Letture festive – 47. Conversioni – 24a domenica del Tempo Ordinario Anno C
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
24a domenica del Tempo Ordinario Anno C – 11 settembre 2022
Dal libro dell’Esodo – Es 32,7-11.13-14
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo – 1 Tm 1,12-17
Dal Vangelo secondo Luca – Lc 15,1-32
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letture festive 47
Il libro dell’Esodo descrive una prima conversione del popolo, dal Signore, il liberatore, alla sua brutta copia, realizzata con le sembianze di un vitello di metallo fuso. Si tratta di una conversione frutto di perversione, perché scambia la realtà inafferrabile del liberatore con la finzione pienamente disponibile, in quanto prodotta dal popolo stesso, della rappresentazione di questo stesso liberatore. La rigidità della nuca rimproverata al popolo sembra essere quella che gli impedisce di volgere la testa in una direzione diversa da quella che consente di avere al proprio cospetto e a portata di mano il simulacro frutto della propria costruzione. A questa prima conversione – errata – del popolo sembra corrispondere in modo simmetrico la conversione – anche questa errata – del liberatore che propone al suo luogotenente Mosè di sostituirsi al popolo, facendo diventare proprio lui, cioè lo stesso Mosè, quella nazione grande che il popolo non sembra riuscire ad essere. Sia il popolo, che sembra essere stato liberato inutilmente, sia il suo liberatore, insoddisfatto del risultato raggiunto, risultano in qualche modo vittime di un’illusione. L’illusione che sostituire ciò che ci sfugge e che non corrisponde alle nostre attese con qualcosa che possiamo afferrare o controllare meglio risolva tutti i problemi. La vera conversione è, invece, quella che Mosè riesce a suscitare nel liberatore, invitandolo a ricordare proprio la storia di liberazione dalla quale è nata con il popolo liberato una relazione profonda e significativa. La vera conversione è quella che consente al liberatore di trovare in questa storia le ragioni per proseguire il rapporto e addirittura pentirsi del male minacciato.
La lettera a Timoteo ricorda che si può parlare di conversione solo mettendo in relazione realtà ed esperienze tra loro opposte. Solo il Paolo peccatore che descrive sé stesso come bestemmiatore, persecutore e violento si trova, infatti, nella condizione di poter fare l’esperienza della salvezza e della conversione. Solo il Paolo che agisce per ignoranza, lontano dalla fede, può sperimentare il convertirsi della sua condizione in quella di un beneficato dalla misericordiosa e gratuita sovrabbondanza di fede e di amore. La conversione, da questo punto di vista, non ha un significato prevalentemente etico e non consiste tanto in un cambiamento del comportamento individuale, che condurrebbe a diventare da cattivo a buono. La conversione riguarda anzitutto la disponibilità a riconoscere una relazione tra la propria condizione di peccatore e il fatto di sentirsi accettati così come si è. La conversione coincide cioè con l’esperienza del sentirsi raggiunti dalla misericordia e dalla magnanimità altrui, la conversione ha a che fare ultimamente con ciò che Paolo chiama grazia. È infatti questa esperienza di conversione intesa come esperienza del sentirsi guardati e gratuitamente accolti con misericordia e magnanimità – e non il proprio impegno etico – ciò che rende forti, degni di fiducia e in condizione di esercitare un servizio a favore di altri.
L’evangelista Luca presenta invece tre parabole nelle quali la conversione costituisce insieme il punto di partenza e il possibile punto di arrivo di un percorso che rimane aperto nei suoi possibili esiti in relazione alla scelta finale dell’ascoltatore della parabola. La conversione consiste, infatti, inizialmente nell’essere ritrovato di ciò che sembrava perduto, un essere ritrovato che dovrebbe produrre una gioia contagiosa che, tuttavia, può essere anche non compresa, non condivisa o persino espressamente rifiutata. Abbiamo quindi inizialmente qualcosa o qualcuno che viene perduto: una su cento pecore, una moneta su dieci, un figlio minore tra due. L’essere ritrovato dipende da una sorta di conversione – una svolta impressa alla condizione attuale – messa in atto da chi ha perduto qualcosa o qualcuno, anche a costo di abbandonare o trascurare ciò che invece non è stato perduto e che costituisce la parte maggiore e migliore di quanto si possiede. Nei primi due casi, l’essere ritrovato dipende, infatti, dalla ricerca attiva messa in atto dal pastore e dalla donna, mentre nel terzo caso consiste nell’accoglienza affettuosa riservata dal padre al figlio, tornato a casa per sfuggire alla fame. Il ritrovamento è fonte di una gioia che chiede di essere celebrata con una festa, come fanno in realtà il pastore, la donna e il padre, rispecchiando sulla terra la festa che – come specifica la conclusione delle prime due parabole – si celebra in cielo. Quest’ultima conversione, dalla tristezza alla gioia, per il ritrovamento di ciò che era già dato per perduto, è offerta come possibilità agli ascoltatori destinatari delle tre parabole. Tra questi ascoltatori ci sono le persone religiose scandalizzate dall’accoglienza praticata da Gesù nei confronti di coloro che sono ritenuti peccatori, ma ci siamo anche noi, che ascoltiamo oggi queste parabole e siamo posti – come il figlio maggiore dell’ultima parabola – davanti a una scelta. Si tratta, infatti, di scegliere se rifiutare – restando vittime del nostro orgoglio ferito – l’invito alla festa che il cielo – cioè il luogo dei nostri atteggiamenti migliori – ci invita a celebrare o se invece, convertendoci dalla tristezza alla gioia, accogliere questo invito, rendendo in questo modo possibile e reale sulla terra la festa per il ritrovamento di chi era stato perduto. Solo così, del resto, vi saranno le condizioni perché si possa festeggiare anche il ritrovamento di ciascuno di noi, dal momento che tutti ci troviamo, in modi e per motivi diversi, nella condizione di essere stati perduti e in attesa di essere finalmente ritrovati, accolti e festeggiati.
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