Letture festive – 103. Discepoli – 22a domenica del Tempo ordinario – Anno A
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
22a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 3 settembre 2023
Dal libro del profeta Geremìa – Ger 20,7-9
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 12,1-2
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 16,21-27
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letture festive 103
L’esperienza di chiamata divina raccontata nel libro del profeta Geremia si presenta in una forma letteraria mista e complessa che unisce narrazione autobiografica e riflessione introspettiva, parole di amore e parole di accusa rivolte a Dio, dialogo interiore e descrizione simbolica di vissuti emotivi. Si tratta di un’esperienza sostanzialmente sovrapponibile a quella del diventare discepoli, che attraversa diverse tradizioni bibliche vetero e neotestamentarie: basti pensare al rapporto tra i profeti Elia ed Eliseo, raccontato nei libri dei Re in termini che richiamano quelli del discepolato. E coloro che anche oggi volessero ispirarsi ai testi biblici per capire che cosa comporti il diventare in qualche modo discepoli, con Dio o senza Dio, potrebbero cercare anzitutto in questo passo di Geremia una sintesi ciò che li attende. I discepoli con Dio o senza Dio sono coloro che sperimentano anzitutto – come in un innamoramento – un sentirsi sedotti e lasciarsi sedure da qualcuno o da qualcosa di straordinariamente seducente. Può essere un Dio o una persona, una missione o un ideale, un essere vivente o un oggetto, un’esperienza o una comunità, un luogo o una storia, un libro o un’idea, un messaggio o una parola. Diverse possono essere le forme nelle quali lo straordinariamente seducente si presenta e attira discepoli. Ma gli stessi discepoli, con Dio o senza Dio, nella misura in cui si lasciano realmente coinvolgere, avvertono questa esperienza come pericolosamente vicina a quella di una violenza, esercitata direttamente da parte di un sopraffattore o provocata in modo indiretto da questo sopraffattore nelle forme di una reazione violenta da parte di altri. I discepoli con Dio o senza Dio si trovano infatti sottoposti anzitutto alla sottile violenza che consiste nel sentirsi derisi a motivo del proprio essere diventati discepoli, chiamati a svolgere una missione che ad esempio, nel caso di Geremia, sembra assumere i tratti di una denuncia critica di condizioni socialmente e religiosamente inaccettabili. Il discepolo con Dio o senza Dio che deve parlare di violenza e oppressione a chi esercita tale violenza e oppressione obbedisce a una parola pericolosa che suscita ostilità diffusa e quotidiana. E lo stillicidio subito quotidianamente può portare il discepolo a immaginare di orientare diversamente i propri pensieri e a smettere di parlare a nome di colui o di ciò che gli era sembrato così seducente. Ma per il discepolo con Dio o senza Dio che riesce a riconoscersi nell’esperienza del Geremia biblico la tentazione di auto-silenziarsi viene superata perché l’esperienza dell’essere discepolo si è radicata così profondamente da somigliare a un fuoco della parola che, nonostante i tentativi – anche razionalmente motivati – di contenerlo o magari spegnerlo, continua ad ardere dall’interno e a esprimersi in parole da discepolo divenuto profeta.
Paolo nella sua esortazione rivolta ai cristiani di Roma descrive alcuni tratti che potremmo riconoscere come propri degli autentici discepoli, anche se il linguaggio cultuale e sacrificale utilizzato da Paolo rischia di risultare fuorviante. L’invito a offrire i propri corpi come sacrificio vivente santo e gradito a Dio, come culto spirituale, dovrebbe forse essere tradotto, oggi, come l’invito a far sì che ogni aspetto della propria esistenza e delle proprie relazioni possa essere interpellato e illuminato dalla propria scelta e condizione di discepoli, con Dio o senza Dio. Non che l’essere discepoli vada inteso per questo come una condizione identitaria ben definita e rigida, a partire dalla quale si possano o si debbano giudicare tutto e tutti. Al contrario Paolo sembra individuare quattro indicatori che noi potremmo utilizzare per riconoscere i discepoli autenticamente tali. Il primo indicatore – non conformatevi a questo mondo – è quello che richiede ai discepoli di essere dei non conformisti, anche a costo di abbandonare le diverse possibilità di quieto vivere che questo mondo spesso offre. Il secondo indicatore parla di esseri che, seguendo l’originale greco, andrebbero definiti metamorfici, cioè discepoli che lasciandosi trasformare, sottopongono al cambiamento la propria stessa forma. In questo modo i discepoli diventano incessantemente qualcosa o qualcuno di diverso da ciò che erano in precedenza; e questo non per il gusto o la ricerca di un trasformismo opportunistico, ma per la consapevolezza che la pratica del discepolato non lascia immutati i discepoli che vi si avventurano. Il terzo indicatore è perciò quello di discepoli che – nello sperimentare il progredire nel cammino della sequela – rinnovano anzitutto il proprio modo di pensare e che – grazie a questo rinnovarsi personale – possono diventare innovatori. Il quarto indicatore, che presuppone i precedenti, è dato dalla coltivazione instancabile di pratiche di discernimento; per discepoli con Dio o senza Dio rimane questo il modo migliore per mettersi alla ricerca di un bene ancora in attesa di compimento.
Matteo mette a confronto in questo brano l’essenziale di ciò che consente di essere autenticamente discepoli e ciò che radicalmente impedisce di essere davvero discepoli in senso evangelico, e lo fa anche a beneficio di noi odierni lettori e discepoli con Dio o senza Dio. Il detonatore di questa concentrazione esplosiva è costituito dal tentativo di Gesù di spiegare – precisamente ai discepoli – la necessità del compiersi a Gerusalemme di un suo cammino fatto di sofferenza e morte, prima di risorgere. Alle parole di Gesù il Pietro portavoce qui dei discepoli reagisce rimproverando lo stesso Gesù e affermando che questo non accadrà mai. In questo modo Pietro contraddice radicalmente tutti gli indicatori che secondo Paolo – come abbiamo appena visto – caratterizzano i veri discepoli: non conformisti, metamorfici, innovatori e praticanti il discernimento in vista di un bene da compiere. Sono indicatori che, a quanto pare, valgono anche per il Gesù di Matteo, un Gesù che infatti ora addirittura chiama Satana quel medesimo Simone figlio di Giona che pochi versetti prima aveva definito invece beato e chiamato Pietro. Al Pietro che gli parla ora in questo modo satanico e scandaloso – e cioè troppo mondano e ostacolante la missione da compiere – il Gesù di Matteo dice – letteralmente – di andare dietro di lui, cioè di mettersi nuovamente alla sua sequela, cioè di riprendere nuovamente il proprio posto di discepolo, incamminato dietro a Gesù. Rinnegare sé stessi, prendere la propria croce, seguire Gesù, salvare la propria vita perdendola e rinunciando a guadagnare il mondo intero: si tratta di modi diversi per esprimere, nel linguaggio del vangelo di Matteo, che cosa significhi essere davvero discepoli. Il severo e radicale richiamo a riscoprire il significato autentico del discepolato evangelico che Matteo presenta in questo dialogo tra Gesù e Pietro rimane valido anche per tutti noi, discepoli odierni con Dio o senza Dio. Le tentazioni sataniche e scandalose, infatti, si presentano anche nella chiesa di oggi, ad esempio quando alcuni affermano, in ambito teologico, etico o liturgico: questo non accadrà mai! Può anche essere che coloro che parlano così siano animati dalle migliori intenzioni: quelle di voler essere, come Pietro, discepoli con Dio e fedeli portavoce degli altri discepoli nella comunità. Ma rimane il fatto che, a ben vedere, si tratta di una formulazione – questo non accadrà mai! – analoga al si è sempre fatto così! formulazione dalla quale giustamente ci mette in guardia papa Francesco. Ma anche i discepoli senza Dio – ritenendo che non vi sia una divinità superiore cui dover prima o poi rendere conto della propria vita o che non vi sia un aldilà nel quale aspettarsi premi o punizioni – si trovano esposti a una molteplicità di tentazioni sataniche e scandalose. Ai discepoli senza Dio è infatti richiesto, da questo punto di vista, un supplemento di responsabilità e di coscienza evangelica, per accettare di perdere la propria vita rimanendo convinti di salvarla precisamente in questo modo, vivendo come autentici discepoli del Gesù evangelico e cioè come discepoli – direbbe Paolo – non conformisti, metamorfici, innovatori e praticanti il discernimento in vista di un bene da compiere.