“Siate misericordiosi…”
Germogli
“germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;
“germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;
“germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).
Alberto Bigarelli
L’Anno Santo della Misericordia ci invita a meditare sul significato del termine «misericordia». Quando cerchiamo di farci un’idea di quello che significa questo vocabolo, probabilmente pensiamo subito alle «opere di misericordia», come, per esempio, dare da mangiare all’affamato, dare da bere all’assetato, vestire chi è nudo, e così via…. Dal testo in Matteo 25, in cui il Signore parla del giudizio finale, si possono ricavare una lista di opere su cui verremo interpellati nell’ultimo giorno. Nonostante questo noi continuiamo a ignorare che cosa significhi «misericordia». Sì, sappiamo che la misericordia ci spinge a compiere alcune opere, e che quelle opere saranno decisive nel momento del giudizio, visto che ci verrà chiesto se le abbiamo compiute. Ma il profeta Isaia chiama quelle opere “digiuno”, vale a dire il sacrificio che Dio vuole: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà» (Is 58,6-8).
A questo punto potremmo pensare che la misericordia equivalga al sacrificio, ma il profeta dice: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Os 6,6 – intendendo con “sacrifici” tutte le cerimonie sacrificali ed espiatorie che avvenivano quotidianamente nel santuario di Gerusalemme); e Gesù, nel Vangelo di Matteo, ripete questa espressione due volte (Mt 9,13; 12,7). I due termini non vengono messi in contrapposizione, ma nemmeno vengono identificati. E tuttavia, sia per Matteo, sia per Isaia, quelle opere sono il frutto di un modo di essere che ci avvicina a Dio. Per Matteo, chi compie queste opere merita di «ricevere in eredità il regno» di Dio (Mt 25,34); per Isaia, così facendo, la persona mortifica col digiuno le cattive intenzioni, i desideri di potere e di dominio, mettendosi dalla parte di Dio. Per questo Dio non l’abbandona.
Così abbiamo fatto un passo avanti: sappiamo che la misericordia ci porta a compiere certe opere e ci avvicina a Dio; ma non abbiamo ancora trovato una risposta chiara alla nostra domanda su che cosa sia, in sé, la misericordia.
Nel Vangelo, ci sono due parole che in italiano, traduciamo con il termine «misericordia»: una fa riferimento all’amore e alla bontà (éleos), l’altra rimanda alle viscere (splanchna), a ciò che abbiamo di più intimo. Nella lingua italiana c’é un’espressione che, riassumendo questi concetti in due sole parole, ci parla di un amore che nasce dal più intimo di noi stessi: dell’«amore viscerale», che va ben aldilà della bontà e dell’altruismo.
Le parabole della misericordia nel capitolo 15 di Luca
È Gesù a insegnarci la misericordia. E lo fa attraverso delle parabole, il modo d’insegnare che egli riserva alla descrizione del regno di suo Padre («Il regno dei cieli è simile a…»). Ma le parabole, comparazioni o storie sapienziali, destinate a insegnarci qualcosa sulle realtà del Regno, molte volte ci confondono (cfr. Lc 8,10). Perché il Regno «è simile a…», ma soltanto in alcuni aspetti, mentre in altri non è simile, anzi a volte è molto differente. Perciò è necessario prestare grande attenzione.
Infatti, le parabole sono come le icone, piccole finestre che ci permettono di affacciarci sul mistero. Non possiamo vedere tutto, ma soltanto una parte, mentre il resto rimane nascosto. Le parabole rivelano e al tempo stesso nascondono; perciò dobbiamo stare attenti a ciò che esse affermano e a ciò che suggeriscono. Non ci capiti quello che dice Gesù nel Vangelo: «Agli altri [parlo] solo con parabole, affinché vedendo non vedano e ascoltando non comprendano» (Lc 8,10).
Così, le parabole che vogliono insegnarci la misericordia ci parlano di un buon pastore che va in cerca della pecora smarrita «lasciando le novantanove nel deserto» (Lc 15,1-7); di una donna di casa che accende una lampada e spazza la stanza finché non trova la moneta che aveva perduta (Lc 15,8-10); e di un padre che attende e accoglie sorprendentemente il figlio che aveva tradito la sua fiducia (Lc 15,11-32). I tre elementi si trovano lontani, introvabili e anche il figlio minore non torna perché è pentito.
Le tre parabole hanno aspetti comuni. In primo luogo, il fatto che si è perduto qualcosa: una pecora, una moneta, un figlio. Questi non sono elementi unici: Gesù chiarisce bene che il pastore ha cento pecore, la donna ha dieci monete e il padre ha due figli. In secondo luogo, il pastore, la donna e il padre che, nonostante tutto, non si rassegnano ad aver perduto ciò che avevano e amavano: lo cercano, lo aspettano, lo accolgono. In terzo luogo, il ritrovamento di ciò che si era perduto è causa di una gioia umanamente fuori misura. Soltanto nel caso del padre si usa uno dei termini che il Vangelo riserva alla misericordia (esplanchnisthé) e che potremmo tradurre con gli «si contorsero le viscere» (Lc 15,20).
Queste tre parabole ci parlano della misericordia dallo stesso punto di vista: Dio è misericordioso verso di noi. Noi eravamo perduti e Lui ci ha cercati e ci ha accolti senza fare scenate. E continuerà a farlo. Infatti, cento pecore costituivano all’epoca un gregge di media grandezza, ma non sono la stessa cosa se ne manca una; avere dieci monetine di pochissimo valore commerciale, non sono la stessa cosa se ne manca una, o avere due figli, anche se il secondo è uno scapestrato, non è la stessa cosa che averne uno solo. Per lui il gregge è composto di tutte e cento le pecore; il suo tesoro è composto da tutte e dieci le monetine; la sua famiglia è fatta di due figli, non di uno solo. E niente lo convincerà che siano lo stesso cento e novantanove, dieci e nove, due e uno. Per chi vuole che nessuno si perda (cfr. 2 Pt 3,9), uno solo fa la differenza tra la gioia e il dolore.
La parabola del buon Samaritano – Sebbene queste tre parabole ci parlino del regno di Dio, di quello che Dio sente e di quello che Dio fa nella sua misericordia per offrirci il suo Regno, tuttavia vorrei prendere in considerazione un’altra parabola, conosciutissima, quella del buon Samaritano. Essa descrive il sentimento di chi è cercato, di chi è smarrito come la pecora, come la moneta e come il figlio che Dio lo cerca in modo speciale. Ma la storia è complessa e può metterci in confusione, come di fatto ci ha confuso tante volte.
Anzitutto prestiamo attenzione al contesto. Gesù racconta questa parabola per rispondere a un maestro della legge che gli aveva domandato: «Chi è il mio prossimo?». Chiarire questo è importante, perché noi di solito leggiamo o ricordiamo la parabola come una regola su come dobbiamo comportarci verso il nostro prossimo. Ma all’epoca chi era in realtà il prossimo? Ogni ebreo si considerava fratello e prossimo di ogni ebreo. Ma era tuo prossimo anche il pubblicano? Il commerciante imbroglione? La prostituta? Il brigante? Il samaritano? Il soldato romano prepotente e arraffone? Ecc. Erano cose su cui si discuteva. Allora occorre ricordare che Gesù, in questa parabola, ha un signicato molto molto diverso dal modo in cui noi la interpretiamo abitualmente.
Le parole di Gesù sono note, ma rileggiamole: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergato re, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”» (Lc 10,30-35).
Innanzitutto dobbiamo notare che in questa parabola non appare subito chi sia colui col quale il lettore deve identificarsi. Nelle tre parabole del capitolo 15 di Luca questo è più facile. Il lettore tende ad identificarsi con la pecora riportata in spalla all’ovile, con la moneta ritrovata e con il figlio scapestrato riaccolto con tutti gli onori, sebbene non so possa negare che il lettore possa identificarsi anche con le novantanove pecore che non si sono smarrite, con le nove monete che non si sono perdute, con il figlio maggiore che non ha mai abbandonato suo padre.
Nella parabola del buon samaritano il lettore può identificarsi con il ferito, al quale il samaritano si avvicina per soccorerlo, ma può identificarsi anche col samaritano che si china per dare una prima cura al malcapitato.
In secondo luogo, notiamo che la parabola parla di un incontro con uno sconosciuto: potrebbe essere chiunque; non ha un volto o un abito che lo renda riconoscibile. Non c’è alcun elemento che lo segnali legato a qualche clan giudaico. Non c’è una relazione affettiva come quella che esiste tra il pastore, la donna e il padre rispetto a ciò che hanno perduto. Non è detto nemmeno che l’incontro abbia prodotto grande gioia, visto che incontrarsi per caso non è il frutto di una ricerca che dilati il tempo e accresca il desiderio. Il samaritano e il giudeo poi sono nemici tradizionali; qui i giudei sono rappresentati dal sacerdote e dal levita che scansano intenzionalmente il malcapitato che non riconoscono come samaritano. Si possono capire se ricordiamo che una persona con ferite sanguinanti veniva considerata impura; però gli addetti al culto qui ricordati tornavano a casa al termine il loro servizio nel santuario nel santuario e non erano più tenuti alla purità rituale. In ogni caso una vita in pericolo ha la precedenza su tutto.
Il Vangelo dice che, dopo aver raccontato la storia, Gesù ripropone la domanda al maestro della legge, ma lo fa in modo diverso. La domanda del maestro della legge è stata: «Chi è mio prossimo?», e ora Gesù gli chiede: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». In questo confronto tipicamente rabbinico, Gesù aiuta anche noi a capire meglio il senso dei termini prossimo e misericordia. Noi siamo abituati a pensare che il prossimo sia colui che ha subito la rapina, è rimasto ferito e che giace sulla strada, cioè il bisognoso che chiede il nostro aiuto. Ma la domanda di Gesù fa capire che non ha senso cercare una definizione di prossimo come si aspettava probabilmente i suo interlocutore. Gli chiede infatti: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» Non parla affatto di fare qualcosa per il prossimo, bensì di esserlo. Questo non vuol dire che all’essere prossimo non segua un comportarsi da prossimo; in altre parole, non si nega quello che abbiamo visto all’inizio, cioè che la misericordia ci spinge a compiere certe opere. La risposta del maestro della legge è centra il problema: «Chi ha avuto compassione di lui», questi ha dimostrato di esserne il prossimo. Qui il maestro della legge non pone l’accento su ciò che fa chi ha avuto compassione dell’uomo ferito, ma sulla sua solidarietà libera da pregiudizi.
Quindi, se prestiamo attenzione alla parabola, dobbiamo cambiare le nostre idee su ciò che significa «prossimo» e su che deve spingerci alla prossimità. Gesù non parla di «fare qualcosa per il prossimo», ma di «essere prossimo» e di «comportarci da prossimo»; in altre parole, qui non dà indicazioni sulla maniera di prenderci cura di chi è bisognoso e povero, ma sul modo di essere e di sentire del nostro cuore.
Contro il nostro modo abituale di comprendere chi sa essere prossimo è il samaritano. Il fariseo e il levita che sono passati oltre evitando chi era stato ferito sono la negazione della prossimità. Poi
il prossimo non è semplicemente il «bisognoso», perché, se così fosse, non appena superata la necessità, esso scomparirebbe. Se prossimo fosse sinonimo di bisognoso, come andrebbe considerato chi non ha bisogno di aiuto? Meriterebbe un trattamento diverso? Prossimo è piuttosto colui che lascia che le sue viscere amorose si commuovano; prossimo è chi riconosce in un altro un volto – sia esso o no bisognoso – che gli da la possibilità ci crescere e di essere nell’amore. Nel caso della parabola, l’uomo ferito e malmenato è l’occasione opportuna che al samaritano viene offerta per commuoversi e riconoscersi prossimo, cioè di lasciarsi guidare dal suo sentimento di misericordia.
Questo è il motore della prossimità: i sentimenti di chi compatisce l’altro. E l’altro non deve soddisfare nessun requisito: non è necessariamente un bisognoso, non ha bisogno di essere romanticamente degno della nostra compassione. Nella nostra vita c’imbattiamo in molti volti che non sembrano «degni» di compassione.
Abbiamo detto che al samaritano viene offerto un momento opportuno, un kairos, secondo il linguaggio del Vangelo. L’incontro con l’uomo ferito e derubato é una circostanza che avvantaggia due cuori : quello del samaritano che soccorre e quello dell’uomo soccorso. La grazia non è offerta soltanto al ferito, ma Dio offre un momento di grazia anche al samaritano. Dio cerca il samaritano come cercava la pecora, la moneta, il figlio perduto. Per farlo, si serve del ferito malmenato, per risvegliare la memoria attraverso quel sentimento di compassione; «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
Così comprendiamo perché il Signore ci invita a essere misericordiosi, e non in un modo qualsiasi, ma addirittura imitando Dio: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). E la misericordia del Signore è caratterizzata dal fatto che egli è benevolo con gli ingrati e con i malvagi (Lc 6,35), che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5,45).
Se cambia la nostra idea su chi sia il prossimo, cambia anche l’idea che abbiamo della misericordia. Perché a far avvicinare il samaritano all’uomo ferito è un cuore che si commuove. E qui è importante rilevare che questo sentimento viene espresso con uno dei termini più suggestivi per esprimere la misericordia: «Vide e ne ebbe compassione [esplanchnisthe]» (Lc 10,33). Questo termine, come abbiamo già visto, in greco ha nella sua radice la parola «viscere». Si tratta di un sentimento viscerale che spinge il samaritano ad avvicinarsi al giudeo. Ma al tempo stesso, quando Gesù domanda al maestro della legge chi si sia comportato da prossimo, questi gli risponde: «Chi ha avuto compassione di lui» (Lc 10,37), usando un altro termine [éleos] che si può tradurre con «misericordia/pietà/compassione».
Qui tocchiamo il nucleo dell’insegnamento di Gesù, perché sono proprio questi i due termini che lo stesso Luca usa per esprimere il sentimento che ha spinto Dio Padre a inviare il Figlio al mondo; l’evangelista dice: «Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio E [dia splanchna eleous], ci visiterà un sole che sorge dall’alto» (Lc 1,78).
Nell’Incarnazione, è Dio a farsi prossimo per buoni e cattivi, per giusti e ingiusti, per puri e peccatori. Questo sentimento è proprio di Dio, e Gesù ce lo descrive e insegna affinché lo viviamo anche noi. È l’amore viscerale di Dio Padre, che aspetta e accoglie chi lo ha abbandonato; è l’amore viscerale di Dio Figlio, che come il buon pastore esce a cercare colui che era perduto; è l’amore viscerale dello Spirito, che «avvicina» quanti erano lontani (cfr. Ef 2,13): lontani per la distanza fisica, ma soprattutto per la distanza affettiva e morale (il samaritano era un impuro), per la distanza intellettuale quella dell’autogiustificazione, che aveva indotto il sacerdote e il levita a non «avvicinarsi», a non farsi prossimi.
Ma torniamo alla parabola del samaritano e osserviamola in un contesto più ampio. La conversazione di Gesù con il maestro della legge, che lo indurrà a raccontare la parabola, si sviluppa attraverso una serie di domande che gli sono poste dall’interlocutore (Lc 10,25.29): «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25) Gesù gli risponde, secondo un collaudato uso rabbinico (v. 26). E il maestro risponde: «Amerai il Signore tuo Dio sopra ogni cosa […1 e il tuo prossimo come te stesso».
Subito dopo, per giustificare il proprio intervento, il maestro domanda ancora: «E chi è mio prossimo?». E questo il momento in cui Gesù gli risponde raccontandogli la parabola, per offrirgli una nuova idea di prossimo e di conseguenza un’altra immagine di misericordia (cfr. Lc 10,30-37).
«Ama il prossimo», chi ti è vicino, senza porti troppe domande sulla sua identità. Devi amare il prossimo anche se non è tuo fratello, anche se non è tuo amico, anche se è proprio chi ce l’ha con te ed è contro di te! Ma perché Dio ha avuto compassione di te e si è fatto prossimo per salvarti, quando tu ne eri indegno (cfr. Ef 2,12), e ha assunto la carne per salvare la tua carne e la carne di tutti. Perché Dio ha assunto la carne di ogni uomo: ecco perché devi amare la sua carne in ogni uomo come carne di chi ti si è fatto prossimo. Perciò l’espressione «ama il prossimo come te stesso» contiene un significato cristologico ed ecclesiologico.
Se Dio si è fatto prossimo per salvarci assumendo la nostra carne (Gv 1,14), e la Chiesa è carne del corpo di Cristo (Col 1,18), io non posso essere prossimo amando il Dio che non vedo e non il fratello che vedo (1Gv 4,20). Perché chi mi sta vicino è proprio il Cristo, buon Samaritano, che ha dato la sua vita per me. E in questo modo che Dio «mi» cerca. Vuole farmi condividere con lui quei sentimenti (Fil 2,5) che conducono alla vicinanza, alla prossimità. Colui che è «ricco di misericordia» (Ef 2,4) vuole riempirmi dei suoi sentimenti di «misericordia», affinché io sia come lui o, per meglio dire, affinché mi possa riempire di lui.
Perché il Regno dei cieli, in definitiva, è ciò che Paolo insegna ai filippesi: Cristo «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fi! 3,21), ed è ciò che dice ai corinzi: alla fine il Figlio ci donerà il Padre «perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). Per questo Cristo è venuto a cercarci e si è fatto prossimo, per educarci allo spirito del Regno, a questo sentimento di amore viscerale e di misericordia, affinché si compia quanto ci ha insegnato: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).