Letture festive – 105. Perdono – 24a domenica del Tempo ordinario – Anno A
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
24a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 17 settembre 2023
Dal libro del Siràcide – Sir 27,33-28,9 (NV) [gr. 27,30-28,7]
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 14,7-9
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 18,21-35
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letture festive 105
Secondo la sapienza del libro del Siracide, il perdono – prima e più ancora che essere un comportamento virtuoso o persino eroico – è l’unica pratica capace di incidere in modo efficace su quella che spesso si presenta come una realtà segnata dalle dinamiche del male. Le alternative al perdono, rappresentate dal rancore e dall’ira, sono definite orribili – prima e più ancora che per il danno che possono procurare al prossimo – per il veleno e la propensione al peccato che instillano in chi le coltiva in sé stesso. È infatti una vera e propria guarigione da una malattia mortale quella di cui ha bisogno chiunque, con Dio o senza Dio, rimanga in collera verso il proprio simile. Una guarigione che dovrebbe condurre a riconoscere come la motivazione più profonda a perdonare vada ricercata nel riconoscersi accomunati, come umani, da una medesima condizione fallibile, dallo stesso destino di essere “carne” e cioè esseri limitati e mortali, ma anche e fin troppe volte da una misteriosa e perversa fascinazione per il male. Chi non accetta nelle relazioni interpersonali di uscire dalla logica dell’odio, della collera e di una durezza senza misericordia, non potrà mai accedere né a una visione adeguata della realtà né a una pratica che consenta di abitare il mondo e le relazioni in modo autentico. Per con Dio e per senza Dio la via di sapienza che viene proposta si riconosce dalla pratica di un perdonare che impegna la memoria in un duplice esercizio: da una parte il dimenticare gli errori altrui e, dall’altra, il ricordare i comandamenti e insieme la caducità di ogni cosa sottoposta a una fine e alla dissoluzione. Non si tratta tuttavia di un approccio superficiale che intenda minimizzare la drammaticità della vita o la malvagità che affligge il mondo o le responsabilità che interpellano ogni soggetto libero. Al contrario, per con Dio e per senza Dio, il perdonare rimane una pratica – tra le poche, se non l’unica – che consente di affrontare in modo realistico la drammaticità della vita, una pratica provocatoriamente nonviolenta capace di sconfiggere malvagità piccole e grandi, una pratica attraverso la quale libertà e responsabilità possono efficacemente interrompere la moltiplicazione esponenziale del male inflitto o subito.
Questi pochi versetti della lettera ai cristiani di Roma apparentemente non sembrano parlare del perdono, ma in realtà delineano lo sfondo a partire dal quale il perdono va compreso e praticato. Che nessuno viva o muoia per sé stesso, ma per qualcun altro o per qualcosa d’altro è, infatti, per con Dio e per senza Dio, un potente richiamo alla inevitabilità delle relazioni e all’orientamento non autoreferenziale di ogni vita che voglia mettersi alla ricerca del proprio stesso significato. E quando le relazioni diventano problematiche fino a fare del male all’altro o anche a farsene reciprocamente, si crea in certi casi, una volta che la violenza sia cessata, uno spazio potenziale per l’affermarsi della pratica del perdono. Che poi i destinatari della lettera di Paolo sperimentino un’appartenenza e un legame con la figura di Gesù determina una sorta di impegno, nel vivere e nel morire, a conformarsi a uno stile particolare, che trova nella morte e resurrezione dello stesso Gesù la sua caratteristica distintiva: una caratteristica distintiva che si potrebbe collegare precisamente al perdono, inteso come una delle forme del morire perché vi possa essere per tutti vita nuova. Se inizialmente, infatti, si parla del vivere per qualcuno e del morire per qualcuno, nei versetti successivi il riferimento – in ordine inverso – alla morte, prima, e al ritorno alla vita, poi, da parte di Gesù suggeriscono che la vita dei cristiani di Roma, ai quali Paolo si rivolge, debba essere, fin da ora e in questo mondo, la vita nuova di coloro che – essendo uniti alla figura di colui che è morto e risorto – possono già vivere come risorti dalla morte. Da questo punto di vista, infatti, la stessa appartenenza e legame con la figura di Gesù, definito Signore dei morti e dei vivi, dovrebbe essere non quella di una vita che precede la morte alla quale è destinata, ma quella di una vita nuova, divenuta tale dopo aver sconfitto la morte, una vita nuova che la pratica del perdono – forse più di ogni altra – comunica, anticipa e rappresenta emblematicamente, tanto per i con Dio quanto per i senza Dio.
L’idea di perdono nei confronti di un fratello ripetutamente colpevole, così come emerge dalla domanda di Pietro (quante volte dovrò perdonargli?), è l’idea di un perdono inteso come concessione generosa, ma con un preciso limite, l’idea di un perdono inteso come contrappeso e forza regolatrice di un male che si sottrae alle regole, l’idea di un perdono capace di arrivare a colmare la misura di ciò che manca al bene e così ristabilire gli equilibri di giustizia in un mondo drammaticamente squilibrato verso l’ingiustizia. Ma la risposta di Gesù, che moltiplica esponenzialmente il numero, ipotizzato da Pietro e già simbolicamente alto, delle volte in cui il perdono dovrebbe essere concesso, va in un’altra direzione. Questa direzione viene proposta, a noi lettori con Dio o senza Dio, attraverso la provocazione narrativa della parabola del padrone e dei due servi diversamente debitori. La parabola sembra volerci introdurre alla consapevolezza di come sia impossibile in questo nostro mondo regolare i conti in modo che tornino fino in fondo. Nessuno infatti – fosse pure il padrone della parabola o persino Dio stesso – è in grado di regolarli davvero, attraverso il saldo del pagamento di quanto dovuto da parte del debitore e la sua riscossione da parte del creditore. Il primo servo lo dimostra con il carattere evidentemente irrealistico della sua promessa di restituire al padrone ogni cosa, cioè l’intera enorme somma dovuta, il secondo servo lo dimostra venendo gettato in prigione come debitore insolvente, che subisce, da parte del primo servo, uno spietato rifiuto davanti alla sua richiesta di differire la riscossione del dovuto, una somma peraltro irrisoria, se paragonata a quella enorme di cui era debitore il primo servo. Sia il primo che il secondo servo sono vittime dell’illusione che sia possibile regolare i conti della propria vita in modo da non dover essere debitori nei confronti di nessuno. In realtà nessun tentativo di tenere una contabilità del dare e dell’avere rispetto alla vita e agli altri può sperare di avere successo. Nessun calcolo dei limiti oltre i quali non si è tenuti ad andare nel perdonare gli altri può arrivare a un risultato preciso. Nessun impegno a restituire a chi ce lo ha donato quanto abbiamo ricevuto nella vita consente di poter raggiungere il pareggio, se non altro perché molti di coloro che ci fanno gratuitamente dono di qualcosa di importante e di decisivo, scompaiono senza e prima che noi possiamo ricambiarli. Il perdono è invece l’attitudine di chi – come il padrone della parabola – è consapevole che il saldo dei debiti, piccoli o grandi, è nella maggior parte dei casi, impossibile. La domanda finale della parabola (non dovevi tu avere pietà del tuo compagno?) così come la minaccia di essere consegnati agli aguzzini fino all’estinzione del debito sono le forme letterarie attraverso le quali l’evangelista provoca noi suoi lettori con Dio o senza Dio a fare la cosa giusta: rinunciare a rincorrere in modo illusorio una forma di giustizia impossibile per scegliere, invece, di limitare i danni di un mondo ingiusto attraverso la pazienza, la compassione e, appunto, un perdono che non ha la pretesa di far tornare i conti. Ogni volta in cui, davanti al male ricevuto, scegliamo di per-donare, apriamo a questa dinamica dell’iper-dono una possibilità in più di affermarsi e mostrare la propria superiorità sulle dinamiche del male, anzitutto attraverso il proprio carattere realistico e la propria efficacia nonviolenta e liberante.