Letture festive – 111. Comportamenti – 30a domenica del Tempo ordinario – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

30a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 29 ottobre 2023
Dal libro dell’Èsodo – Es 22,20-26
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési – 1Ts 1,5c-10
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 22,34-40


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letture festive 111

Quando i testi biblici invitano i loro lettori a determinati comportamenti, ciò avviene solitamente perché i contemporanei, con Dio o senza Dio, dell’autore biblico si comportano in modo diverso, se non opposto. Qui il fatto stesso di far parlare Dio in prima persona sottolinea l’importanza dei comportamenti da adottare, evidentemente diversi da quelli praticati comunemente. Il tema che attraversa queste esortazioni, talmente pressanti da sfociare in vere e proprie minacce, è quello di una somiglianza, di una comunanza e di una vicinanza che vanno riconosciute tra esseri umani e che devono tradursi in comportamenti di rispetto, di aiuto e di concreta sollecitudine nei confronti di fasce deboli della popolazione. Ai con Dio o senza Dio che, in virtù della propria condizione e posizione di forza, fossero tentati di prevaricare su questi soggetti deboli l’autore biblico sembra indicare due piste di riflessione. La prima è quella che apre una sorta di squarcio temporale per ricordare a chi opprime lo straniero di essersi trovato in passato – come straniero – nella medesima condizione di debolezza e di bisogno della persona che ora sta opprimendo. Ma uno squarcio temporale viene aperto anche sul futuro, per ricordare all’uomo che maltratta persone deboli – come lo sono socialmente ed economicamente vedove e orfani – che questa condizione di debolezza potrebbe riguardare in futuro sua moglie e suo figlio, resi vedova e orfano dalla sua morte. La seconda pista di riflessione è quella che diffida i lettori del testo biblico dallo speculare a proprio vantaggio sui bisogni fondamentali delle persone in condizioni di debolezza e di indigenza. La proibizione di richiedere, per il denaro prestato, un interesse che viene definito usura e la proibizione di trattenere per sé dopo il tramonto il mantello dato in pegno dal povero per un debito non ancora saldato, sono inviti a coltivare comportamenti e pratiche di giustizia e di pietà, per poter assomigliare a quel Dio biblico che viene definito pietoso perché si comporta come colui che ascolta il grido del povero. Per i con Dio si potrebbe porre il problema delle troppe volte in cui non sembra vi sia un Dio pietoso che interviene a favore del povero di cui ha ascoltato il grido. Per i senza Dio, invece, la figura alla quale auspicabilmente somigliare potrà essere quella di chiunque, davanti al gridare di un povero, si renderà disponibile ad ascoltarlo e a comportarsi come farebbe un Dio pietoso.

Quali siano i comportamenti che Paolo ha tenuto in mezzo ai cristiani di Tessalonica per il loro bene è qualcosa che i destinatari della sua lettera, a quanto pare, già conoscono. E il carattere convincente ed esemplare di questi suoi comportamenti personali sembra essere un fattore che Paolo ritiene importante per la scelta compiuta dai Tessalonicesi, che hanno infine seguito il suo esempio, diventando a loro volta modello per altri credenti. Se infatti è vero che quella che viene accolta in mezzo a grandi prove è la Parola e se è vero che la gioia che l’accompagna è quella dello Spirito, rimane elevata la rilevanza dei comportamenti e del modo in cui Paolo si è presentato e si è comportato dopo essere arrivato in mezzo a coloro che sono divenuti ora i destinatari della sua lettera. In modo analogo, sono i comportamenti di conversione agli idoli ciò che rende credibile e degna di ammirazione da parte di molti la fede dei Tessalonicesi. Nell’esperienza cristiana, infatti, quella di Paolo e dei Tessalonicesi, così come quella odierna di noi con Dio o senza Dio, la rilevanza dei comportamenti rimane decisiva nel suo intrecciarsi con la fede, con l’accoglienza iniziale della Parola e con il suo successivo risuonare, con la gioia dello Spirito che si produce quando tutti questi elementi si intrecciano, appunto, nella vita dei cristiani con Dio o senza Dio. Risuona già in questo testo paolino il tema, che sarà sviluppato ampiamente nei vangeli, dell’importanza dell’agire concreto, di pratiche che devono corrispondere a un’autenticità interiore, della testimonianza offerta attraverso i comportamenti effettivi tenuti dai credenti, comportamenti che spesso risultano più eloquenti delle parole.

Nella tradizione ebraica si trovano uniti – in quello che potrebbe sembrare un paradosso – il valore fondante attribuito alla Parola biblica e l’importanza, forse non meno rilevante, riconosciuta alle pratiche e ai comportamenti, da quelli ripetuti nell’osservanza quotidiana a quelli rituali delle feste religiose, a quelli che presentano una significativa valenza etica. Alla luce di questa considerazione, il brano evangelico di Matteo, nel quale Gesù risponde alla domanda del dottore della Legge su quale sia il comandamento grande, potrebbe forse offrire – tanto per i con Dio quanto per i senza Dio – nuove chiavi interpretative di quell’amore per Dio e per il prossimo che sta al centro della risposta di Gesù. Una prima chiave interpretativa potrebbe essere quella che sottrae il termine amore a ogni accezione sentimentale o emotiva, generale o ideale e in ogni modo astratta o vaga, per restituirlo invece alla concretezza pratica di uno specifico comportamento ben preciso e riconoscibile. Nel caso dell’amore per il prossimo ciò richiede di individuare con precisione chi sia il prossimo da amare. E già qui si potrebbe notare che, volendo rispettare l’ammonimento contenuto nel brano di Esodo appena ascoltato in questa liturgia domenicale, con Dio e senza Dio dovrebbero comportarsi con sollecitudine nei confronti dello straniero, del povero, della vedova e dell’orfano: tutti soggetti deboli da cui vorremmo tenerci lontani ma che invece siamo invitati a cercare in una prossimità sollecita fatta di comportamenti concreti di aiuto. Nel caso, invece, dell’amore rivolto a Dio, la sua interpretazione in termini di comportamenti introduce al tema delle cosiddette pratiche religiose, a partire dal culto e dai riti per proseguire poi con la preghiera e con i sacramenti fino ad arrivare ad altre pratiche che si propongono di aprire al divino o mettere in comunicazione con questo stesso divino, comunque lo si voglia intendere. Se a questo punto i con Dio possono fare riferimento alla corposa tradizione religiosa in materia, tradizione cristiana e non solo, per i senza Dio si apre la possibilità di imboccare sentieri meno battuti ma non meno affascinanti. Si tratta di una pluralità di sentieri, perché, solo per fare un esempio, mentre i cristiani post-teisti potrebbero scegliere forse di avvicinarsi a pratiche spirituali affini a quelle delle tradizioni religiose e filosofiche orientali, i non-teisti potrebbero scegliere forse di coltivare interpretazioni e riformulazioni non-teistiche delle stesse pratiche religiose dell’occidente cristiano. Richiamando, infine, la centralità che lo studio assiduo della Torah e dei testi della tradizione talmudica ha sempre avuto tra i comportamenti e le pratiche proprie della tradizione ebraica, in particolare i senza Dio potrebbero forse trovare elementi di ispirazione nel titolo di un interessante volume dedicato al filosofo ebreo Lévinas: Amare la Torah più di Dio.

Riferimenti:

Azzolino Chiappini, Amare la Torah più di Dio. Emmanuel Lévinas lettore del Talmud, Giuntina, Firenze 1999.