Riflessioni teologiche – 43. Cristianesimo ecumenico e pratiche di comunione (parte 4: COMUNITÀ DI PRATICA E IMPARARE A PARTECIPARE E NEGOZIARE NELLA CHIESA)

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

Osare un cristianesimo radicalmente ecumenico, dinamicamente inserito nel processo di riconfigurazione in forma sinodale intrapreso da chiese e comunità cattoliche su impulso di papa Francesco, richiede un rinnovato impegno nel praticare forme di comunione ecclesiale capaci di ampliare la varietà di coloro che potrebbero essere raggiunti o accolti o attivamente coinvolti. Nell’intraprendere questo percorso di ricerca teologica, di esperienza vissuta e di pratiche di sperimentazione ecclesiale potrebbero essere di aiuto diversi approcci teorico-pratici provenienti da alcune fonti di ispirazione: elementi ricavabili dall’esperienza vissuta nelle famiglie, riflessioni sulle comunità di pratica, metodologie per l’ascolto attivo e la gestione dei conflitti, approcci filosofici della teoria dell’attore-rete (ANT) e dell’ontologia orientata agli oggetti (OOO), suggestioni collegate alla nozione di terzo paesaggio e possibili applicazioni di questi approcci alla teologia e alla pratica ecclesiale (parte 4: COMUNITÀ DI PRATICA E IMPARARE A PARTECIPARE E NEGOZIARE NELLA CHIESA)


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Sul piano delle pratiche di comunione, l’esperienza delle famiglie non disfunzionali può offrire, come abbiamo visto, esempi interessanti: pratiche di comunione fortemente radicate in un legame affettivo che non si stanchi di desiderare l’unità, pratiche di comunione allenate nella gestione quotidiana e non violenta dei conflitti anche originati da diversi modi di cogliere la verità, pratiche di comunione fortemente orientate a non far mancare a nessuno il necessario. Si tratta di una prima possibile fonte di ispirazione per una chiesa che intenda riconfigurarsi in forma sinodale e osare un cristianesimo radicalmente ecumenico. Una seconda fonte di ispirazione potremmo trovarla nell’ambito degli studi sull’apprendimento sociale, seguendo la proposta della teologa Stella Morra che – per ripensare l’articolazione della chiesa come produttrice di una o più culture – fa riferimento alla teoria elaborata da Etienne Wenger sulle comunità di pratica, provando a verificare se abbia “un’operatività possibile rispetto all’orizzonte teologico”. Le “comunità di pratica” possono essere intese come “gruppi che non si fondano semplicemente su affetti o accordi giuridici (come una famiglia), o su questioni ideologiche (come un partito), ma sulla condivisione di un luogo o di un obiettivo, non importa se limitato nello spazio e nel tempo, ma in grado di incidere sulla nostra identità in modo anche profondo”. Un esempio classico di comunità di pratica è costituito dalla tradizionale bottega artigiana, dove i vari individui apprendono attraverso la collaborazione e il contributo a un lavoro comune, che ha come scopo quello di produrre qualcosa, di materiale o immateriale. Nell’esperienza della comunità di pratica, il partecipare di ciascuno, a proprio modo, all’impresa comune, consente a ciascuno e a tutti un miglioramento di competenze, grazie anche alle interazioni reciproche tra i partecipanti alla comunità. Ciascuno di noi appartiene in genere contemporaneamente a diversi gruppi che si potrebbero definire comunità di pratica, come ad esempio l’ambiente di lavoro o di studio, un’associazione o un gruppo social, ma anche la parrocchia.

Specificando ulteriormente quanto già suggerito da Stella Morra, mi pare utile evidenziare le possibili applicazioni ai processi di riconfigurazione della chiesa in forma sinodale di alcune caratteristiche e requisiti che fanno esistere e ben funzionare una comunità di pratica. Nel proporre queste applicazioni lo sguardo sarà attento in modo particolare a ciò che sarebbe richiesto da un cristianesimo radicalmente ecumenico. Una prima caratteristica è quella della “partecipazione periferica legittima”, con la quale si intende indicare come esistano modalità e graduazioni differenti, più o meno impegnative e vincolanti, ma tutte egualmente legittime e dotate di valore, di partecipare alla comunità, alla sua vita, alle sue esperienze e alle sue pratiche. Questo tipo di legittimazione consentirebbe, a chi non fosse interessato ad alcune specifiche forme di partecipazione o avvertisse come eccessivamente vincolante per sé il parlare di una vera e propria appartenenza a una comunità ecclesiale, di partecipare comunque ad attività o momenti di vita ecclesiale, senza sentirsi per questo penalizzato o discriminato. Nel fare questo andrebbe evitato però – in una chiesa tentata da ricorrenti chiusure identitarie – il rischio di voler stabilire a priori e con provvedimenti di autorità una ben precisa linea di confine tra chi appartiene e chi no, o – in forma più mitigata – tra chi può appartenere pienamente e chi non ne ha i requisiti e deve quindi limitarsi ad una partecipazione parziale. Quest’ultima non sarebbe evidentemente nella chiesa una “partecipazione periferica legittima” liberamente scelta da chi intende partecipare, ma una “partecipazione consentita solo in forma limitata” imposta dai responsabili o dai componenti della comunità ecclesiale a chi viene ritenuto privo di alcuni requisiti.

Una seconda caratteristica delle comunità di pratica è quella della “negoziabilità del significato”, che Stella Morra esemplifica efficacemente con l’immagine di due asini legati per la coda da una corda che limita i loro movimenti nelle direzioni opposte delle rispettive mangiatoie, fino a bloccare il doloroso e inutile sforzo di entrambi. Tirando la corda in direzioni opposte il rischio è quello di affaticarsi fino a sfinirsi senza raggiungere l’obiettivo, ritrovandosi frustrati e comunque avendo sperimentato il legame con l’altro esclusivamente nei termini reciprocamente ostili di una limitazione della propria libertà e di un impedimento nel raggiungere i propri obiettivi. Solo la scelta di un comportamento intelligentemente cooperativo, per il quale si rinuncia, magari temporaneamente, a dirigersi nella direzione preferita a favore dell’altro, negoziando il significato di ciò su cui ci si trova impegnati, consente a tutti coloro che sono in qualche modo reciprocamente collegati, di raggiungere, magari in momenti diversi, gli obiettivi desiderati. Nella riconfigurazione della chiesa in forma sinodale e in un cristianesimo radicalmente ecumenico, andrebbe evitato un approccio ai conflitti che punti a risolversi attraverso prove di forza, più o meno dichiarate e più o meno violente. Ciò non può portare a nessuna composizione del conflitto a un livello superiore e soddisfacente per tutti, per cui già sul piano dei significati che vengono posti a tema in una situazione ecclesiale potenzialmente conflittuale è necessario vigilare perché si evitino i vicoli ciechi che conducono a contrapposizioni insuperabili. Qui l’obiettivo da raggiungere con la “negoziabilità del significato”, non è ancora lo specifico contenuto materiale dell’accordo auspicato, ma il convergere sulla convinzione che, da entrambe le parti, si vuole un accordo e ci si impegna per raggiungerlo. In ambito ecclesiale, lo si potrebbe intendere come un impegno reciprocamente assunto, anche tra soggetti profondamente diversi, a subordinare le proprie divergenze alla ricerca di pratiche capaci di custodire e far crescere la comunione.

Riferimenti:

Stella Morra – Marco Ronconi, Incantare le sirene. Chiesa, teologia e cultura in scena, EDB, Bologna 2019, pp. 196-219.

Etienne Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina, Milano 2006.