La scommessa migliore Marta e Maria Lc 10,38-42

  di Antonio Nepi

L’episodio di Marta e Maria appartiene esclusivamente alla narrazione di Luca  e resta centrale nel dibattito tra vita attiva e contemplativa. Vogliamo apprezzarlo nella strategia narrativa lucana di plasmare il proprio lettore e di presentare la parte buona ed essenziale – senza contrapposizioni superficiali – che è il primato dell’ascolto. Innanzi tutto Dio, prima delle cose di Dio.

  1. Lo spartito del brano

L’episodio, conciso quasi come un apoftegma, risulta imperniato sul fulcro della domanda di Marta al Signore (v. 40), incorniciata da due parti parallele costruite in modo concentrico: la prima (vv. 38-40a) esposta in modo descrittivo dal narratore, che si limita a riportare indirettamente la situazione, la seconda (vv. 41-42) in modo mimetico, dove Gesù esprime la sua valutazione personale. Questo permette a Luca di adottare la figura retorica del confronto (synkrisis), tra due punti di vista. Il lettore è chiamato a scegliere tra quello di Marta e quello di Gesù (adottato da Maria), così come tra i «molti servizi» da cui è presa Marta nella prima parte (v. 40a) e l’«unica sola cosa che è necessaria» (v. 42). Marta, a prima vista, vuole accogliere il Signore, ma in realtà si occupa del servizio, mentre Maria è protesa e focalizzata su di Lui.

  1. Il contesto

Luca colloca l’episodio nel corso del “viaggio” di Gesù, che lascia la Galilea e attraversa la Samaria e cammina, deciso, verso la croce che l’attende a Gerusalemme (Lc 9,51–19,29). Gesù è accompagnato dai Dodici, dai discepoli e dalle donne (cfr. 8,1-3; 9,51-56), ma il testo parla al singolare del suo ingresso e della sua accoglienza, tralasciando il nome del villaggio, Betania, e quello del loro fratello Lazzaro (Gv 11,1) Questo risponde ad una logica di economia narrativa che evidenzia Gesù come protagonista, qui chiamato esclusivamente «Signore», chiaro epiteto post-pasquale; in risalto appaiono anche Marta e Maria, quando di solito gli interlocutori di Gesù vengono lasciati nell’anonimato e ciò attribuisce importanza alla scena. Va notato che, tra i quattro evangelisti, soltanto Luca privilegia il ruolo delle donne e delle incombenze economiche; trattando pubblicamente le donne da pari a pari, frequentandole come amiche, confidandosi con loro, Gesù si stacca radicalmente e con estrema libertà dalla tradizione ebraica ed è davvero un antidoto all’antifemminismo di un Vangelo strumentalizzato.

  1. Le due sorelle (vv. 39-40)

A Betania il maestro è accolto da donne; solitamente costoro non venivano accolte come discepole dai maestri del tempo. Entra nella loro casa: la casa è scuola di vita, il quotidiano dove la vita nasce e si conclude, dove si celebrano le sue feste, nei giorni delle lacrime e in quella della danza dei cuori. E il Vangelo deve diventare vero non ai margini della vita, ma nel cuore di essa.

Marta prende l’iniziativa di accogliere Gesù (hypodekhomai), un verbo usato solo da Luca tra gli evangelisti, che denota una ospitalità frequente e piena, una compagnia sottomessa ed entusiasta, la stessa di Zaccheo (Lc 19,6;cfr. anche At 17,7). Nella cultura orientale ospitare un forestiero o un amico era – e resta – uno dei doveri più importanti; peraltro, essere ospitato da una donna – per giunta non sposata – era un gesto sconveniente e sovversivo, perché spettava all’uomo fare gli onori di casa. Gesù ha la stanchezza del viaggio nei piedi, il dolore della gente negli occhi. Fermarsi nella frescura di una casa, mangiare e dissetarsi, rilassarsi, è un dono. Gesù è proteso verso una meta, Gerusalemme, ma lui non “passa oltre” e, quando incontra qualcuno, si ferma. Ogni incontro, ogni cuore diventa la meta.

Solo qualche attimo dopo, veniamo informati che Marta ha una sorella di nome Maria. Costei si siede accanto (parakathestheisa), che si può tradurre «stava ai piedi», dato che nella casa palestinese non esistono sedie, ma solo stuoie dove tutti si adagiano prima di mettersi a tavola (sul triclinio). Maria viene fotografata mentre ascolta il Maestro, lo lascia parlare, con un imperfetto che esprime continuità, assiduità; si tratta di un ascolto e posizione che richiamano quelle di Gv 11,29.32. Ma anche questo gesto è fortemente sovversivo, perché tipico del discepolo (At 22,3): alle donne era vietato interessarsi della Torah, ascoltare e discutere con i rabbini, essere discepole e conoscere i segreti di Dio, perché questa era una prerogativa dell’uomo; in termini di conoscenza religiosa venivano equiparate ai pagani. L’atteggiamento di Maria nasce da un intuito o fiuto di vita e sapienza, tipicamente femminile. Riconosce che quell’amico di Nazareth ha per lei una parola di vita che non deve lasciarsi sfuggire.

Marta, davvero “padrona della casa” come dice il suo nome, viene invece contrapposta alla sorella, perché «distratta/assorbita» (perispaō) dal molto servizio (diakonia, cfr. Lc 4,39). Il verbo greco indica un “disegnare attorno”, come se Marta fosse una trottola, senza mai raggiungere un centro, in uno stato di tensione e stress, causati da qualcosa che distoglie, impegna altrimenti e preoccupa. L’imperfetto può indicare che Marta aveva cominciato ad ascoltare Gesù, ma poi ne era stata distolta, per poi ritornare e poi riandarsene. Le “tante cose da fare nel servizio” la strattonano in molteplici direzioni, e Marta scarica questa frenesia su Maria, razionalizzando il suo disagio. Dapprima si appella al Signore, perché Lui, con l’autorità della parola, faccia passare Maria dalla cerchia di coloro che ascoltano a quella di coloro che servono. Ma, visto il non intervento di Gesù – ed implicitamente la non reazione di Maria, che pure ha sentito – essa si «pone avanti» (epistasa), un verbo che denota un’irruzione impaziente, un “collocarsi sopra”, un imperioso atteggiamento di superiorità e di rimprovero a tutti e due, anticonformista da parte di una donna verso un uomo, per di più rabbi (cfr. Gv 4,9). Marta si vanta implicitamente di ciò che fa; non pretende un servizio continuo da Maria anche per l’avvenire, ma almeno in questa contingenza, come fa capire l’aoristo congiuntivo synantilábētai («venga a coadiuvarmi», un verbo riservato allo Spirito Santo).

  1. La valutazione di Gesù (vv. 41-42)

Gesù interpella Marta con un richiamo importante, come avviene in casi di duplice ripetizione del nome, che esprime affetto, dolcezza ed una familiarità, che non può essere recente. Marta è dipinta con due verbi forti: 1. in preda ad un affanno, un ondeggiamento (merimnao), un verbo che ricorre in Lc 12,22 significa non lasciarsi strattonare dalle preoccupazioni; 2. turbata (thorybazō), altro verbo che deriva da un tumulto o vociare che non concede attimi di silenzio, anzi stordisce e frastorna. Marta è accogliente, ospitale come un servo solerte e attento davanti nell’aspettare il padrone; però poi quasi dimentica chi ha in casa. Stabilisce e decide come il Signore dovrebbe intervenire a risolvere i suoi problemi: è il protagonismo che si impadronisce del proprio servizio. Marta non sarà rimproverata dal Signore per il servizio che fa, ma per come lo fa, per il suo protagonismo, per la pretesa di imporre la propria volontà. Gesù chiede a Marta di concentrarsi sull’essenziale, su una cosa sola, perché perdersi tra mille cose la porta a perdere sé stessa e ciò che conta e vale davvero.

Marta sceglie le cose di Dio, ma non Dio…Gesù non può dare ragione a Marta, ma a Maria, perché Maria ha capito che c’è bisogno di un’unica cosa, mentre tutto il resto è secondario. Il cardine su cui devono ruotare i molti servizi ed incombenze è l’ascolto della Parola. In tal senso Maria ha scelto la «parte buona» (tēn agathēn merida), un termine che rinvia alla parte ereditaria (Sal 16,5-6) e che, per la tradizione rabbinica contenuta nel Talmud di Gerusalemme, equivaleva allo studio della Torah. Tale parte «non le sarà certo tolta», un verbo che indica un’azione divina che avverrà con sicurezza per l’eternità. La «parte buona» coincide con quella necessaria, perché in gioco non c’è quel che è meglio e quel che non lo è, ma ciò che è indispensabile e fondante (la Chiesa e l’autentica diaconia). Il brano termine con la scelta sapienzialmente allitterata di due punti di vista: o l’eredità (merìs) cercata da Maria, o la preoccupazione (merìmna) in cui incappa Marta.

Come in altri racconti, qui la finale resta aperta, priva il lettore dell’esito della storia e lo obbliga a focalizzarsi sul comportamento delle due donne e a prendere posizione dopo una ponderazione degli eventi, come nel caso della parabola del Padre e i due figli (Lc 15) o di Giona!

Il lettore può notare come il nostro episodio si inserisca nell’intrigo unificante di Lc 10,25-42. La domanda “chi è il mio prossimo” sollevata dal dottore della Legge trova la sua risposta nella parabola del buon Samaritano, che “opera” in termini di compassione concreta. Marta e Maria si inscrivono nel quadro di una discussione che pone un’alternativa, tra diaconia ed ascolto della Parola. I due racconti/incontri sono un duplice commento al duplice comandamento dell’amore: per poter ben fare, bisogna ascoltare. La «parte buona» è quella di essere suo discepolo, cioè assiso ai piedi di Gesù per ascoltarlo. Farsi prossimo di Gesù!

  1. «Marta in navigazione, Maria in porto» (S. Agostino)

Agli occhi del lettore Gesù che si reca in un anonimo villaggio appare come il modello del missionario itinerante accolto per il suo annuncio (Lc 9,5.48), ospite e convitato, come appare nel libro degli Atti. Il lettore lucano può fare esperienza di Gesù non direttamente come Marta e Maria, ma mediante la catechesi (Lc 1,4) e la liturgia. Non può accogliere fisicamente Gesù, ma può accoglierlo ed ascoltarlo nella sua parola come il Signore anche dopo la sua morte e risurrezione.

Indubbiamente dal rimprovero indispettito di Marta emerge una tensione tra due atteggiamenti diversi dinanzi al comune compito dell’evangelizzazione, tra una diaconia concreta ed un ascolto della Parola, che troviamo nella questione che attanaglia la chiesa protocristiana in At 6,1-4. Marta è la personificazione di chi tende a regolamentare, a ridurre sotto controllo non solo Maria, ma anche Gesù, pensando di servire il Signore, anziché essere serviti da Lui; essa può ispirarsi all’autorità d’azione di Maria di Magdala, Giovanna, Susanna, che accompagnavano il gruppo apostolico (Lc 8,2-3). È paradigma di quelle donne/uomini convinti che il loro ruolo indispensabile nella predicazione del regno sia primariamente di natura concreta, economica, sociale.  Marta crede di autorealizzarsi e vive sulle aspettative ed approvazioni degli altri (Pro 31), nella logica del “si deve fare”, che la costringe all’affanno e ad una frenesia che le fa perdere la giusta direzione. L’urgenza apparentemente fa sentire vivi, in realtà svuota, perché prende il sopravvento sull’ospite.

Maria è la donna silenziosa, dimentica di sé stessa, discepola dell’ascolto dell’annuncio di grazia inatteso che rallegra i piccoli (10,21), una donna “unificata” o “semplice” anziché frammentata dalle molte cose da fare; e l’unità si riceve da Dio, l’unico necessario, anziché da sé stessi (Sal 86,11). Nel libro degli Atti un’altra donna che le corrisponde è senza dubbio Lidia, che è “tutta orecchie”, prima di costringere Paolo e i suoi compagni a stare in casa (At 16,13-15). L’accoglienza della parola apre all’accoglienza delle persone, giacché il primo comandamento comporta ineludibilmente il secondo. Non è il caso di vedere in Maria il paradigma delle donne dedite all’insegnamento, bensì quanti e quante nel loro servizio – quello della carità come quello della predicazione – si premurano di avere un ascolto intimo e coinvolgente. Ma la risposta di Gesù mediata dal narratore è quella di evitare una autoreferenzialità nel servizio, qualificando come “buona, adeguata” la dedizione tutta intenta alla Parola, che coincide con la beatitudine del discepolo (10,22-23).

Nella tradizione patristica e monastica Marta e Maria sono diventate i tipi della “vita attiva” e della “vita contemplativa” e con Martin Lutero rappresentarono la giustificazione mediante le opere, contrapposta alla giustificazione mediante la fede. Però si tratta di una antitesi che non appartiene al vangelo lucano e al giudaismo, ma che proviene da altre culture filosofiche. Quando i Padri parlavano di vita attiva, indicavano il primo momento del cammino di fede, che chiamavano “ascesi”, per poi passare alla vita contemplativa, che è quella di uomini nuovi. Il contrasto non è tra servizio ed ascolto della Parola, ma tra ascolto attento ed una serie di occupazioni che distraggono da Gesù ed impediscono un genuino ed intenso ascolto della Parola. Tale ascolto non ha nulla a che fare con una contemplazione oziosa e parassitaria, ma sfocia nell’azione concreta. Occorre restare attenti ad affanni pur motivati pastoralmente, che però alla fine diventano trappole che ti sgretolano o ti fagocitano. Dio non desidera servitori, ma amici; non cerca chi lavora per Lui, ma chi si lascia da Lui lavorare.

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