Sull’inferno
Germogli
“germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;
“germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;
“germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).
Alberto Bigarelli
- La realtà dell’inferno nella Sacra Scrittura – Vediamo alcuni passi fra i tanti. Il profeta Isaia dice: «Uscendo, vedranno i cadaveri degli uomini che si sono ribellati a Me; poiché il loro verme non morirà, il loro fuoco non si spegnerà e saranno un abominio per tutti» (66,24). Cristo, nell’indicare e nello spiegare con viva immagine la realtà dell’inferno con il suo fuoco inestinguibile, si riferisce a questo passo in cui Isaia parla della “Geenna” cioè “Valle del gemito”, identificata con l’ “Inferno”.
Il progresso della dottrina sull’Inferno si compie nell’Antico Testamento, con il libro della Sapienza, che oppone chiaramente la sorte disastrosa dei peccatori a quella dei giusti (4,19; 5,23), e con il libro di Daniele, che profetizza la resurrezione dei buoni alla vita eterna dei cattivi «alla vergogna e al ludibrio eterno» (12,2).
- Giovanni Battista nella sua predicazione, tra l’altro, dice: «Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo con acqua per la conversione, ma Colui che viene dopo di me è più potente di me e io non sono degno neanche di portargli i sandali; Egli vi battezzerà in Spirito Santo e Fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile» (Mt 3,10-12).
«Un’altra parabola (Gesù) espose loro così: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e Mi’ ne andò. Quando la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania?” Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo”. E i servi gli dissero: “Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?” No, rispose, perché non succeda che cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: “Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”… “I suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rap¬presenta la fine del mondo e i mietitori sono gli Angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi Angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti (Inferno). Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda!» (Mt 13,24-30; 36-43).
«Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli Angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13,47-50).
«Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti perché, nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà. Qual è il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici, con l’incarico di dar loro il cibo a tempo dovuto? Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! In verità vi dico: gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni. Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: il mio padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano: e là sarà pianto e stridore di denti»,[le pene infernali] (Mt 24,42-51).
«Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati di nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si- riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti (pene dell’inferno). Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22,1-14).
«C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando all’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, Padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno resuscitasse dai morti saranno persuasi» (Lc 16,19-31).
La parabola dissipa due funesti errori: l’errore di coloro che negavano la sopravvivenza dell’anima dopo la morte e, quindi, la ricompensa ultraterrena; e quello di quanti interpretano la prosperità materiale come premio della rettitudine morale e, per contro, le avversità come castigo a motivo dei peccati. Davanti a tali errori la parabola di Gesù chiarisce due insegnamenti: 1. subito dopo la morte, l’anima viene giudicata da Dio in merito a tutte le sue azioni (giudizio particolare), ricevendo il premio o il castigo meritato; 2. la Rivelazione divina è, di per sé, sufficiente perché gli uomini possano credere nell’aldilà.
Il dialogo tra il ricco banchettatore e il patriarca Abramo è una rappresentazione didattica per imprimere negli ascoltatori gli insegnamenti della parabola. Pertanto, in senso stretto, nell’inferno non si dà compassione alcuna verso il prossimo, poiché in quel luogo domina solamente la legge dell’odio contro tutto e contro tutti. Quando Abramo disse al ricco: «tra noi e voi è posto un grande abisso…», rivela che dopo la morte e la resurrezione non vi sarà alcun pentimento. Né gli empi si pentiranno e saranno accolti nel Regno, né i giusti potranno peccare e precipitare nell’inferno, che è un abisso insuperabile. S. Giovanni Crisostomo, nelle omelie sulla prima lettera ai Corinzi di S. Paolo, dice: «Vi prego e, prono ai vostri piedi, vi supplico che, mentre ancora godiamo di questo breve respiro di vita, ci ravvediamo dei nostri peccati, convertendoci e diventando migliori, per non lamentarci invano come quel ricco banchettatore, quando saremo morti, dal momento che il pianto non ci apporterà alcun rimedio. Infatti, per quanto tu possa avere un genitore, un figlio, un amico o altra persona che abbia influenza presso Dio, tuttavia nessuno ti libererà, poiché a condannarti sono le tue stesse azioni».
Si potrebbero ancora citare altri brani dagli scritti degli apostoli: Rm 2,5-13; 2Tess 1,6-9; Eb 10,26-31; Ap 14,9 ss. 20,13ss. ecc.. Dai brani riportati si può già ricavare chi consegue l’inferno: colui che compie peccati gravi e muore in essi (già Ez 18,21-28).
È utile però precisare che: 1. ci si danna non solo per peccati satanici, cioè voluti apposta per offendere il Signore, perché il disprezzo di Dio è implicito in qualsiasi colpa di materia grave, commessa con piena avvertenza e libero consenso; 2. né ci si danna solo per colpe di “commissione”; 3. ma anche per colpe di “omissione”; 4. né soltanto per una moltitudine di peccati clamorosi; 5. ma per qualsiasi peccato mortale in cui uno perduri alla sua morte, fosse anche unico.
È indispensabile meditare seriamente quanto Gesù insegna in san Matteo (25,31-46) a proposito del giudizio finale che è un dogma di fede, solennemente definito da Benedetto XII nella costituzione Benedictus Deus del 29 gennaio 1336. In questo brano tutte le azioni enumerate (dar da mangiare, dar da bere, vestire, visitare) sono opere di amore cristiano se, «quando le compiamo, in questi nostri fratelli “più piccoli” ravvisiamo Cristo stesso. Di qui l’importanza e la gravità del peccato di omissione. Non fare una cosa che siamo tenuti ad adempiere, significa lasciare Cristo privo di quei servigi».
Occorre riconoscere Cristo che ci viene incontro negli uomini, nostri fratelli. Nessuna vita umana è isolata; ogni vita si intreccia con altre vite. Nessuna persona è un verso a sé: tutti facciamo parte dello stesso poema divino, che Dio scrive con il consenso della nostra libertà. Saremo giudicati sull’amore anche omesso. Il Signore ci chiederà conto non solo del male commesso, ma anche del bene che abbiamo tralasciato. I peccati di omissione emergeranno così in tutta la loro gravità, come pure l’amore del prossimo apparirà manifesto nel suo fondamento ultimo: nel più piccolo dei nostri fratelli è presente Cristo. Trascurare di vedere Cristo nel fratello e non trattare questo come si tratterebbe Cristo, è un peccato gravissimo di omissione, tale da meritare l’inferno, il «Via, lontano da me, maledetto, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli».
Leggiamo la descrizione dataci da Gesù stesso.
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi Angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere, e siamo venuti a visitarti?” Rispondendo, il re dirà loro: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”; poi dirà a quelli posti alla sua sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato, o forestiero o nudo, o malato o in carcere, e non ti abbiamo assistito?” Ma Egli risponderà: “In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna».
- La realtà dell’inferno nella tradizione e magistero della Chiesa – La tradizione ecclesiastica è unanime nell’affermare la verità e la realtà dell’inferno, come pena di chi muore in peccato mortale: basti leggere un qualsiasi Enchiridion Patristicum per convincersene. S. Giustino nella sua Apologia prima pro Christianis, dice: «Più di tutti gli uomini vi siamo utili e alleati per la pace, noi che pensiamo che non può rimanere nascosto a Dio chi è malfattore o avaro o insidiatore o virtuoso, e che ciascuno va alla eterna pena o all’eterna salvezza, secondo i meriti delle sue azioni. Se infatti tutti gli uomini conoscessero queste cose, nessuno sceglierebbe il male per così poco tempo, sapendo che andrebbe alla condanna eterna del fuoco, ma si modererebbe in ogni modo e si adornerebbe di virtù, per ottenere da Dio i beni e per fuggire i castighi… Se i malvagi imparassero e fossero convinti che è impossibile che possa rimanere nascosta a Dio qualche cosa, non solo fatta, ma anche pensata, sarebbero in ogni modo morigerati, se non altro per le pene che incombono” (6,341-344).
Alla Tradizione fa eco la Sacra Liturgia, la quale prega continuamente il Signore «vincitore dello Stige cui è soggetto il tartaro», «che ha redento ambo i sessi dalla perdita della morte perpetua», e che quindi «preferisce la conversione di ogni anima penitente piuttosto che la sua rovina»: affinché liberi noi e le anime di tutti i fedeli defunti «dalla bocca del leone», «dalle pene degli inferi», «dai luoghi delle pene», «dal tormento del supplizio eterno», «dal giudizio di condanna», «dalla morte perpetua», «dalle fiamme della Geenna», «dal fuoco dell’Averno»: così che il castigo annunziato «si trasformi in rimedio eterno». A conferma della loro urgenza, ritroviamo queste suppliche anche nel cuore della S. Messa, dove ogni sacerdote implora il Signore, «che ci salvi dalla dannazione eterna e ci accolga nel gregge degli Eletti» (Canone Romano), e che la comunione con il Suo Corpo e il Suo Sangue non divenga per noi «giudizio di condanna», ma per la Sua misericordia «sia rimedio e difesa dell’anima e del corpo».
La giustizia e la santità di Dio, iscritte nella natura stessa delle cose, e da Lui perennemente garantite, non possono ammettere una eguale sorte per il giusto e per il peccatore. Le cose non potranno rimanere come sono spesso quaggiù, dove, i cattivi nel male sembrano apparentemente stare meglio, e i buoni sopraffatti stare peggio; si avrà quindi certamente, nell’aldilà, la restaurazione del retto ordine, che vuole il successo del bene e del buono, l’insuccesso del male e del malvagio.
Inoltre, la bontà e l’amabilità di Dio è tale da dover essere scelta liberamente e amorosamente come nostro ultimo fine, ossia come scopo fondamentale della nostra esistenza: solo Dio in quanto amato ci può “completare” pienamente e sovrabbondantemente. Chi si allontana da Lui con il cuore, anche solo “a fatti”, con le sue scelte concrete peccaminose, si allontana quindi dal “suo vero bene”, e l’allontanamento definitivo equivale a una definitiva scelta della propria “incompiutezza”, a un definitivo fallimento: perché si ha un bel cercare la pienezza e la felicità dove non ci sono, non le si troveranno mai! Né Dio può donarsi a noi nostro malgrado, perché, per farci felici, può donarsi solo al nostro amore, e l’amore non può essere imposto.
Come si vede, la realtà dell’inferno “svela e smaschera” il peccato per quello che é, rifiuto di amore per Dio e quindi per sé stessi: il rapporto tra peccato e inferno non risulta tanto giuridico, quanto “naturale” e riuscirà ancor più manifestamente “naturale” quando dell’inferno si sarà considerata anche la natura e l’eternità. È anche conveniente che la sapienza di Dio permetta, e la Sua misericordia riveli la pena conseguente alla colpa, proprio come mezzo pedagogico per ritrarre gli uomini dal peccato e condurli alla felicità. Il valore di questi argomenti è confermato dal fatto che quasi ogni popolo ed in ogni tempo ha avuto la ferma persuasione, o perlomeno il timore, di questa sofferenza ultraterrena che attende gli empi, pur trattandosi di una dottrina niente affatto comoda e gradita. Anche i maggiori spiriti precristiani, come Omero, Esiodo, Erodoto, Eschilo, Pindaro, Platone, Aristotele, Virgilio, Cicerone ecc., sono giunti a tale conclusione. Questo fatto si può chiamare “argomento ex consensu universali”. Che l’inferno sia la pena di coloro che muoiono in peccato mortale, è stato chiaramente definito da Benedetto XII (D 1002), e ribadito soprattutto dal Decreto di unione dei Greci, del Concilio di Firenze (D 1306). In tali documenti si afferma la dannazione di coloro che muoiono “in peccato mortale”, al singolare, e senza alcuna limitazione. Il Concilio Vaticano II testimonia che «i servi cattivi e pigri andranno al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove ci sarà pianto e stridore di denti» (LG 49).
Concludendo, la dannazione di coloro che muoiono irreversibilmente in peccato mortale volontario e in piena avvertenza, risulta una “verità di fede divina e cattolica definita”.
- La natura dell’inferno come manifestazione della natura del peccato – Il peccato ha due aspetti: da una parte è “rifiuto di amore” e quindi egoismo parossistico; dall’altra parte è “schiavitù assoluta alla materia”. A questi due aspetti del peccato, che costituiscono la sua natura, rispondono due pene nell’inferno e che formano la natura dell’inferno stesso: la pena del danno e la pena del senso. La pena del danno consiste nella privazione dell’unico vero amore, Dio; la pena del senso invece consiste in pene veramente positive. È chiaro che rifiutando spontaneamente e volontariamente l’Amore unico e per eccellenza, la prima e incomparabilmente grave pena sta proprio nel non possedere l’Amore creativo redentivo, santificante e misericordioso, Colui cioè dal quale proveniamo e per il quale viviamo e verso il quale siamo diretti per vivere in Lui, di Lui, per Lui. Assente questo Amore, è ovvio che non ci può essere nulla di positivo, nulla di vero, nulla di vitale, niente gioia, niente santità, nulla di realizzato. Già S. Agostino nelle sue Confessioni aveva scritto la “Fecisti nos Domine ad Te, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te” (= O Signore, ci hai creato per Te e il nostro cuore non sarà mai appagato e quieto finché non riposa in Te).
Circa la pena del danno l’Antico Testamento ci, presenta il termine Sheòl come luogo sotterraneo dimenticato da Dio, dove non c’è Lui, dove non si può più cercare alcuna gioia, perché «non ci saranno più né attività, né ragioni, né scienza, né sapienza, né Dio» (Qoh 9,10).
Nel Nuovo Testamento appare chiarissima l’evidenza della perdita di Dio e, in Lui, di ogni bene, perdita espressa in categorie locali: “fuori”, “nelle tenebre di fuori”, “allontanatevi da me”; in categorie possessive, come nella frase tante volte ripetute dagli autori neotestamentari: “non entreranno in possesso del regno di Dio”; in categorie psicologiche: “non vi conosco”, “non vi ho mai conosciuti”, “non vedrà la vita”, “non gusterà la mia cena”…
Nella Tradizione ecclesiastica è chiarissima la dottrina sulla pena del danno. Basterebbe pensare a quanto dice san Giovanni Crisostomo (IV sec.): «…si tratta di due tormenti: infatti, chi è bruciato perde del tutto il Regno: ed è questa la pena maggiore. Lo so, molti tremano al solo nome della Geenna, ma io stimo che la perdita di quella gloria sia molto più terribile dei tormenti della Geenna… quale supplizio perdere quella beata gloria, essere oggetto di avversione da parte di Cristo, sentire “non vi conosco”, essere accusati «di non avergli dato da mangiare quando lo abbiamo visto affamato!» (Omelia in Matteo 2,7ss.).
E sant’Agostino scrive con la massima crudezza di questa pena, che presenta come un «perire dal Regno di Dio, essere esiliato dalla città di Dio, essere privato della vita di Dio, mancare di così grande abbondanza di dolcezza di Dio» (Enchiridion 112).
La Liturgia, sia eucaristica, sia del divino Ufficio, ci presenta la pena del danno con i concetti biblici spesso ricorrenti: assenza di Dio-Luce, assenza di Dio-Vita, separazione eterna da Dio-Amore, assenza di presenza del Lume-Divino…
- Tommaso d’Aquino, a proposito della pena del danno, parte dal principio che la pena si proporziona al peccato. Orbene nel peccato vi sono due aspetti, di cui il principale è «il distacco (aversio) dal bene infinito. Pertanto, secondo l’aspetto del distacco, corrisponde al peccato la pena del danno, che è la perdita del bene infinito, cioè Dio» (Summa Theologica I-II, q. 87, a. 4, c.). In altre parole, chi non vuole Dio non Lo consegue! Da ciò risulta evidentissima, già nella pena del danno, la “manifestazione” della natura del peccato. Il Magistero Ordinario della Chiesa tratta più che abbondantemente dell’argomento-pena del danno. Basti ricordare la citata definizione del Catechismo di san Pio X: «L’inferno è il patimento eterno della privazione di Dio, nostra felicità…» Dunque anche la pena del danno è una verità di fede divina e cattolica.
Ma in che consiste concretamente questa pena del danno? Consiste anzitutto nella perdita della “gloria essenziale”, cioè nella esclusione dalla visione e dall’unione beatifica con Dio, bene infinito. A ciò si unisce connaturalmente la perdita della “gloria accidentale”, cioè dei fratelli, della vera patria («cieli nuovi e terra nuova») e della glorificazione del proprio corpo. Di fronte a tante perdite, a tanto “danno”, come si resta? Soli! L’egoismo del peccato si rivela e si fissa nella sua crudezza: si rimane soli col proprio “io fallito”. L’uomo è solo senza Dio, cui tuttavia resta doppiamente orientato con tutto il suo essere: come creatura e come figlio, anche se snaturato: perché soltanto in Dio l’uomo può realizzarsi, naturalmente e soprannaturalmente. Ricordiamo le già citate parole di sant’Agostino: «O Signore, Tu ci hai fatti per Te, e il nostro Cuore è inquieto finché non riposa in Te».
Il dannato ha voluto e vuole cercare l’assoluto in sé stesso, non in Dio: e così il dannato trova sé stesso senza Dio, sé stesso con il suo vuoto, con la sua apertura insoddisfatta verso l’infinito e con la disperazione di non poterla mai soddisfare: con la sua immensa tensione vitale perennemente e volontariamente frustrata, come un respirare disperato nel rifiuto dell’ossigeno. Egli è un perpetuo orfano volontario, un perpetuo volontario “deluso d’amore”, eternamente, nell’istante stesso della delusione. Nulla ha più senso per un deluso d’amore su questa terra: ma può più sperare o dormire o ubriacarsi o impazzire o morire… Là invece, per la piena chiarezza dello spirito, la “delusione” sarà lucida, viva, senza distrazioni e senza surrogati, senza speranza alcuna… e sarà privazione di ogni amore, di tutto l’amore. Eternamente affamato e assetato d’amore, il dannato eternamente respingerà l’amore, proprio perché questo amore è Dio. Eternamente cercando sé stesso, eternamente si perderà perché il culto della propria personalità, al di fuori di Dio, si risolverà nell’eterna incompiutezza della personalità stessa, che ha bisogno di Dio.
L’uomo è solo senza fratelli, eletti o dannati, parenti ed amici. L’inferno è la manifestazione dell’egoismo del peccato come mutismo”; “incomunicabilità”, “isolamento”. Anche fra loro i dannati non si amano: assomigliarsi nell’egoismo non è comunione, e la convivenza di due egoismi non può essere che artificiale; anzi l’inferno sono gli altri, perché all’inferno ognuno è “chiuso” nel suo io, e vede gli altri come dei pericolosi “concorrenti” alla propria affermazione.
È la mancanza dell’Amore di Dio che porta alla mancanza di amore del prossimo. E intanto, anche verso i fratelli, come verso Dio, l’uomo rimane essenzialmente orientato: «L’uomo è un animale socievole» (Aristotele). Così il dannato aspira alla solidarietà fraterna che dovrebbe unire gli uomini e, ancor più, a quella mutua carità che costituisce la felicità del cielo. Allo stesso modo sospira il possesso di Dio; ma i suoi desideri hanno per base un fondamentale egoismo e si volgono in odio contro Dio che si nasconde (o, piuttosto, che non è accettato per quello che è) e contro i fratelli in umanità, che si rifiutano (di far loro semplicemente da sgabello). Sono dunque i dannati si “chiudono” volontariamente a Dio e ai fratelli.
Non deve dunque far meraviglia che l’unica cosa che resta al dannato, il suo io muto e incompleto, gli faccia “schifo e nausea” perché il suo corpo non può essere gloriosamente trasfigurato e neppure può realizzare quella viva armonia con lo spirito, cui l’uomo naturalmente aspira. Il suo intelletto non abbraccia la verità, né per contemplazione, né per fede: eppure è “schiacciato” dalla verità, che gli si impone per l’evidenza dei segni (in questo senso «anche i demoni credono e ne hanno terrore», Gc 2,19). La sua volontà non ama liberamente il bene, anzi lo odia: eppure vi si sente irresistibilmente attratta. Ecco l’intima contraddizione del dannato; ecco lo sfacelo della sua personalità e la “disintegrazione” anche di ciò che è specifico dell’uomo, l’intelletto e la volontà; ecco lo scacco supremo! Ritornano alla mente le parole di Gesù: «Chi vuol salvare la sua vita (non “donandola” in amore, “conservandola” per sé in egoismo), la perderà» (Mc 8,35): solo chi si dona, si compie!
Circa la pena del senso, dobbiamo dire che è lo “svelamento” del peccato come schiavitù della materia, è l’esistenza delle pene positive (pena del senso). La Scrittura parla dell’inferno come “luogo di tormenti” (Lc 16,28; Ap 14,11) sia nei suoi effetti, che sono «pianto e stridor di denti» (Mt 8,12), sia di un “verme” che non muore (Mc 9,44.46.48); ma la principale pena del senso, o quella che tutte è detta fuoco: affermazione chiarissima e frequentissima, nel Nuovo Testamento: ben 23 passi.
La tradizione patristica è unanime nel mettere in evidenza la pena del senso nelle pene positive – soprattutto del fuoco – che tormentano i dannati. Ci basti citare due grandi dottori della Chiesa: S. Giovanni Crisostomo: «Che cosa mi puoi nominare di terribile? Forse la povertà, la malattia, la prigionia, la mutilazione del corpo? Ma questi dolori non sono che cose ridicole in confronto alle pene dell’aldilà» (In epist. ad Rom. Hom 31,5: PG: 60,674). S. Agostino: «Da quello che gli uomini temono sulla terra, riconoscano che cosa debbano temere veramente. Si teme il carcere, e non si dovrebbe temere la Geenna? Si temono i carnefici, e non si dovrebbero temere gli spiriti infernali? Si temono le sofferenze temporali, e non si dovrebbero temere i tormenti del fuoco eterno? Si teme, infine, di morire per poco, e non si dovrebbe temere di morire per l’eternità?» (Serm. 161,5; PL 38, 880).
La Liturgia a volte, parlando con un linguaggio esuberante, parla di “Geenna di fuoco”, o di “fuoco della Geenna”, di fiamme e di incendi, di pene e di tormenti. In tutto ciò è chiaramente indicata l’esistenza di una pena del senso e implicitamente intesa la sua alterità dalla pena del danno. S. Tommaso d’Aquino, nella sua Summa Theologica (III, q. 87, a. 4, c,) ci dà la ragione della pena del senso. Nel peccato, oltre all’aspetto di “distacco da Dio”, c’è quello di «disordinato attaccamento (conversio) alle creature finite»: «Sotto questo aspetto… gli corrisponde la pena del senso, che è pure finita. Più specificatamente: chi vuole con disordine le creature, le avrà con quel disordine che si ripercuoterà» naturalmente su di lui! Esiste una corrispondenza stretta tra il “disordinato attaccamento” e la “pena del senso”. Rimane chiaro come sia proprio il peccatore stesso non soltanto a “scegliersi” l’inferno, ma anche a “scegliersi” la qualità delle sue pene.
Il Magistero Ecclesiastico conferma sia la Sacra Scrittura, sia la Tradizione e la ragione teologica, sostenendo l’esistenza di pene e di tormento in quasi tutti i documenti in cui parla dell’inferno e riconoscendo la distinzione tra le due pene del danno e del senso (cf. Dz 485, 780, 858, 1002, 1306… 76, 342, 443, 839; Cost. LG 48). L’inferno è la sintesi e pienezza di ogni pena: il dannato porta il fuoco in sé stesso, in quanto il suo essere, per il distacco del suo io da Dio, è lacerato, schiavo, cieco e paralizzato. Egli è la sua propria fornace.
Eternità dell’inferno: ostinazione del dannato nel rifiuto dell’amore -Tante sono le affermazioni della Sacra Scrittura circa l’eternità dell’inferno, ma vi è una espressione che indica “eternità in senso stretto”, senza ombra alcuna di dubbio: si tratta della locuzione «nei secoli dei secoli» (Ap 14,11; 20,10 ecc.), che non viene mai usata negli altri casi per indicare un tempo finito.
Note sono le espressioni della Liturgia al riguardo: «morte o pene o supplizio o fuoco eterni o sempiterni… morte o verme perpetui». Ricordiamo in particolare il Canone romano della Messa: «Salvaci dalla dannazione eterna»; le litanie dei Santi: «dalla morte eterna, liberaci o Signore… Perché strappi dall’eterna dannazione le anime nostre, dei nostri fratelli, parenti e benefattori, noi Ti preghiamo, ascoltaci o Signore»…
Razionalmente parlando, l’eternità dell’inferno si evince dalla conoscenza approfondita del peccato, il quale non è soltanto un “debito” ma soprattutto un “allontanamento”, per cui non è possibile una liberazione dalla colpa senza il riavvicinamento della volontà umana o conversione: Dio non può dire all’uomo di amare, dispensandolo proprio dall’amare! E siccome la pena è “immanente” alla colpa, essa non può essere rimessa senza remissione della colpa stessa, e quindi non è possibile neppure la liberazione della pena, senza la conversione del peccatore. Chi muore in peccato mortale volutamente, si fissa e si ostina per sempre nella sua libera scelta egoistica ostile a Dio. Si può affermare che chi muore in peccato mortale, si ostina per l’eternità alla sua volontà perversa, rendendo “naturalmente” impossibile per l’eternità la remissione del suo peccato e rendendo così “naturalmente” impossibile per l’eternità la remissione della pena immanente al peccato stesso. L’eternità dell’inferno, perciò, non è altro che la manifestazione dell’ostinazione eterna nel rifiuto dell’amore: è l’eternità del peccato la ragione dell’eternità dell’inferno: il dannato continua a preferirsi a Dio, nonostante il tormento che deriva da questa sua scelta innaturale e lacerante. Egli ovviamente maledice questo tormento, ma non è affatto disposto a rinunciarne alla causa diretta, la ”auto-idolatria”. È lo stesso peccatore impenitente, che non soltanto “si sceglie” volontariamente l’inferno, non soltanto “si sceglie” volontariamente le pene sia del danno sia del senso, ma che “si sceglie” volontariamente pure “l’eternità” dello stesso inferno e delle stesse pene: il dannato vive come “sceglie” continuamente di vivere.
L’eternità dell’inferno è una verità di fede divina e cattolica, come viene più volte riaffermato dai documenti del Magistero della Chiesa. Tra le affermazioni principali abbiamo il Simbolo Atanasiano (Dz 76), e nella definizione contro gli Albigesi e i Catari del Concilio Lateranense IV (Dz 801); l’anatematismo del Sinodo particolare di Costantinopoli dell’anno 543 (Dz 411)… e ai nostri giorni il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium, 48… e di tutti i recenti e attuali Catechismi delle varie nazioni. «Finché vivremo, il pensiero dell’inferno ci sconvolgerà: è una spina nel nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli, perché nessuno fra gli uomini resista alle premure amorose di quella bontà infinita di cui l’apostolo scrive che è follia prenderla alla leggera» (A. Rudoni, Escatologia, 176).
- L’inferno e il diavolo – Basta una citazione. Papini, nel suo libro Il diavolo, con grande acume scriveva: «L’odio del diavolo non nasce soltanto dal suo primo impulso di fare a meno di Lui, della Sua grazia, della Sua sovranità. Quest’odio è accresciuto, via via, dal sentimento della sua dipendenza eterna, anche dopo la caduta, dal suo Creatore. Se il demonio è ancora principe, se gli rimane ancora un potere, un dominio, esso lo deve unicamente alla volontà di Dio che, per i Suoi imperscrutabili fini, non lo ha annientato ma gli ha confidato un regno e un ufficio. La consapevolezza di questa dipendenza lo esaspera. Egli non è capace di gratitudine e, ancor meno degli uomini (ed è tutto dire!) riesce ad essere riconoscente. Vi è in lui, perciò, l’odio segreto e profondo del beneficato verso il benefattore e del debitore verso il creditore e, perciò, la smania di sopprimere, o almeno di ferire, creditore e benefattore. E per questa ragione egli si adopera per spingere gli uomini al deicidio, cioè a quei peccati che sono, secondo i teologi, forma o conati di deicidio. Per questa ragione egli collaborò alla crocifissione del Golgota, per questa ragione egli istiga all’assassinio, che è distruzione violenta di una creatura di Dio, di un essere creato da Dio, fatto a immagine e somiglianza di Dio: deicidio internazionale. Il diavolo è il creditore rancoroso e vendicativo, che si serve degli uomini nei suoi tentativi di derubare e ferire Colui al quale, pur nella sua condanna, deve tutto, eccettuato il suo implacabile odio… Dio è Amore e Satana è odio; Dio è Creazione perpetua e Satana è distruzione; Dio è Luce e Satana è tenebra; Dio è Promessa di eterna Beatitudine e Satana è la forza dell’eterna dannazione» (pp. 113-115).
Questo numero 45 riporta con pochissime modifiche le pagg. 106-126 del libro di P. Ernetti, La catechesi di Satana – versione integrale, Ed. Il Segno 2019.