Il primato dell’ascolto

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

L’ascolto come cuore della conversione e dell’esperienza spirituale

Luciano Manicardi

La Dei verbum [DV], la costituzione dogmatica sulla divina rivelazione del concilio Vaticano II, mostra la sua novità rivoluzionaria fin dall’incipit, cioè dalle prime parole del Proemio: «In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: “Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”» (1Gv 1,2-3). Il Proemio presenta il concilio che parla di se stesso, che svela la sua autocoscienza e si pone come esempio per quel popolo degli «ascoltatori della parola» (nota espressione di K. Rahner) che i cristiani sono chiamati a essere. La centralità – così biblica – dell’audire, dell’ascolto, che caratterizza la postura del concilio e dunque della Chiesa, è decisamente innovativa per l’epoca della sua promulgazione (18 novembre 1965). Lì si afferma che la Chiesa esiste in quanto serva della parola di Dio, impegnata nel doppio movimento dell’ascolto e dell’annuncio: «è come se l’intera vita della Chiesa fosse raccolta in questo ascolto da cui solamente può procedere ogni suo atto di parola», scrisse il teologo J. Ratzinger.

Per essere la Chiesa che insegna, deve essere prima di tutto la Chiesa che ascolta. La successiva citazione nel prologo della Prima lettera di Giovanni (1Gv 1,2-3) annuncia il tema centrale della DV e dell’intero concilio: la comunione. Comunione che scaturisce dalla comunicazione che il Dio trinitario (DV 2), cioè il Dio che è comunione nel suo stesso essere, fa della sua vita un dono all’umanità e che si manifesta pienamente in Cristo. Questa comunicazione non è dottrinale, ma vitale, avviene nella storia, ha come forma e centro il Cristo, come destinatario il mondo intero e come fine la salvezza dell’umanità. Tale comunicazione è accolta mediante l’ascolto, che non opera solo la conversione del cuore del singolo, ma crea anche la chiesa attuando il passaggio dal gruppo sociologico al corpo di Cristo nella storia.

Nel Proemio della DV sono ricordate in poche frasi la dimensione storica e salvifica della rivelazione, il suo aspetto cristocentrico e la sua estensione universale. In questo modo avviene un ribaltamento di prospettiva rispetto all’impostazione teologica apologetica e deduttivistica precedente (concilio tridentino e Vaticano I) esprimendo così in realtà un atteggiamento molto libero nei confronti del passato, tanto che nel Proemio non viene citato in nota alcun passo dei due concili in questione. La tradizione vive del suo superamento, e il suo criterio di verità non è nel passato ma nel futuro, nell’eschaton, nel Regno. L’ascolto sempre rinnovato della parola di Dio nelle varie epoche e luoghi, nelle diverse contingenze storiche ed ecclesiali, nelle diverse stagioni teologiche, è ciò che anima e rende vivo il cammino della tradizione nella storia impedendo alla tradizione stessa di fossilizzarsi. L’ascolto, attitudine decisiva per la Chiesa, si trova all’inizio e alla fine del Proemio racchiudendolo come in uno scrigno (audiens… audiendo). Il card. W. Kasper, commentando questo testo della DV ha scritto: «Non può esservi migliore espressione per dire il primato della Parola di Dio su tutte le parole e le azioni del popolo di Dio».

Se la vita della Chiesa sgorga dall’ascolto della parola di Dio, l’ascolto è anche il momento aurorale e sempre da rinnovarsi della preghiera personale e comunitaria, del dialogo con Dio in cui viene rinnovato il dinamismo dell’alleanza. L’ascolto è l’elemento basilare dello sviluppo della vita spirituale così come, sul piano antropologico, l’udito è il senso fondamentale per lo sviluppo della vita del bambino, anzi, ancor prima, del feto nel ventre materno. «È facile immaginare quale evento straordinario e in ogni senso “commovente” fu, per ognuno di noi, l’ascolto del battito del cuore materno: il suo inizio percettivo fu probabilmente quell’istante sconvolgente in cui il mondo, tramite l’alveo materno, ci invase e ci mosse, lacerando e distogliendo il silenzio primordiale e consegnandoci a un altro costitutivo silenzio: quello alternato col rumore e col suono. È l’udito dunque, il primo cordone ombelicale comunicativo della nostra esistenza; grazie all’udito ci separiamo dalla fusione indistinta con la carne del mondo e insieme ci teniamo pur sempre agganciati a essa» (C. Sini, Il gioco del silenzio, Milano 2006,71-72)

Possiamo affermare che l’uomo è ciò che ascolta ed è anche come ascolta. Non a caso, nei vangeli, troviamo in bocca a Gesù l’avvertimento  a stare attenti a ciò che si ascolta («State attenti a quello che ascoltate»: Mc 4,24) e a come si ascolta («State attenti a come ascoltate»: Lc 8,18). Ora, che cos’è ascoltare? Che cosa richiede? L’ascolto è un’arte e conosce diversi elementi costitutivi. Eccone alcuni essenziali.

Ascoltare è un atto intenzionale – A differenza del sentire che è meccanico, l’ascolto esige una decisione, una volontà. L’ascolto richiede concentrazione, rientrare in se, rispettare ciò che si ascolta senza manipolare, senza interpretare arbitrariamente. L’ascolto tende a recepire ciò che l’altro dice e sente per far emergere chi l’altro è. L’ascolto impegna tutta la persona, é un essere presenti all’altro senza riserve, senza distrazioni, con piena attenzione. Nell’ascolto tento di comprendere l’altro coinvolgendomi con lui. Un ascolto distaccato, asettico, fallisce l’incontro a cui l’ascolto vuole condurre.

Ascoltare è un atto del corpo – Anche il corpo parla, anzi normalmente il corpo non mente a differenza delle parole che mascherano, velano, offuscano o mentono apertamente. Nella comunicazione umana i gesti, il tono della voce, i lineamenti del volto, le posture del corpo, gli sguardi, comunicano molto di più del contenuto delle parole. Ascoltare è dunque anche osservare, fare attenzione, cogliere i tic e i movimenti del corpo che accompagnano le parole dette, notare i riflessi emotivi che sottolineano certi passaggi del parlare dell’altro. E farne tesoro.

Ascoltare richiede rottura con i pregiudizi. Precomprensioni, etichette e pregiudizi sono un impedimento all’ascolto. Ascoltare significa operare una purificazione delle idee che avevamo sull’altro. L’altro non è una categoria, ma una persona, un volto, una unicità irripetibile. E questo io lo riconosco solo con l’ascolto. Quando ci si dispone all’ascolto occorre essere aperti alla smentita e alla novità. Il rischio è quello di proiettare sull’altro le cose che sappiamo o crediamo di sapere di lui. Senza lasciare che sia lui a svelarsi. Nei confronti dello straniero questo è un rischio che conduce al razzismo e alla xenofobia. Recita un bel testo poetico: «Avvicinati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che tu sei e non per quello che io sono» (E. Jabes, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, Milano 1991, 98).

Ascoltare è dare tempo all’altro – La fretta è nemica di un buon ascolto. Occorre rimettersi ai tempi dell’altro, non forzargli la mano, ma acconsentire ai suoi tempi per permettergli di arrivare a dire ciò che vuole dire, anche se lo abbiamo già intuito. Ascoltare è, in verità, dare ascolto. L’ascolto è dono, è espressione di donazione di sé all’altro. Dare ascolto è dare tempo, cioè dare vita, è donare il proprio tempo perché l’altro viva. Spesso l’altro fatica a trovare le parole, a esprimere ciò che intende significare, parla in modo non chiaro, non padroneggia le parole: spesso la comunicazione è una sofferenza e l’ascolto una vera ascesi. Ma guai a far sentire all’altro che non si ha tempo, che lo si ascolta guardando l’orologio. L’altro deve sapere che ha tempo e che può dirsi. Soprattutto quando cerca di dire cose pesanti, di cui si vergogna: più che mai allora deve trovare una persona che lo accoglie incondizionatamente. Se l’altro, ascoltandomi mi accoglie in ciò che io sento di irricevibile in me, allora anch’io posso accogliermi. Ascoltare è dire di sì all’altro e apprestargli uno spazio di rinascita. L’ascolto crea fiducia, e la fiducia è la matrice della vita.

Ascoltare è ospitare – L’ascolto come fatica tesa alla comprensione dell’altro tende all’accoglienza dentro di sé dell’altro (cum-prehendere): l’ascolto è atto di ospitalità. Occorre pertanto sgombrare il proprio io da pensieri, distrazioni, rumori, immagini che non lasciano spazio all’altro. Se il nostro cuore trabocca di preoccupazioni, sofferenze, pensieri autocentrati, non si rende libero per ascoltare e si chiude all’altro invece di accoglierlo. L’ospitalità dell’ascolto si deve accompagnare al pudore e alla discrezione. L’altro ci fa fiducia consegnandoci timori, paure, parole tremanti, angosce, situazioni inerenti la sfera sessuale o morale: questo esige pudore, non intrusività, non curiosità morbosa, perché allora l’ascolto diventerebbe violenza e abuso, pretesa e prevaricazione. L’ascolto esige discrezione: l’indiscrezione uccide le relazioni e fa perdere credibilità.

Ascoltare è fare silenzio – Ascoltare implica non solo il tacere, ma il «fare silenzio», il fare del silenzio un’azione interiore. Si tratta del silenzio delle conversazioni interiori, dei litigi interiori, delle voci e dei rumori, delle immagini che ci attraversano e ci disturbano. Anche dei ricordi che ci tengono prigionieri del passato. L’ascolto esige ascesi mentale e dominio della facoltà dell’immaginazione. Solo così ciò che l’altro dice e comunica ci può raggiungere in modo limpido.

 Ascoltare è discernere L’ascolto opera una cernita, un discernimento tra gli elementi che compongono il messaggio dell’altro. L’ascolto è atto intelligente e selettivo: legge dentro, «fra», negli interstizi del detto e del non-detto, tra parole e gesti, nota le parole chiave e rivelatrici dell‘altro. Tante parole dette non sono essenziali al fine della conoscenza dell’altro, ma spesso per comunicare qualcosa di importante si avvolge il messaggio con parole che costituiscono un cuscinetto protettivo che attutisce il colpo della rivelazione che sta a cuore. Ascoltare implica anche il vedere e nominare le paure che possiamo avere nell’ascoltare. Alcune resistenze all’ascolto? Il fastidio di chi è noioso, di chi è lento, di chi per dire una cosa che già si è capito quale sarà, percorre un giro interminabile, il terrore delle persone confuse e incapaci di esprimersi con chiarezza, la stanchezza nei confronti di persone verbose e prolisse; la ripugnanza verso persone aggressive e rozze… L’ascolto dell’altro diviene così anche svelamento delle proprie fragilità, dei propri punti deboli. È importante, quando si ascolta una persona, ascoltare anche la risonanza in noi di ciò che l’altro comunica. Davvero, l’ascolto dell’altro è anche, inscindibilmente, ascolto di sé. E, tra i frutti che porta, non c’è solo conoscenza dell’altro, ma anche di se stessi.

 

Gesù, uomo di ascolto e di incontro – Riferimento cristiano fondamentale per l’ascolto è Gesù di Nazaret. Gesù ascolta il Padre, ma sa anche ascoltare gli uomini e le donne del suo tempo. La fatica dell’ascolto è costitutiva della pratica di umanità di Gesù. Per un cristiano, imparare ad ascoltare significa mettersi alla scuola dell’umanità di Gesù, della sua pratica di ascolto, così come attestata nei vangeli.

L’ascolto dell’altro attuato da Gesù è anzitutto accogliere e non di giudicare. Gesù entra nella situazione personale dell’altro senza mai giudicare, accettando l’altro come si presenta, anche quando si tratta di situazioni moralmente più che discutibili. È così con la prostituta in casa di Simone il lebbroso (cf. Lc 7,36-50). Gesù ascolta e accoglie il gesto di gratuità della donna e fa leva su quello per vedere in lei non una prostituta, come fanno gli astanti con pigrizia dello sguardo e malizia del cuore, ma una donna capace di amare. E Gesù accoglie le modalità con cui lei esprime l’amore: non a parole, ma con il corpo. E Gesù vede 1’amore là dove gli altri vedono solo il peccato. Difetto, questo, non ignoto ai nostri ambienti ecclesiali.

Gesù attua l’ascolto anche come ascolto della sofferenza dell’altro, Di fronte all’indemoniato di Gerasa, un energumeno che gli va incontro gridando contro di lui, uomo violento e squilibrato, Gesù resta saldo e continua a chiedergli il nome, a cercare relazione con la fatica del dare tempo, del dar fondo alle proprie energie psichiche, affettive e intellettuali, con il coraggio di chi crede alla forza della parola e fa fiducia all’altro (Mc 5,1-20). Ascoltare è fare fiducia all’altro. E questa è una delle esperienze più vitali per noi umani: che qualcuno creda in noi. Gesù non fugge davanti a chi lo minaccia perché non si sofferma sulle parole aggressive che quell’uomo pronuncia, ma perché ascolta la sofferenza da cui nasce quell’aggressività. Molte parole e forme di comunicazione aggressiva nascono da traumi e violenze subite e non sanate.

 L’ascolto dell’altro diviene spesso, per Gesù, compassione. Di fronte alle folle che avevano preceduto lui e i discepoli sull’altra riva del lago di Tiberiade, Gesù sente compassione (Mc 6,34), cioè lascia risuonare in sé la sofferenza; la mancanza, il bisogno di queste persone e accetta di mutare il progetto di riposo che aveva pensato per sé e per i suoi discepoli quando aveva detto loro: «Venite in disparte e riposatevi un po’» (Mc 6,31). Così come prova compassione per l’uomo lebbroso che lo implora (Mc 1,41). La compassione è il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell’altro. La sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell’incontro con l’altro, un linguaggio umanissimo, di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola. Di fronte al malato per cui non c’è più nulla da fare dal punto di vista medico, che altro resta se non «con-soffrire» restandogli accanto, ascoltandolo ed esprimendogli, nei modi che lui può ancora capire, che noi lo amiamo? Se la compassione si mostra in particolare nei confronti di malati e sofferenti, in verità essa è sentire l’altro nella sua unicità. Certo colui che soffre è appello, è voce che chiama e chiede ascolto. E. Levinas scrive:«Il dolore isola ed è da questo isolamento e senso di solitudine e abbandono che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro […] La relazione , di compassione inizia nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente e che accetto di ascoltare anche se normalmente le nostre orecchie, le orecchie del cuore si chiudono di fronte alla sofferenza altrui. Questo ascolto della sofferenza altrui è la compassione […] La sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la nostra più grande dignità […] La compassione cioè, etimologicamente, soffrire con l’altro, ha un senso etico». (Un èthique de la souffrance, Paris 1994, 133-135).

L’ascolto è opera di discernimento in cui è coinvolto anche il corpo. Gesù sente che qualcuno ha toccato il lembo del suo mantello in mezzo alla ressa e intuisce che è stata una donna. Così suggerisce il testo di Mc 5,30-34: «Gesù guardava attorno per vedere colei che aveva fatto questo» (v. 32). Gesù sente, con discernimento del cuore e del corpo, che quel toccare era una richiesta di aiuto. Gesù percepisce l’intenzionalità che muoveva quel toccare e vi discerne una preghiera rivolta a lui.

 

L’ascolto a volte è faticoso anche per Gesù e lui stesso vi oppone resisienze. L’episodio dell’incontro con una straniera, una donna cananea, narrato in Mt 15,21-28, lo mostra bene. Prima Gesù non risponde nulla alla donna che lo implora (15,23), poi risponde seccamente ai discepoli che vogliono levarsi di torno la donna che li infastidisce (15,24), quindi risponde con durezza inusitata alla donna stessa che insiste a chiedergli aiuto (15,26), e infine si lascia vincere e convincere dall’insistenza e dall’intelligenza di fede della donna stessa (15,27-28). L’atteggiamento rigido di Gesù, motivato dalla tradizione religiosa di Israele, non è però così dogmatico e impermeabile all’invocazione che nasce da una madre che ha una figlia gravemente sofferente. Gesù resta aperto all’altro e sa modificare posizioni teologiche che così non diventano macigni che impediscono il dialogo.

L’ascolto che Gesù attua è differenziato, cioè relativo alla persona che ha davanti. Gesù fa dell’ascolto il luogo per far nascere 1’altro, per promuovere la sua soggettività e farlo crescere. Spesso Gesù interroga la domanda che gli viene posta per condurre l’interlocutore ad andare più in profondità e trovare in se stesso le risposte al proprio quesito. All’uomo ricco che gli domanda «Maestro buono, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Mc 10,17), Gesù risponde interrogando la sua domanda e interpretandola come richiesta non tanto di qualcosa da fare, ma come desiderio di trovare realizzazione uscendo da sé, nella via della relazione (cf. Mc 10,18-19). L’ascolto di Gesù conduce l’altro ad ascoltare se stesso e a fare un percorso interiore.

L’ascolto di Gesù è personalizzante: mai Gesù si relaziona con «categorie». Per lui l’altro è un’unicità irriducibile, un volto e un nome preciso. Una donna samaritana gli dice: tu sei giudeo e io samaritana, dunque perché mi rivolgi la parola, visto che tra di noi non intercorrono relazioni? Gesù le risponde facendole percorrere un itinerario in cui la donna esce dalla inimicizia e viene restituita a se stessa, alla propria realtà famigliare, alla propria storia personale, alla propria tradizione samaritana, alla propria appartenenza religiosa, e, grazie a questa restituzione a se stessa, può avvenire l’incontro e il dialogo tra i due (cf. Gv 4,1-42).

 

In sintesi: nei vangeli Gesù è presentato come colui che, mentre narra l’agire di Dio, insegna all’uomo ad ascoltare e ad incontrare gli altri, mostrando la profondità di quella realtà dell’ascolto che non è una passività, viltà, ma un’attività impegnativa e feconda: l’ascolto fa nascere alla vita.

 

Ascolto e vita spirituale

Il «privilegio» dell’ascolto – L’apostolo Paolo scrive: «Noi camminiamo per mezzo della fede, non della visione» (2Cor 5,7). Nell’esperienza di fede che sgorga dalla rivelazione biblica è indubbio il primato dell’ascoltare sul vedere. L’originarietà della parola di Dio che si rivolge all’uomo e lo cerca, situa l’esperienza spirituale nel quadro dialettico di «chiamata e risposta», non in quello della rappresentazione. L’originarietà della parola divina dice che fondamento dell’esperienza spirituale è la volontà di Dio che si manifesta nel suo cercare l’uomo e volgersi a lui. Nell’esperienza biblica della fede l’ascolto gode di una sorta di «privilegio» che consiste nello scoprire e nell’aprirsi a una presenza irriducibile all’ordine della percezione, presenza che eccede l’uomo e che non può essere esaurita da ciò che egli ne può dire o dalle rappresentazioni che ne può fare. Il «privilegio» dell’ascolto risiede nel fatto che esso è per eccellenza il senso della conversione («Ascoltate, e la vostra vita rinascerà»: Is 55,3) e della relazione con il Signore, dell’alleanza («Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo»: Ger 7,23). Anche lo Spirito può essere ascoltato: «Chi ha orecchio, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese» (Ap 2,7). L’ascolto converte il cuore rendendolo capace di accogliere una volontà e una presenza altra. L’ascolto scava in noi uno spazio per ospitare un altro da noi e fare avvenire in noi qualcosa della differenza di cui l’altro è portatore. Per Paolo, la fede fa abitare il Cristo nel credente: «Esaminate voi stessi se siete nella fede: riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5).

Vita spirituale come pratica trasformativa – L’ascolto è al cuore della forza trasformativa della vita spirituale. Vorrei illustrarlo a partire da due passaggi della Regola monastica di Bose che hanno a che fare con l’ascolto: «Segui, come discepolo, il tuo Maestro, nell’ascolto della sua parola: sia che tu vegli sia che tu dorma, la notte e il giorno, essa germoglia e cresce senza che tu sappia come! (cf. Mc 4,27)» (R. Bo, Prologo 1). «Prega sempre, in ogni occasione, e non dimenticare che alla preghiera è essenziale il silenzio: questo ti farà ascoltare Dio e non te stesso. Così, senza che tu sappia come, la preghiera trasformerà il tuo essere, la tua vita personale e comunitaria, e la parola di Dio crescerà in te fino a dare frutto» (R. Bo 37). La vita interiore nutrita dall’ascolto della parola di Dio, dalla preghiera e dal silenzio è ciò grazie a cui ciascuno può mettersi alla scuola del Signore stesso: «Tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (Gv 6,45). Ma l’ascolto della parola di Dio si deve accompagnare all’ascolto della vita, degli altri, della storia. Troviamo le risorse per crescere spiritualmente e maturare umanamente negli strumenti che la vita cristiana stessa fornisce; anzi, prima di tutto nella vita tout-court, nell’esperienza che la vita stessa consente. Il primo luogo di formazione è la vita con le difficoltà e le resistenze che presenta agli umani.

Il primato dell’ascolto, come ascolto rivolto alla parola di Dio ma anche alla vita, a se stessi e agli altri, si trova alla radice dell’autoformazione e della riflessività. L’autoformazione: il fatto cioè che si è chiamati a divenire formatori di se stessi facendo della pratica di vita che si sta conducendo il luogo della propria crescita umana e spirituale; e si è chiamati a imparare a leggere ciò che si vive per meglio aderirvi e meglio viverlo; e si è chiamati a divenire se stessi all’interno dello stato di vita in cui ci si trova, accordando il primato all’unicità personale rispetto a modelli preconfezionati. La riflessività: ovvero, che si è chiamati ad ascoltare e a pensare ciò che si vive mentre lo si vive, a valutare criticamente ciò che si fa sapendovi leggere se stessi, quasi sviluppando un terzo occhio con cui guardarsi dall’esterno e così conoscersi, correggersi, migliorarsi.

Possiamo ricorrere all’immagine dello specchio, molto usata dai Padri per indicare gli strumenti della vita spirituale, e anzitutto e sopra a tutto, la Bibbia: «La Sacra Scrittura si presenta agli occhi della nostra anima come uno specchio, in cui possiamo conoscere ciò che in noi c’è di bello e di brutto, possiamo verificare il nostro progresso e quanto siamo lontani dalla meta» (S. Gregorio Magno. Commento a Giobbe, 2.1.1). Nel gioco di riflesso che lo specchio offre, l’uomo si vede così come è, e nell’immagine che gli viene rimandata, si innesta non solo la possibilità della riflessione su di sé, ma anche l’illuminazione dello Spirito Santo che orienta l’immagine che si vuole far emergere, immagine somigliante a Cristo. La lectio divina, come ascolto della parola di Dio attraverso la lettura delle pagine bibliche, mette in atto questa potenzialità della Scrittura e occupa un posto privilegiato nell’ambito della vita spirituale (cf. E. Bianchi, Pregare la Parola, Torino 1990). L’espressione migliore di questo gioco, in cui umano e spirituale convergono nell’indicare una via di conversione, è il passo di Paolo in Rm 8,16: «Lo Spirito stesso testimonia insieme al nostro spirito che siamo figli di Dio». Vi è specularità tra Spirito (maiuscolo, in senso teologico) e spirito (minuscolo, in senso antropologico). Ascolto dello Spirito e ascolto dello spirito costituiscono un unico cammino per chi vuole inoltrarsi nella vita spirituale cristiana. Cammino il cui fine è la capacità di amare, la carità: su questo si misura la verità della vita spirituale e della preghiera. Questo è ciò a cui porta l’ascolto: la dilatazione del cuore.