Letture festive – 119. Adeguare – 2a domenica di Avvento – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

2a domenica di Avvento Anno B – 10 dicembre 2023
Dal libro del profeta Isaìa – Is 40,1-5.9-11
Dalla seconda lettera di san Pietro apostolo – 2Pt 3,8-14
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 1,1-8


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letture festive 119

Questo passo del profeta Isaia, collocato nel tempo della speranza di un ritorno dall’esilio babilonese, si propone di adeguare l’annuncio profetico alla condizione del popolo, mentre chiede a questo stesso popolo di adeguare simbolicamente lo spazio alla visione del Signore Dio che viene. Così all’annuncio di un’adeguata consolazione, che si concretizza nella fine della tribolazione e nel ritorno alla propria terra, il popolo è invitato ad adeguare il paesaggio, modificandolo per consentire a sé stesso di percepire l’avvicinarsi della gloria divina. Si tratta, riempiendo valli e appianando colli e montagne, di togliere gli ostacoli che impediscono di vedere da lontano un Signore Dio che viene, caratterizzato insieme dalla potenza di un guerriero che esercita dominio e dalla dolcezza di un pastore che accompagna le pecore madri portando gli agnellini sul petto. Ma alcuni dettagli di questa antica pagina biblica, apparentemente senza ombre, possono colpire la nostra attenzione e sensibilità, provocando in noi una sorta di disagio. In questo tempo, che alcuni definiscono antropocene, la rapida trasformazione del pianeta che l’umanità sta attuando, peraltro con notevoli rischi autodistruttivi, rende giustamente perplessi con Dio e senza Dio davanti a inviti come quello a spianare monti e colline e a riempire vallate, al solo scopo di adeguare il paesaggio al nostro punto di vista antropocentrico e consentirci così una visione senza ostacoli. E questo perché quello che nell’antichità dell’autore biblico risuonava come un’iperbole metaforica, nei tempi recenti dell’umanità è divenuta una pratica che rischia di distruggere il pianeta e i viventi che lo abitano. L’altro elemento riguarda il fatto che si parli sì di consolazione e di accudimento quasi genitoriale del pastore rispetto al gregge, ma da parte di quello stesso Signore Dio la cui mano ha prima severamente punito i peccati con una doppia misura, esercitando pienamente il proprio potere e dominio. Se ci trovassimo in una relazione interpersonale tra umani, dovremmo probabilmente parlare di un’ambivalenza patologica, che alterna pratiche violente e intenzioni punitive a momenti di dolcezza e a gesti affettuosi. Soprattutto in questi tempi tragicamente segnati dai tanti femminicidi, è importante esplicitare e smascherare le possibili derive di comportamenti religiosi potenzialmente violenti, spesso ispirati a figure e modelli maschilisti e patriarcali talvolta mascherati con tratti di dolcezza, che possono trovare qualche tipo di legittimazione anche nelle pagine bibliche. E questo non per accusare in modo anacronistico i testi biblici, ma per collocarli nel loro contesto storico e culturale, comprenderli criticamente e renderli così più adeguati ai comportamenti che noi oggi possiamo ritenere accettabili e auspicabili, avendoli peraltro appresi anche grazie all’insegnamento delle Scritture. In questo modo potremo adeguare noi stessi, con Dio o senza Dio, a un messaggio che risulti davvero in grado di consolare, poiché lo percepiamo così attrattivo da spingerci a cercare un punto adeguato a intravederlo e accoglierlo come un lieto annuncio.

In questo passo della seconda lettera di Pietro troviamo un interessante esempio di tentativo di adeguare l’atteggiamento credente a un elemento inizialmente inatteso, che in questo caso è il ritardo della parusia. Si tratta del ritardo – rispetto al tempo imminente che molti evidentemente si aspettavano – di quella venuta del Signore attesa, nell’ambiente religioso delle primissime origini cristiane, come evento che avrebbe dovuto porre fine alla vicenda di questo mondo.
Per adeguare l’attesa propria e dei propri lettori a un messaggio che si era compreso inizialmente in un modo rivelatosi in seguito erroneo o quanto meno parziale, l’autore neotestamentario si serve di quelli che potremmo chiamare due stratagemmi. Il primo consiste nel riconoscere la differenza tra la propria percezione e prospettiva temporale e quelle divine; il secondo stratagemma consiste nel cogliere il differimento dei tempi non come un ritardo, ma come l’ulteriore opportunità offerta a una possibile conversione. Anche noi, odierni con Dio o senza Dio, potremmo trovare in questi stratagemmi interpretativi forme di saggezza preziose per il nostro cammino di credenti, un cammino che può incontrare le medesime difficoltà delle prime generazioni cristiane, ogni volta in cui l’uno o l’altro elemento che ritenevamo certo e assodato si rivela, invece, erroneo o diverso da come ce lo eravamo rappresentato. Riconoscere la limitatezza e incompiutezza del nostro attuale punto di vista rispetto a ciò che in futuro potrà diventare più chiaro, come anche vivere il tempo che ci viene concesso come opportunità di ulteriore conversione personale potrebbero costituire, per con Dio e per senza Dio, preziose pratiche di saggezza. La seconda parte di questo testo della seconda lettera di Pietro pone, invece, un problema diverso, evocato dallo scenario apocalittico descritto dall’autore: il problema cioè di come intendere oggi la dimensione, apocalittica appunto, così presente agli inizi del cristianesimo. Vi è infatti il rischio – in particolare in alcune correnti fondamentalistiche del cristianesimo odierno – che l’apocalisse climatica verso la quale l’umanità si sta avviando, se continuerà con i propri comportamenti irresponsabili e non lungimiranti, venga interpretata religiosamente – questa apocalisse climatica – come un evento non da scongiurare ma da attendere e a cui prepararsi e, anzi, addirittura da affrettare, vedendo in esso appunto la venuta ultima del Signore. Con Dio e senza Dio dovrebbero, invece, opporsi con decisione a questo tipo di interpretazioni, di approcci e di pratiche, sul piano etico denunciandone la irresponsabilità e sul piano teologico evidenziandone la incompatibilità con il nucleo del messaggio neotestamentario. Se infatti forme di escatologia apocalittica come quella testimoniata in questo brano sono innegabilmente presenti in alcuni filoni biblici, vetero e neotestamentari, esse dovrebbero tuttavia essere considerate tra le forme storicamente condizionate che si sono rivelate erronee, ad esempio riguardo all’attesa di una parusia imminente, e che in ogni caso teologicamente non sono più percorribili per le interpretazioni odierne del messaggio cristiano. La santità della vita e le preghiere che possono introdurci senza colpa e senza macchia alla promessa di nuovi cieli e di una terra nuova devono, infatti, essere compatibili con la nostra attuale consapevolezza che non esiste un pianeta B che consenta a noi, con Dio o senza Dio, di disinteressarci delle sorti del pianeta Terra, unica possibile casa comune per tutti noi viventi del presente e del futuro.

Questo è l’inizio e il principio – come vedremo paradossale – del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio: una parola profetica che cerca di adeguare una via affinché diventi percorribile, una voce che invita i suoi ascoltatori ad adeguare a propria volta sentieri che sono da raddrizzare. L’importanza e l’urgenza di questo processo di adeguamento dipendono dall’importanza dell’evento e di colui che deve percorrere questa via e questi sentieri. Per indicare questo inizio e principio, infatti, Marco utilizza la stessa parola greca – archè – che apre la versione dei Settanta del libro di Genesi quando parla della creazione avvenuta in principio. Si tratta quindi di un inizio e di un principio che sembra evocare una nuova creazione e che l’evangelista attribuisce e riferisce a una figura definita da un triplice nome e titolo: Gesù (che in ebraico significa: il divino Innominabile è salvezza), Cristo (che in greco è la traduzione dell’ebraico messia, cioè l’unto di Dio, atteso per il compimento della sua missione), Figlio di Dio (e quindi una figura che appartiene in qualche modo al mondo divino). I primi versetti del vangelo di Marco ci riportano quindi a una condizione germinale, divina e creativa, che però, per la sua importanza e delicatezza, chiede di adeguare l’ambiente nel quale deve produrre i suoi effetti. Adeguata a questo inizio del vangelo di Gesù sembra essere, almeno apparentemente, la predicazione dell’austera figura profetica di un Giovanni che con il suo battesimo invita alla conversione. Ma è questo stesso Giovanni che, mentre invita i suoi ascoltatori ad adeguare il proprio comportamento a colui che viene dopo di lui, in modo paradossale dichiara sé stesso indegno, cioè inadeguato, persino riguardo allo sciogliere i sandali a questo misterioso successore. La inadeguatezza e lo scarto sono quelli del battezzare con acqua rispetto al battezzare in Spirito Santo. Come lettori odierni, con Dio o senza Dio, di questo inizio del vangelo di Marco ci troviamo collocati nel punto e nel momento iniziale di un cammino che ci invita a non evitare il paradosso ma a coglierlo nella sua fecondità generatrice: per essere realmente adeguati, i primi passi da compiere devono essere passi che ci rendono consapevoli della nostra inadeguatezza, come quelli dei penitenti che si fanno battezzare con acqua da un battezzatore che si dichiara a propria volta inadeguato. Ma questo Giovanni – proprio in virtù del suo essere consapevolmente inadeguato – invita anche noi, con Dio o senza Dio, a intraprendere il  cammino… perché siamo solo all’inizio.