi – con Dio o senza Dio – ritiene di essere stato chiamato a compiere una missione profetica. Chiunque, infatti, sente di potere e anzi di dovere parlare in nome di Dio, o di ciò che la parola Dio può rappresentare, rischia di oscillare tra la presunzione di possedere la verità che è chiamato a comunicare a terzi e lo scoramento di chi sperimenta come questa, che ritiene la verità, venga spesso ignorata o respinta da coloro che dovrebbero invece accoglierla e apprezzarla. La pagina neotestamentaria che evoca la famosa, non meglio specificata e quindi rimasta misteriosa spina nella carne di Paolo potrebbe essere interpretata precisamente in questa direzione da noi lettori odierni con Dio o senza Dio. La spina infatti sembra venir identificata con un inviato di Satana che percuote il profeta, ma questa stessa spina, nonostante la triplice preghiera del profeta, non viene tolta da Dio, che pure si immagina potrebbe agevolmente farlo. Vi è quindi nella spina qualcosa di satanico e negativo che indebolisce il profeta, ma questo misterioso qualcosa viene lasciato agire perché possa essere addirittura trasformato, attraverso quella che viene definita la grazia divina, in qualcosa di forte e di positivo. L’elenco che il Paolo fa delle proprie debolezze sembra suggerire che la spina riguardi in realtà gli insuccessi, le frustrazioni e le sofferenze della stessa missione profetica: si parla infatti di oltraggi, persecuzioni, difficoltà, angosce sofferte per Cristo. Se questo è vero e se può valere anche per gli odierni profeti con Dio o senza Dio del messaggio evangelico, allora si deve pensare che gli inevitabili momenti di frustrazione, difficoltà e delusione incontrati nello svolgimento della propria missione, se rimangono semplicemente tali, si limitano nella loro negatività a far soffrire come una spina conficcata nella carne, spingendo il profeta a chiudersi nel proprio dolore. Se invece gli inevitabili momenti di frustrazione, difficoltà e delusione vengono riconosciuti, accolti e attraversati, essi possono, da una parte, ridimensionare il rischio di eccessiva presunzione e al contempo trasformarsi, per chi – con Dio o senza Dio – ritiene di essere stato chiamato a compiere una missione profetica, in esperienza di grazia e cioè nell’esperienza di una debolezza benefica che si rivela essere più forte del male.

Tutti i profeti con Dio o senza Dio che negli ultimi duemila anni hanno letto e compreso questo passo evangelico sono stati informati, dalle parole del Gesù di Marco, che la loro patria non avrebbe accolto la loro profezia. Si tratta di una sorta di costante storica divenuta poi proverbiale – nessuno è profeta in patria – che in prima battuta potrebbe forse sorprendere, ma che a un esame più attento corrisponde in realtà a molte dinamiche di tipo psicologico, comunicativo e socioculturale. Pare infatti che il tipo di comunicazione cui appartiene la profezia, per funzionare efficacemente ed essere accolta, debba utilizzare un linguaggio e avvenire in un contesto che risultino per i destinatari non troppo lontani o addirittura incomprensibili, ma neppure troppo vicini e familiari. Nel caso del Gesù di Marco i suoi compaesani, pur riconoscendo il carattere stupefacente del suo insegnamento profetico nel contesto religioso della predicazione sinagogale, si trovano tuttavia scandalizzati e cioè ostacolati dal pensiero che la sua appartenenza alla loro stessa comunità di villaggio e cioè l’appartenenza anche familiare al loro medesimo gruppo sociale renda inspiegabile la qualità della sua parola profetica, parola che finisce quindi per risultare ai loro orecchi sospetta e poco credibile. Anche gli odierni profeti con Dio o senza Dio del messaggio evangelico devono fare i conti con questa difficoltà delle loro parole ad essere ascoltate, comprese e accolte nella loro patria, da parte dei loro parenti e in casa loro. Sul piano della comunicazione, perciò, anche ai profeti con Dio o senza Dio che si sentono chiamati a portare i messaggi più radicali o rivoluzionari è richiesta la capacità di sintonizzarsi su una lunghezza d’onda che sia percepibile dai destinatari, rientrando quindi nello spettro percettivo di ciò che possono cogliere, ma nello stesso tempo è richiesta anche la capacità di mantenere una qualche forma di distanza, di scarto, di non-familiarità, di resistenza all’assimilazione e all’omologazione da parte del contesto nel quale operano. Solo così i profeti con Dio o senza Dio, rivolgendosi a coloro che si trovano al di fuori delle loro piccole o grandi patrie, potranno comunicare adeguatamente ed efficacemente un messaggio che, come quello del Gesù evangelico, possiede la forza straordinaria delle parole che salvano e che guariscono con Dio e senza Dio.