Letture festive – 171. Perfezione – 31a domenica del Tempo ordinario – Anno B
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
31a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 3 novembre 2024
Dal libro del Deuteronòmio – Dt 6,2-6
Dalla lettera agli Ebrei – Eb 7,23-28
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 12,28b-34
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letture festive 171
Sembra che in questo passo del Deuteronomio la perfezione religiosa venga fatta coincidere con qualcosa di totalizzante, a cui il testo cerca di condurre attraverso l’insistente ripetizione delle parole tutti e tutto: tutti i giorni, tutte le leggi, tutti i comandi, tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze. Come lettori odierni con Dio o senza Dio di questa pagina veterotestamentaria potremmo provare sensazioni ambivalenti: da una parte, infatti, l’ideale di una perfezione unificante e totalizzante, alla quale condurre la propria esistenza per darle compimento, ha caratterizzato da sempre molte tradizioni religiose, inclusa quella cristiana cattolica. Dall’altra parte, però, gli ideali unificanti e totalizzanti suscitano anche una comprensibile diffidenza, soprattutto se si considerano le storture, le mistificazioni e perfino gli abusi di vario genere che nella Chiesa sono stati messi in atto in qualche caso da personalità carismatiche e in nome di ideali religiosi unificanti e totalizzanti. Come lettori con Dio o senza Dio potremmo allora riconoscere che questo orientarsi del vissuto credente verso ciò che pretende di essere totalizzante deve essere sottoposto a un intelligente discernimento umano e spirituale per poter produrre frutti buoni e non effetti perversi. Anche per questo il comandamento è preceduto dall’invito ad ascoltare, un ascolto che potremmo interpretare come rivolto a tutte le diverse voci sapienti e sagge che possono aiutare l’intelligenza a capire meglio, per poi mettere in pratica con sapienza e saggezza. In questo senso, le leggi e i comandi, anche quelli contenuti nei testi biblici, prima di essere osservati, tutti e per tutti i giorni della vita, dovrebbero essere tutti compresi e correttamente interpretati o anche re-interpretati e ri-formulati, in quei contesti e in quei giorni della vita nei quali ciò risultasse necessario. Lo stesso precetto di amare Dio si presenta formulato in modo paradossale, dal momento che un investimento davvero totale del cuore, dell’anima e delle forze nell’amare Dio sembrerebbe non lasciare spazio a nessun altro amore, neppure quello verso il prossimo, che pure viene prescritto dalle stesse leggi e dagli stessi comandamenti divini. Vi è quindi evidentemente un modo inadeguato di intendere il carattere unificante e totalizzante della perfezione richiesta dal testo biblico ai suoi lettori credenti. Anche in questi casi solo un intelligente discernimento umano e spirituale potrà indicare al cuore, all’anima e alle forze di con Dio e di senza Dio quali siano le vie per amare in un modo che sia non solo autentico e profondo, ma anche realistico e sostenibile. L’aspirazione alla perfezione religiosa, infatti, se si lascia dominare dalla retorica e dall’entusiasmo, davanti a un comandamento che pretende tutto il cuore, tutta l’anima e tutte le forze, rischia facilmente di risolversi in un fallimento, perché dimentica che l’amore – a chiunque sia rivolto – o è (anche) realistico e sostenibile o non è davvero amore. E solo un amore realistico e sostenibile può davvero mantenere le promesse che questa pagina biblica rivolge a noi suoi lettori con Dio o senza Dio: prolungare i nostri giorni buoni, condurci alla felicità, renderci fecondi su una terra dove ogni vita possa trovare in modo sovrabbondante il proprio nutrimento.
La perfezione della salvezza secondo la lettera agli Ebrei proviene da qualcuno – il Cristo – che viene rappresentato dall’autore neotestamentario come in una condizione del tutto diversa rispetto a quella di coloro che sono bisognosi di salvezza. La sua condizione, inoltre, è diversa da quella delle altre figure – i sacerdoti appartenenti al popolo ebraico – incaricate di svolgere una funzione in certo modo salvifica. L’unico Cristo, infatti, a differenza dei numerosi sacerdoti che sono mortali come tutti gli umani, resta vivo per sempre per poter intercedere e in questo senso possiede un sacerdozio che non tramonta. Oltre all’immortalità anche tutte le altre sue caratteristiche che vengono elencate lo differenziano rispetto alla condizione umana: egli, infatti, viene descritto come santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Questa perfezione eterna del Figlio viene contrapposta dall’autore della lettera alla debolezza dei sommi sacerdoti umani, rispetto ai quali la differenza fondamentale riguarda proprio quella sua specifica e unica modalità con la quale esercita il proprio sacerdozio. Questa differenza si concretizza, da una parte, nel non aver bisogno di offrire sacrifici per i propri peccati – essendo senza peccato – e dall’altra nel non dover ripetere più volte gli stessi sacrifici, perché ha offerto un’unica volta per tutte sé stesso come offerta sacrificale ultima e definitiva. Come lettori odierni con Dio o senza Dio di questa pagina neotestamentaria potremmo essere colpiti da quanto questa interpretazione teologica della figura di Gesù e del suo modo di essere salvatore sembri distante da buona parte delle narrazioni evangeliche e in particolare di quelle sinottiche. Le narrazioni dei vangeli, infatti, sono ben lontane dal rappresentare Gesù come il perfetto sommo sacerdote celeste che sostituisce i sommi sacerdoti umani nel condurre gli umani alla salvezza. Tutto ciò conferma come all’interno del Nuovo Testamento i modi di intendere l’ideale religioso della perfezione – compresa quella attribuita a Gesù – risultino molto diversi tra loro. Ne potrebbe derivare che possano essere diverse tra loro anche le preferenze – ma in realtà le stesse specifiche esigenze – dei singoli credenti rispetto a questi diversi modi di intendere l’ideale religioso della perfezione. Sarebbe così legittimata in questo ambito – e cioè nel modo di intendere la perfezione religiosa – una pluralità di interpretazioni, di teologie e di spiritualità. Da una parte, infatti, tanto fra i con Dio quanto tra i senza Dio, vi possono essere coloro che anche oggi apprezzano maggiormente (come l’autore della lettera agli Ebrei) la perfezione di un Cristo che salva attraverso la sua radicale differenza, distanza e superiorità. Dall’altra parte, invece, tanto fra i con Dio quanto tra i senza Dio, vi possono essere coloro che anche oggi apprezzano maggiormente nella figura di Gesù quella forma di perfezione salvifica che viene rappresentata nel suo farsi prossimo agli umani attraverso una profonda somiglianza, vicinanza e capacità di condividere la medesima condizione.
In questo testo di Marco, attraverso il dialogo tra Gesù e lo scriba-teologo che gli pone un quesito, il raggiungimento della perfezione viene in qualche modo a coincidere con il discernimento e l’individuazione – per poi metterlo in pratica – di quale sia il primo di tutti comandamenti. In quanto lettori provenienti da due millenni di cristianesimo nei quali la centralità del comandamento dell’amore è diventata uno slogan spesso poco efficace, per noi odierni con Dio o senza Dio è difficile cogliere fino in fondo il significato di questa domanda senza considerarne il contesto storico-religioso. Per l’ebraismo del primo secolo, infatti, il problema di un’organizzazione gerarchica dei numerosi precetti religiosi e della molteplicità di interpretazioni che se ne potevano dare era un argomento non privo di importanza. Ciò spiega, da una parte, la domanda che lo scriba-teologo pone a Gesù ma, dall’altra parte, invita noi lettori con Dio o senza Dio a interrogarci su quale significato possa avere nei nostri attuali contesti religiosi il porre questo tipo di domanda. A ben vedere, anche nei nostri contesti religiosi cattolici ci troviamo di fronte una grande quantità di precetti e a una molteplicità di interpretazioni che ne possono essere date. In questo senso la perfezione cristiana potrebbe consistere anche per noi credenti con Dio o senza Dio nella capacità, in una molteplicità non sempre ben organizzata, di cogliere – per poi metterlo in pratica – ciò che è realmente essenziale, ricollegando e subordinando a questo ciò che invece è secondario o periferico. Nel porsi da questo punto di vista e nell’adottare questo approccio, le difficoltà maggiori potrebbero derivare dal fatto che ciascuno di noi, in realtà, ha già una propria e personale strutturazione gerarchica dei precetti e dei comandi etici e religiosi che – pur avendo un profondo radicamento emotivo e affettivo – spesso rimane a livello implicito, non chiaramente tematizzato e quindi neppure sottoposto a critica. Proprio per questo può risultare importante anche per noi porci la stessa domanda dello scriba-teologo e lasciarci interpellare dalla risposta di Gesù. Anche se in modi che saranno probabilmente diversi per con Dio e per senza Dio, potremo allora anzitutto ascoltare – perché questo è in realtà il primo comandamento! – e provare ad ascoltare davvero in modo attento, paziente e profondo quello che il Gesù di Marco presenta come un primo ma in realtà duplice comandamento. Solo attraverso questo ascolto attento, paziente e profondo la parola evangelica potrà raggiungere e provocare, destrutturare e modificare. Perché ciò deve poter avvenire di quella implicita gerarchia dei precetti e dei comandi etici e religiosi che ciascuno di noi ha costruito nel corso della propria esistenza, ritenendola magari ormai immodificabile. Solo dopo aver accettato – come con Dio o come senza Dio – di compiere questa operazione faticosa e forse spiazzante e dolorosa potremo sentirci dire dal Gesù di Marco che non siamo lontani dal tempo e dal luogo dove l’amore può in tanti modi diversi finalmente regnare.