Letture festive – 96. Pazienza – 16a domenica del Tempo ordinario – Anno A
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
16a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 23 luglio 2023
Dal libro della Sapienza – Sap 12,13.16-19
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 8,26-27
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 13,24-43
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letture festive 96
Nel rivolgersi direttamente a Dio, l’autore del libro della Sapienza ce ne offre indirettamente una descrizione, nella quale probabilmente noi, odierni credenti con Dio o senza Dio, fatichiamo a riconoscerci. Certamente troviamo qui molti dei tratti che volentieri noi attribuiamo al Dio biblico e in particolare al suo presentarsi come un Dio paziente e cioè: la cura per tutte le cose, la giustizia, la mitezza, l’insegnamento dell’amore, la speranza concessa della possibilità di pentirsi. Ma il quadro complessivo o, se vogliamo, lo sfondo e il contesto nel quale l’autore pone questi tratti della sua descrizione di Dio, la rendono per noi respingente e sostanzialmente inaccettabile. Si potrebbe aggiungere che si tratta addirittura di una descrizione di Dio emblematicamente rappresentativa di ciò che oggi tiene lontane le persone da alcune forme di religione e di chiesa, oltre che da alcuni modi di intendere il Dio biblico. Già, infatti, il porre la forza come principio di giustizia e l’esercitare la pienezza del potere per rigettare l’insolenza dei contestatori descrivono un Dio dai tratti assolutistici, arbitrari e violenti. Ma a ciò si aggiunge il far dipendere l’indulgenza di questo Dio verso tutti dal suo essere padrone di tutti, evidenziandone così i tratti paternalistici e avvicinandolo a quello che oggi definiremmo un padre-padrone patriarcale, la cui violenza arbitraria viene legittimata dal suo potere discrezionale, potere che virtualmente non ha limiti, dal momento che è lui stesso a stabilire ciò che è giusto. Già a questo punto, non solo i senza Dio ma anche i con Dio respingerebbero e rifiuterebbero un Dio con queste caratteristiche, affermando che in realtà Dio non è così. Ma il problema principale di questa inaccettabile rappresentazione di un Dio padre e padrone patriarcale è che ha trovato terreno fertile in molte strutture ecclesiali ed ecclesiastiche, che purtroppo sono spesso riuscite a riprodurne i tratti per poi trovare legittimazione a propri comportamenti per lo meno discutibili. Uno dei casi più emblematici è, nella chiesa cattolica, il modo nel quale – ancora oggi – il Codice di diritto canonico descrive il potere del papa nel canone 331, dove si afferma che «in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente», e il canone 333 specifica che «contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice non si dà appello né ricorso». È chiaro che, a seconda di chi sia papa regnante, gli effetti e i risultati di questo ministero ecclesiale possono essere molto diversi ed è vero che fortunatamente non sono così frequenti i casi come quello di Pio IX e del bambino ebreo Mortara, descritto dal regista Marco Bellocchio nel suo film del 2023. E tuttavia, per rimanere a questo esempio, ancora oggi il Codice di diritto canonico al canone 868 afferma che «il bambino di genitori cattolici e persino di non cattolici, in pericolo di morte è battezzato lecitamente anche contro la volontà dei genitori». Si deve riconoscere perciò che un certo modo di intendere il potere nella chiesa – a partire dal potere clericale – tende a produrre e a legittimare abusi spirituali e di potere, quali che siano i singoli umani, con Dio o senza Dio, che ne sono di volta in volta protagonisti, a tutti i livelli e nei diversi ruoli. La pazienza di cui vale la pena parlare, perciò, non è tanto quella di Dio, ma quella che è comunque richiesta a tutti noi, con Dio o senza Dio, nei confronti dei tempi e modi di riforma e di trasformazione di questa Chiesa. Una Chiesa che è ancora profondamente clericale, come ci ripete – giustamente ma non senza un evidente paradosso – lo stesso papa Francesco. Si tratta di tempi e modi di riforma e trasformazione spesso drammaticamente inadeguati alle vite delle persone e per questo alla pazienza va sempre associata una sana impazienza, capace di farsi stimolo costruttivo a chiunque – a partire da ciascuno di noi, con Dio o senza Dio – abbia una qualche piccola o grande responsabilità ecclesiale.
La pazienza che Paolo evoca scrivendo ai Romani riguarda la capacità di accettare e sopportare la nostra condizione umana nel suo essere – per con Dio e per senza Dio – una condizione essenzialmente viatoria e perennemente itinerante fino al proprio compimento. Il paradosso della nostra esistenza umana alle prese con i suoi desideri, ciò che qui Paolo chiama la nostra debolezza, è che, mentre siamo in cammino… e lo siamo fino alla nostra morte, non possiamo sapere davvero con certezza ciò che sarebbe realmente il meglio per quel tanto o poco della nostra vita che ci rimane da vivere. E questo perché non c’è ancora nessuno – neppure un eventuale Dio, il quale ci lascerebbe comunque liberi fino alla fine – che abbia già il disegno della nostra esistenza e del senso che eventualmente questa nostra esistenza avrà effettivamente acquisito nel suo svolgersi complessivo e completato. Di conseguenza i nostri desideri, le nostre richieste e le nostre preghiere – di con Dio o di senza Dio – se vogliono provare ad essere oneste e sincere fino in fondo non possono che mantenersi, per così dire, sul vago e predisporsi con pazienza verso ciò che il tempo fa venire avanti. Chiunque – con Dio o senza Dio – si accinga a qualche forma di preghiera cristiana, dovrebbe sapere che l’unica forma di aiuto su cui può contare è ciò che Paolo chiama Spirito: questo inafferrabile principio di sapienza interiore ed esteriore, così libero e imprevedibile e perciò così difficile da definire. E così – per con Dio e per senza Dio – il paradosso di ogni autentica preghiera che si proponga di essere cristiana e coltivata con pazienza è quello di trovare la propria espressione più autentica e infallibile in quelli che Paolo definisce i gemiti inesprimibili dello Spirito.
Matteo in questo passo evangelico sembra esercitare la propria pazienza nei confronti di tutti i suoi lettori, che immagina evidentemente molto diversi tra loro nella capacità di comprensione, e lo fa proponendo due approcci molto differenti e quasi contrapposti alla famosa parabola della zizzania. In questo modo, a seconda della capacità del lettore di cogliere, comprendere e accettare, la parabola può funzionare comunque e con chiunque – e quindi anche con ciascuno di noi lettori di oggi, con Dio o senza Dio. La parabola stessa della zizzania, del resto, pone al centro della propria provocazione narrativa precisamente il tema della pazienza ma lo fa, appunto, in due modi molto diversi. Il primo modo è quello che sottolinea come l’intreccio del bene e del male, del grano e della zizzania infestante, sia così profondamente radicato nella vita di ciascuno di noi da rendere impossibile e controproducente il tentare l’operazione moralistica e manichea di distinguere e separare chiaramente, per poter lasciar crescere nella propria esistenza solo il bene, dopo aver eliminato il male. La parabola, da questo punto di vista, provoca ogni ascoltatore a riconoscere, accettare e sopportare con pazienza, appunto, anzitutto sé stesso e la propria insuperabile ambivalenza etica. Matteo, però, vuole essere paziente anche con i suoi ascoltatori più immaturi, inconsapevoli e in fondo ancora moralisti e manichei. Ma questi sono anzitutto gli stessi discepoli del suo racconto, i quali chiedono a Gesù una spiegazione della parabola appena ascoltata, quasi avessero intuito che questa forma di provocazione radicale suggerita da Gesù loro non sarebbero in grado di sopportarla. A beneficio dei discepoli del suo stesso racconto e di tutti i lettori futuri, con Dio o senza Dio, l’evangelista Matteo mette allora in bocca al suo Gesù una spiegazione allegorica della parabola, che la rende più corrispondente alle concezioni religiose tradizionali. Questa spiegazione allegorica proietta, infatti, le inquietanti ambivalenze di quella interiore e personale zona grigia che ciascuno di noi con Dio o senza Dio nasconde in sé, in una vicenda tutta esteriore e dai nitidi tratti in bianco e nero, popolata da forze angeliche e demoniache provenienti dall’immaginario mitico della tradizione biblica e religiosa di ogni tempo. In questo modo la pazienza diventa quella che i buoni devono esercitare verso i cattivi, i quali vanno tollerati con pazienza nel tempo della storia, in attesa che un giudizio rassicurante li condanni e li punisca, bruciandoli alla fine del mondo come zizzania infestante. Come tutte le parabole evangeliche anche questa pone noi suoi lettori, con Dio o senza Dio, davanti a una scelta personale: esercitare un’umile e consapevole pazienza anzitutto verso le nostre personali e inestricabili ambiguità? Oppure, a costo di essere un po’ presuntuosi, moralisti e manichei: ritenerci buoni ed esercitare una pazienza tollerante verso i cattivi, in attesa di vederli bruciare alla fine del mondo come erbacce infestanti? L’alternativa che sceglieremo, per essere autenticamente evangelica, dovrebbe renderci simile a quanto suggeriscono le due altre parabole presenti in questo brano di Matteo: un seme piccolo che diventa una pianta accogliente e un lievito che trasforma la farina perché possa diventare pane appetitoso.