Letture festive – 108. Coltivare – 27a domenica del Tempo ordinario – Anno A
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
27a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 8 ottobre 2023
Dal libro del profeta Isaìa – Is 5,1-7
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi – Fil 4,6-9
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 21,33-43
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letture festive 108
Coltivare e il suo contrario, che qui potremmo definire come desertificare, stanno al centro di questo testo di Isaia, che inizia come un cantico d’amore ma che nel suo procedere diventa in realtà una provocatoria parabola di denuncia e di accusa, rivolta tanto ai con Dio quanto ai senza Dio. La descrizione iniziale dell’amorevole coltivazione di un vigneto che però non produce i frutti attesi conduce alle due domande centrali e decisive: che cosa avrei dovuto fare che non ho fatto? Perché ha prodotto frutti deludenti? La seconda parte del testo, che descrive la desertificazione, si conclude con la traduzione della metafora nelle esplicite accuse di natura sociale che il profeta intende rivolgere alla casa di Israele e agli abitanti di Giuda: spargimento di sangue e azioni di oppressione che sollevano le grida dei perseguitati. Con Dio e senza Dio possono quindi sentirsi accomunati davanti a questa accusa che concentra l’attenzione sulle conseguenze che il coltivare – da parte degli umani – pratiche di violenza, di ingiustizia e di oppressione produce nei confronti delle vittime. Diverso potrebbe essere, invece, il modo nel quale con Dio e senza Dio interpretano le due domande che la parabola del profeta Isaia pone ai propri lettori e ascoltatori. I con Dio, se vogliono difendere la bontà dell’opera creatrice del coltivatore divino, risponderanno probabilmente che Dio non ha alcuna responsabilità nel comportamento malvagio degli umani. I senza Dio, invece, potranno ricercare le ragioni degli esiti riprovevoli delle azioni umane in due direzioni che riguardano, da una parte, la strutturale imperfezione del mondo e della realtà e, dall’altra, la responsabilità degli umani riguardo al valore etico dei propri comportamenti. La realtà del mondo, infatti, se non è stata creata da un Dio buono e onnipotente che ne governa il funzionamento, risulta in sé priva di un orientamento al bene etico e alla giustizia, essendo il frutto di una combinazione di caso e necessità, nel rapporto tra la sua costituzione fisica e il mondo della vita con le sue dinamiche evolutive. Ai limiti presenti in un mondo strutturalmente difettoso si sommano i limiti di una capacità etica degli umani che sembra altrettanto difettosa. Ciò non significa però che, tanto per i senza Dio quando per i con Dio, il comportamento responsabile dei singoli non possa fare la differenza in molte situazioni concrete. Ed è proprio a questa responsabilità e a questa capacità di incidere – a volte poco, ma a volte anche tanto – sulla realtà che le domande della parabola profetica si rivolgono, perché con Dio e senza Dio, ascoltandole e accogliendone la provocazione, possano rispondere con le proprie scelte e i propri comportamenti.
Paolo indica ai suoi lettori, in tre passaggi, che cosa – a livello personale – si debba coltivare e che cosa, al contrario non vada coltivato, se si desidera ottenere quella pace che, essendo superiore a ogni intelligenza, viene definita divina. L’angustiarsi, che sia per ogni cosa o anche per un nonnulla, è il primo atteggiamento che, sul piano delle emozioni e dei sentimenti, non deve essere coltivato ma, al contrario, abbandonato. Si deve invece coltivare – e potremmo pensare anzitutto proprio all’ambito delle emozioni e dei sentimenti – ciò di cui si ha veramente bisogno e che quindi va richiesto o ricercato con tutto l’impegno possibile, sia da parte dei con Dio che da parte dei senza Dio. Il secondo passaggio proposto da Paolo consiste in una elencazione di ciò che deve essere coltivato come oggetto ricorrente dei propri pensieri, negli spazi della propria interiorità, e cioè: quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode. Si tratta, in fondo, di quanto universalmente – e quindi sia da parte dei con Dio che da parte dei senza Dio – viene apprezzato sul piano etico. Il terzo passaggio, per certi versi sorprendente fino a poter sembrare eccessivo, consiste in un invito rivolto ai Filippesi affinché – attraverso il loro modo di comportarsi nella concretezza del vissuto – coltivino ciò che, secondo Paolo, hanno imparato, ricevuto e ascoltato precisamente da lui. Si tratta di un invito che – per non sembrare presuntuoso – deve potersi basare sull’aver lungamente e quotidianamente coltivato, da parte di Paolo, anzitutto in sé stesso e nella pratica del proprio vissuto, le medesime cose che insegna, offre e dice nella sua predicazione e che – solo a queste condizioni – i Filippesi possono con frutto imparare, ricevere e ascoltare da lui. A ben vedere, infatti, anche se può urtare il modo diretto in cui Paolo propone sé stesso come modello da imitare o esempio da seguire, rimane vero – per con Dio e per senza Dio – che la capacità di coltivare comportamenti buoni dipende in larga parte dall’aver potuto sperimentare concretamente e osservare direttamente la bontà dei comportamenti altrui.
Per persone esperte nel coltivare l’ascolto e lo studio delle Scritture ebraiche – come lo sono i capi religiosi e i notabili, interlocutori di Gesù in questo testo di Matteo – la parabola della vigna suona familiare. In effetti fino ad un certo punto sembra vi sia una identità pressoché totale con il testo di Isaia, dove si descrive la cura con cui la vigna viene allestita. Ma ad un certo punto vengono introdotti nuovi personaggi: i contadini ai quali la vigna viene data in affitto perché la possano coltivare nel modo migliore. Ma ciò che questi contadini intendono coltivare sembrano essere piuttosto e anzitutto i propri interessi, attraverso comportamenti disonesti, violenti e in fondo piuttosto assurdi, come quello di uccidere il figlio del padrone sperando di impossessarsi dell’eredità. La domanda che Gesù rivolge agli ascoltatori si rivela essere una trappola, come tipicamente avviene nelle parabole, perché chi risponde volendo accusare altri finisce per accusare inconsapevolmente proprio sé stesso. In questo modo il verdetto di condanna viene pronunciato dagli stessi capi religiosi e notabili che finiscono per accusare sé stessi di non aver saputo corrispondere alla propria missione, al punto che altri saranno chiamati a coltivare meglio la vigna. L’attenzione e l’interesse si spostano, infatti, su quale sia il popolo che possa produrre i frutti sperati, dal momento che gli interlocutori di Gesù, secondo l’evangelista Matteo, hanno ormai perso la loro occasione. Per noi odierni lettori con Dio o senza Dio, le risonanze di questo testo potrebbero riguardare almeno due ambiti, distinti ma non separati: da una parte il compito di coltivare e trasmettere un messaggio evangelico che abbiamo ricevuto, in modo che altri – e in particolare le prossime generazioni di con Dio e di senza Dio – ne possano beneficiare secondo la propria condizione e le proprie necessità; ma l’altra possibile risonanza riguarda la nostra comune responsabilità nel coltivare questo pianeta, anche qui in modo che altri – e in particolare le prossime generazioni di con Dio e di senza Dio – ne possano beneficiare secondo la propria condizione e le proprie necessità. Nel nostro tempo e nel nostro mondo, infatti, un tempo e un mondo che Bruno Latour vede caratterizzati da un “nuovo regime climatico”, l’annuncio e la testimonianza del vangelo non possono che andare di pari passo con il coltivare il ri-equilibrio di un pianeta i cui squilibri diventano sempre più evidenti e disastrosi. Dovremmo infatti considerarlo un pianeta di cui non siamo gli unici proprietari ma solo alcuni tra i suoi temporanei affittuari, chiamati a coltivarlo in modo che possa rimanere abitabile e produrre frutti anche per le future generazioni di con Dio e di senza Dio. Nell’ultima parte del testo, poi, la metafora della coltivazione si modifica nella metafora edilizia della costruzione, dove il diventare decisivo della pietra scartata viene definito come qualcosa di meraviglioso e di conforme alla volontà divina, a ricordarci la predilezione biblica per ciò che altri ritengono secondario. E forse proprio nel riscoprire la centralità di quanto – magari senza accorgercene – abbiamo reso o ritenuto secondario, si possono coltivare possibilità nuove e ricche di frutti per il cammino del vangelo e per il pianeta.