Il poker dei patriarchi d’Israele Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe

  di Antonio Nepi

1. Introduzione

I racconti delle origini collocano le origini di Israele nel campo universale dell’umanità. Israele ha il suo diritto di esistere come tutti gli altri popoli. A partire da Gn 11,26 sino a Gn 50, la storia da cosmica e internazionale si focalizza su quella etnica degli antenati del popolo d’Israele: Abramo, Isacco e Giacobbe ci possiamo aggiungere Giuseppe il patriarca della Diaspora in Egitto.
In questa breve panoramica dei padri d’Israele attingiamo a tre grandi autori quali E. Blum, J. L. Ska e Th. Römer.

Va anzitutto notato che i testi che leggiamo sono frutto di più riletture ed aggiunte, o al con-trario accantonamento di tradizioni antiche, la cui stesura finale è sicuramente tardiva (dal periodo persiano, a quello ellenistico, finanche asmoneo) Diversamente da altri popoli come hanno un solo antenato eponimo (Ellas, Teucro, Acheo, Romolo, Canaan, Ismaele, Esau…), il futuro popolo d’Israele ne ha tre. Questa triade patriarcale Abramo-Isacco-Giacobbe si spiega per il fatto che la benedizione passa individualmente; dopo Giacobbe, la benedizione riguarda tutti i suoi figli o tribù, che costituiscono Israele. Diversamente da altri popoli che prendono il nome dall’eponimo, il primo antenato d’Israele è Abramo, mentre Israele è il secondo nome di Giacobbe (Gn 32,23). Un’obiezione prevedibile potrebbe essere quella secondo cui dato che la stesura finale avviene nell’ex regno di Giuda, ciò poteva essere un ridimensionamento polemico; tuttavia, non viene scel-to Giuda, che è figlio di Giacobbe. Il primo antenato di Israele non è neppure il fondatore della ca-pitale Gerusalemme, in cui invece figura un misterioso Melkisedeq (Gn 14).
Le storie patriarcali offrono la prima storia di “una definizione di Israele”. Detto altrimenti il solo Israele è quello che nasce dai patriarchi e non da Lot, Ismaele o Esaù.
Un elemento ricorrente nella storia di questi tre è il tema tipico del conflitto con parenti (Abramo/Lot) e con fratelli (Isacco/Ismaele, Giacobbe/Esau/Labano), per poi concludersi con il conflitto tra Giuseppe e i fratelli. Il lettore si accorgerà che i “padri” (’ābôt) risultano figure positive quando c’è l’offerta gratuita di Dio, mentre appaiono sotto una luce negativa quando si tratta della fedeltà incrinate del popolo all’alleanza. Se in Genesi ed Esodo corrispondono ai patriarchi, in Deu-teronomio il termine fa riferimento ai padri dell’esperienza dell’esodo nel deserto.
Un altro tema saliente dei cicli patriarcali è quello della terra. Viene promessa da Dio, abitata dai patriarchi che vi soggiornano come stranieri, in attesa del pieno possesso. Si precisa senza dubbi che la terra promessa è quella di Canaan.
Collegato alla terra, e al motivo degli itinerari, c’è il diverso rapporto di ogni rispettivo pa-triarca con Canaan; Abramo è il capostipite che proviene da un’altra terra (Mesopotamia) e giunge alla terra promessa su mandato e indicazione di Yhwh (Gn 12,1-4): Isacco è decisamente stanziale, l’unico che non si muove dalla propria terra su indicazione divina (Gn 26,2-5). Giacobbe è il pa-triarca che nato nella terra, vive venti anni di esilio come straniero (ger) in Mesopotamia, poi rien-tra in Canaan provvisoriamente, e conclude i suoi giorni in terra di Egitto sempre su autorizzazione divina (46,1-5). A ciò possiamo aggiungere, anche se non rientra nella triade, la vicenda di Giusep-pe: nato nella terra, scende in Egitto, per poi esservi temporaneamente sepolto, ma nell’attesa, die-tro promessa, che le sue ossa ritornino nella terra promessa. Questo si spiega per la credenza ancora vigente presso gli Ebrei che solo la sepoltura sancisce l’eredità della terra.

2. Abramo

Al di fuori della Genesi Abramo non compare prima del VI secolo, in particolare menzionato nelle profezie del Deutero-Isaia (29,22;41,8; 51,2; 63,13), di Geremia (33,26) ed Ezechiele (33,24). Risulta quindi tardivo rispetto ad altri patriarchi, come ad esempio Giacobbe noto ad Osea (Os 12,1-15). In alcuni oracoli l’allusione ad Abramo è polemica, perché appare il patriarca addotto dai restati nella terra, cioè i non deportati, durante l’Esilio, come avallo per rivendicare il possesso del paese. Poi invece passa ad essere l’eroe di quanti ritornavano dalla Golah. Poi diventa anche il sim-bolo che rappresenta la Diaspora, perché come i giudei che vivono al di fuori della terra promessa egli è un gēr, tra i figli di Het (=rappresentanti del mondo delle nazioni, Gn 23,4). Un tragitto che da criterio di divisione, diventa fattore unificante. Abramo è il patriarca ecumenico per eccellenza (J.L. Ska).
Abramo è al tempo stesso un autoctono, che si muove da accampamento in accampamento (Gn 12,6-9; 13,3) e traccia i confini dove stanziare, e un nomade, la cui ricchezza è l’orizzonte della promessa: discendenza e terra. Il compimento non rientra nelle strategie umane, in questa famiglia un po’ strana, dove i padri muoiono prima dei figli, le nuore sono sterili, e si cercano escamotages.
Abramo visse 175 anni: la sua nascita è accennata in 11,26, la morte in 25,7. Il tempo del racconto si sofferma sui 25 anni che intercorrono tra la sua chiamata a 75 e la nascita di Isacco a 100. Questo per mettere in risalto l’attesa, che nasce da una promessa.
I motivi della scelta di Abramo possono essere diversi e compenetrarsi.
Anzitutto in tre testi troviamo la figura del patriarca come modello da seguire; in Gn 18,17-19 egli viene proposto come pedagogo per le generazioni future in virtù della sua osservanza della Legge. In 22,15-18 la sua fedeltà fonda l’avvenire del popolo, la garanzia del futuro incrollabile di Israele: In Gn 26,2-5, un oracolo rivolto ad Isacco ribadisce la connessione tra l’obbedienza di Abramo e il popolo, per cui i suoi meriti garantiscono il futuro di Israele.
La superiorità del Sud. Abramo è legato piuttosto ad Hebron (vicino Gerusalemme), una città che ha un vantaggio che Gerusalemme non ha: quella di non essere mai stata conquistata, quindi, secondo la mentalità antica, svergognata o squalificata. Abramo quindi ha una fedina penale pulita, un passato senza macchia, proveniva da un luogo noto in Giuda (cfr. Ez 33,24), quindi un ottimo rappresentante della superiorità di Giuda rispetto ad altri abitanti e popolazioni al tempo dell’esilio.
Abramo roccia della fede d’Israele. Abramo, poi, era il destinatario delle promesse divine in una situazione di sterilità, di vita errabonda e spossessata (Gn 17 e 17). E il primo patriarca (dopo Agar!) che vede Dio e crede alle promesse di Dio (Gn 15), il primo profeta (Gn 20), il primo sacer-dote a costruire altari e compiere sacrifici e ad invocare il nome del Signore (Gn 12,7). Fatto impor-tante, è il primo ad osservare la Legge prima di Mosè (decima in Gn 14,20; 17; 26,5 Inoltre la sua prima alleanza era incondizionata, unilaterale, perché poggiava solo sulla fedeltà di Dio. Rappre-sentava dunque una roccia (Is 51), un fondamento incrollabile, non condizionato da tradimenti, per-ché Dio stesso si era impegnato.
Paradigma del vissuto d’Israele. I racconti su Abramo simboleggiano l’esistenza di Israele. Il patriarca infatti precorre/ripercorre tutti i luoghi e gli itinerari salienti del popolo d’Israele. Come gli esiliati viene/ritorna dalla Mesopotamia, da Ur dei Caldei. Costretto ad andare in Egitto, quindi come i figli di Giacobbe cercare cibo, ma essere insidiato, e vivere il suo esodo. Visita tutti i luoghi più importanti della terra promessa, apponendo il sigillo del suo possesso, ma anche dimostrando che nessun sito possiede l’esclusiva di avere Abramo come padre. Questo da Nord (Sichem, Bet El) a Sud (Hebron e Salem=Gerusalemme). Egli accoglie anche Agar, una egiziana e pratica l’ospitalità: Giustamente è stato definito un patriarca ecumenico. Uomo della prova. Anzitutto, deve uscire ad una certa età e lasciare il suo paese di origine, affrontando percorsi ed orizzonti scono-sciuti.
Abramo è anche l’uomo che si mette a confronto con l’altro in modo complesso. Positiva-mente accoglie varie persone e popoli, aprendo la promessa a Ismaele. Negativamente cerca di sup-plire alla mancanza, ma Dio lo spiazza. Egli inscrive i Giudei nell’orizzonte dell’universalità.

La formazione del ciclo in chiave diacronica

È impossibile ritornare all’Abramo storico, ma questo non significa che non sia esistito alme-no nella memoria. Gli antichi non inventavano, ma rimaneggiavano in funzione delle istanze dell’epoca di stesura. Secondo T. Römer, la formazione del ciclo avvenne nelle seguenti fasi:
VIII –VII s. nella regione di Hebron circolavano racconti su un certo Abramo, un ricco pro-prietario ed allevatore di piccolo bestiame.
VI s.: epoca babilonese; questi racconti furono riuniti. Abramo appare un personaggio di Canaan cui si appellano i Giudei che non erano stati esiliati, per rivendicare e legittimare il loro di-ritto alla terra. Questo documento precede una prima versione composta da:12,10-20; 13; 16; 18,1-16; 19; 21. Tali racconti vennero rimaneggiati.
VI-IV s.: epoca persiana, Una corrente P autrice di una storia sulle origini del mondo inclu-se una storia di Abramo centrata sull’alleanza, circoncisione, sulla nascita di Isacco e il campo di Macpela, Abramo viene valorizzato come un personaggio di origine mesopotamica figura dei redu-ci dall’Esilio Babilonese. I testi tipici sono: Gn 17; 21,1-5; Gn 23.
Redattore ecumenico epoca persiana: combina i testi in un solo documento, ma introduce delle modificazioni. Abramo viene presentato come un autentico credente, un modello di obbedien-za; parte senza esitare e si dimostra pronto a sacrificare il suo figlio unico. Anche Egli in modo an-ticipatorio è chiamato ad insegnare l Legge e risulta messo in parallelismo con Giacobbe e i suoi itinerari (12- 13). I testi Gn 12,1-4; Gn 18,17-33; Gn 22.
Testi più tardivi: epoca persiana. Sono testi che vengono aggiunti come Gn 13;24 e 15 il più recente. Gn 15 è una sorta di riassunto dell’intera Torah e forse fa parte di una redazione finale.
«Abramo mio amico» (Is 41,8), definizione ripresa da Gc 2,23 e adattata da Corano (s.4, v.125): Al Khalil, nome della sua tomba ad Hebron) Il ciclo narrativo a lui dedicato è composito, una sorta di patchwork (A. Wènin), ma il filo rosso che unisce gli episodi è la personalità stessa di Abramo. Mentre quello di Giacobbe è scandito dagli spostamenti, quello del primo patriarca è un’evoluzione complessa che conduce Abram ad essere Abramo. Dalla benedizione iniziale (12,1-4), alla benedizione finale (24,35-36). Ogni tanto si riaffaccia Sara.

3. Isacco

Isacco è il patriarca con un impatto meno forte, che impallidisce a confronto con suo padre e suo figlio. Appare quasi esclusivamente nella triade; solo Am 7,9.16 lo menziona da solo (il passo tardivo di 1 Cr 1,28.34 presuppone la triade). Il nome varia; Yishaq (110x e Yishaq 4x) etimologi-camente significa “ridere, divertirsi, irridere” e può essere tronco del nome divino. Al contrario di Giacobbe, o Abram non è attestato altrove (Thompson, 136). Egli interessa più per la funzione pa-rentale, che per le sue avventure. Il riso ricorre in passi precisi come Gn 17,17; 18,12; 21,6.9; 26,8. La nascita di Isacco viene annunciata per 2x; in Gn 17 Dio annuncia che in aggiunta a Ismaele Sarà partorirà un figlio che Abramo chiamerà Isacco. Egli nasce quando Abramo ha cento anni e Sara novanta. La sua nascita inaugura paradigmaticamente il topos della madre sterile che riceve un fi-glio dal Signore, Isacco fu il primo ad essere circonciso a otto giorni secondo il comando di Dio (Gn 21,4; 17,12).
Saliente è il suo conflitto con Ismaele, l’altro figlio di Abramo, ma a vincere è lui, per dise-gno divino (figlio della promessa) e per agire umano (le trame di Sara). Fin dall’inizio, sembra qua-si lasciar agire altri e solo in Gn 26 agisce quasi da solo. Viaggia con sua moglie Rebecca, un ma-trimonio pianificato da suo padre, Isacco appare collegato sempre ai pozzi curiosamente il pozzo che lo vede protagonista è quello di Lacai-Roi (Gn 24,62), lo stesso dove Hagar aveva ricevuto l’annuncio della nascita di Ismaele I Per alcuni, le due figure probabilmente erano la stessa, o che Isacco abbia sostituito o si sia sovrapposto a Ismaele. Il ruolo di Isacco è quello di fungere da para-digma di chi è vissuto o restato sempre nella terra promessa a differenza di Abramo e Giacobbe, il primo proveniente dalla Mesopotamia, il secondo fuggito lì e poi tornato. In Gn 25 abbiamo Isacco e Ismaele insieme nel seppellire loro padre. Un testo eloquente è proprio Gn 26 dove dinanzi alla carestia, Isacco poteva ricalcare le orme di Abramo recandosi in Egitto (Gn 12,10), ma Dio gli dice di restare (Gn 26,2-5). Pertanto il ruolo di Isacco è quello di essere l’unico patriarca che dà pieno diritto al possesso della terra perché non l’ha mai lasciata Il secondo annuncio avviene in Gn 18, durante la visita dei misteriosi ospiti. In Gn 21 abbiamo un annuncio poi seguito da una sorta di mi-drash. Dopo la legatura di Gn 22, dove Isacco appare l’unico, amato, non ricompare mai accanto a Abramo. In Gn 24 troviamo l’incarico di Abramo al servo di procurare una moglie.
Nel racconto della morte di Abramo, scritto dalla penna di P, Isacco ed Ismaele appaiono in-sieme. Ma Abramo benedice Isacco e sgombra la scena dagli altri figli. Isacco riceve i suoi beni, gli altri figli avuti da Qetura vengono congedati con doni.
Il problema di Isacco, è la sterilità di sua moglie Rebecca, che viene risolto per la supplica di Isacco, sessantenne, al Signore. Rebecca partorisce due gemelli Esau e Giacobbe. Subito nasce una tensione poi un conflitto tra i due. Chiara è la preferenza di Isacco per il suo primogenito Esau, un abile cacciatore, sanguigno ed abitante delle steppe, mentre Rebecca predilige Giacobbe un uomo tranquillo e abitante delle tende. Isacco viene dipinto prima come ghiotto, amante della cacciagione, poi quasi cieco. Due storie parallele incorniciano la permanenza di Isacco a Gerar, e narrano come l’astuto Giacobbe beffa suo fratello Esau, o meglio lo soppianta, come era stato sin dal senso ma-terno. Nella prima (Gn 25,29-34) Esau svende il diritto di primogenitura per un piatto di minestra di lenticchie rossa, da cui l’etimologia del suo nome Edom =rosso. Nella seconda (Gn 27) Giacobbe su istigazione di sua madre Rebecca, da cui impara l’astuzia, si traveste e si spaccia per Esau ru-bando la benedizione del primogenito.
La partenza di Giacobbe viene spiegata in due modi. In 27,42 è Rebecca far fuggire Giacobbe presso Labano per sottrarlo alla vendetta di Esau, mentre in 28,1-9 (P) è Isacco a inviare Giacobbe da Labano. Nel primo caso la benedizione appare rubata, nel secondo appare una iniziativa di Isac-co. La morte di Isacco viene accennata in Gn 3,28-29. Egli visse 180 anni, muore a Hebron identi-ficata con Mamre come Abramo, seppellito dai suoi due figli gemelli Esau e Giacobbe. Solo in Gn 26 il personaggio di Isacco gode di una certa autonomia, con una maggiore attenzione rispetto ad altri in cui sembra vivere in modo passivo. Abbiamo tre episodi che richiamano le vicende di Abramo, tra loro collegati dal personaggio di Abimelek re di Gerar. Il primo (26,1-14a) sembra ri-calcare Gn 12,10-20; e Gn 20. Ma quando Abimelek vede Isacco “scherzare” (meṣaḥēq) con Re-becca, non lo espelle, ma lo protegge. Da qui in poi Isacco appare un uomo ricco sotto vari aspetti In 26, 14b–22 Isacco entra in conflitto con i pastori filistei riguardo l’uso di diversi pozzi2.2. In Gn 26,18-32 sono i servi d’Isacco a dirimere la querelle del racconto, che vede il loro padrone, osteg-giato dai Filistei, costretto a peregrinare per il motivo popolare della «contesa del pozzo», sancendo la peripéteia con la notizia di aver trovato finalmente l’acqua (v.32). Se da un lato servono a con-fermare la benedizione divina su Isacco alla stregua d’Abramo (Gn 21,31), dall’altro il narratore se ne serve per evidenziare la particolarità e parimenti la non consequenzialità della successione di questi racconti come si trovano nel testo attuale di Genesi. Oltre a ciò sono il comodo appiglio per fondare un’altra eziologia del toponimo Bersabea, che forse era originariamente «pozzo dell’abbondanza», accanto a quella offerta in Gn 21,30-32, la quale si rifà a «sette» e «giuramento».

4. Giacobbe

Indubbiamente Giacobbe è il patriarca più vivace, più intraprendente, sanguigno come suo fratello Esau, sicuramente l’Odisseo biblico per la sua astuzia e versatilità, con una spiccata ambi-valenza, quasi equivalente a quella del re David. Gn 25,19. 35,15 racconta il suo viaggio. Astuto, passionale. Parte senza nulla e riorna ricco, di bene e di figli. La sua vicenda passa da conflitto in conflitto. Giacobbe è una figura assai collegata al regno del Nord, perché ne parla Os 12. Risulta collegato anche ai santuari maggiori. Mentre Abramo è moralmente ineccepibile, con qualche cadu-ta e tentativo di difendere la propria pelle (Gn 12,10-29) arginare i ritardi di Dio (Gn 15,3), Giacob-be è meno edificante. La sua virtù è la scaltrezza con cui persegue i suoi obiettivi, dove gli altri ricorrono alla forza, anche se una nota accenna la sua possanza nell’episodio della pietra del pozzo sollevata in modo titanico (Gn 29). È un classico eroe popolare, come un Guglielmo Tell.
Anche Giacobbe appare un paradigma della storia di Israele. Ripercorre le orme di suo nonno Abramo (trascorre 20 anni a Carran), poi in Mesopotamia, poi in Egitto, per farsi seppellire però nella terra promessa. Egli diversamente dal nonno Abramo è costretto a lavorare. Un testo-chiave è Gn 28,15 dove il lettore coglie in Giacobbe il precursore del popolo che andrà in esilio. Altro testo-chiave è Gn 46,1-4, perché si preannuncia a Giacobbe la sua morte in Egitto, mentre sarà la grande nazione che risalirà dall’Egitto. Giacobbe, pertanto, è l’antenato eponimo di Israele. Il vertice della sua esperienza di fede è la lotta di Giacobbe allo Iabboq, dove l’essere misterioso lo colpisce al fe-more; il popolo che scende e risale dall’Egitto è quello delle 12 tribù uscite da quel femore. Le sue avventure, originariamente trasmesse come patrimonio della tradizione di una tribù, giunsero poi a competere con Abramo per il ruolo di chi fosse il progenitore d’Israele.

5 Giuseppe

Giuseppe è un antenato a sé stante, non annoverato nella triade tradizionale. Il ciclo narrativo a lui consacrato si distingue dal resto del Pentateuco per la sua raffinatezza letteraria, per lo scavo psicologico più approfondito nel caratterizzare i personaggi e per l’elaborazione della trama, che non è più quella del racconto popolare, ma della novella di corte. Dal punto di vista teologico, risal-tano tre aspetti fondamentali. Anzitutto YHWH non appare nella trama, ed interviene di fatto solo in un episodio (Gn 39,2-5-1), ma mai in un discorso diretto al protagonista, come accade per Abra-mo o Giacobbe. La comparsa divina non è invadente, ma sempre dietro le quinte, d è un indizio di una sensibilità più tardiva. Secondo, non risultano più menzionate le promesse di Dio ai patriarchi, ad eccezione di due inserzioni tardive: la prima in una apparizione di Dio a Giacobbe (Gn 46,1-5), l’unico passo in cui Dio compare sulla scena, e la seconda proprio alla fine del ciclo di Giuseppe (50,24-25). Terzo, la situazione di chi vive nella diaspora che espone un inedito umanesimo prag-matico. Giuseppe presenta la possibilità di una convivenza positiva rispettosa, senza i tipici pro-blemi di regole alimentari, cultuali e soprattutto matrimoniali. Giuseppe infatti non si presta alle se-duzioni della moglie di Potifar, che possono simboleggiare anche un fascino culturale, mentre sposa la figlia di un sacerdote egiziano, lungi dalle scelte del “moglie e buoi dei paesi tuoi”, in base a pa-rentela e affinità etnica che affiorano nei consigli di Abramo a suo figlio Isacco (Gn 24), o di Re-becca contrariate dalle mogli ittite di Esau (Gn 27,46), o di Isacco che vuole una figlia del parente Labano per moglie di Giacobbe Gn 28,1).
Per la data della sua stesura due sono le ipotesi:
1. Racconto che risale all’Israele del Nord, poi dopo la caduta di Samaria (721 a.C.), riadatta-to per fungere da ponte tra i Patriarchi e l’Esodo e riconciliare i samaritani con i giudaiti.
2. Il racconto è post-esilico (v-iii s. a. C), rientra nel genere della novella della diaspora, inte-so a riconciliare i deportati con quanti erano restati nel paese.
Il racconto di Giuseppe si concentra su 4 temi fondamentali:
a) la storia di una fratellanza dilaniata e poi riconciliata.
b) il disegno della provvidenza divina apparentemente assente.
c) l’ascesa al potere di un israelita in una terra straniera e la possibilità di una
coesistenza con altri popoli e culture.
d) un buon governo come benedizione disponibile per la terra e l’umanità.
Gn 37. La fraternità interrotta. La storia si apre con un conflitto di sentimenti e di potere. Tutti i personaggi principali sono causa di errori e non privi di ombre che portano alla rottura della fraternità/solidarietà familiare. La tunica: la parzialità di Giacobbe, Giuseppe ragazzo viziato e ar-rogante, che spettegola sui fratelli. Nei sogni, la rivendicazione del potere di Giuseppe sul cosmo: famiglia, terra, tempo.
Questo scatena l’invidia, l’odio, la vendetta e la calunnia, che nascono sempre da una paura; cfr. 37,8. Nel viaggio a Sichem comincia la parabola di discesa e dell’annullamento di Giuseppe. Sullo sfondo due anelli casuali provvidenziali: l’uomo e la carovana. La pena del contrappasso: l’imbroglione imbrogliato. La bestialità dell’invidia, pari a quella che entra nel cuore di Caino, co-me era entrata felpatamente nel cuore della coppia Adamo/Eva, che avevano cEduto alle lusinghe del serpente e alla sua presentazione di un Dio geloso.
Gn 39. Il test della moglie di Potifar. È la tentazione dell’abuso e del potere, soprattutto nei confronti di uno schiavo. Giuseppe è fedele al suo padrone e al suo Dio e disdegna la seduzione più volte ripetuta della “donna straniera”. Ancora una volta la tunica, stavolta per accusare Giusep-pe e farlo imprigionare. L’amore rifiutato si trasforma in odio e calunnia. Ma la donna è un altro anello provvidenziale.
Gn 40-41. La sapienza e l’ascesa di Giuseppe l’immigrato alla corte straniera. Abbiamo un confronto in due ambiti tipici della cultura/potere egiziani: oniromanzia ed economia agraria, imperniate sui sogni, prima positivi (tralci, vacche e spighe grasse), poi negativi (pani divorati, vac-che e spighe magre. Hathor e Osiride, simboli della fertilità e della vita. Giuseppe ha come unica forza la “sapienza”, che è la lungimiranza laica di pianificare, organizzare, sopperire alla necessità della crisi che «divorerà» il paese. Pur essendo disperso (=diaspora) in un paese straniero, egli sug-gerisce le misure risolutive adeguate per fronteggiare l’imminente carestia (41,33-36), come prov-viste e tassazione, anche a costo di essere impopolare. Politica equa, “tutto il paese”, ma anche apertura ad altri popoli (41,57), non solo il palazzo o la casta sacerdotale. Adesso è Lui l’uomo del-la “provvidenza”.
Gn 42-46. Un percorso di riconciliazione. Con i fratelli che vengono per acquistare il gra-no la riconciliazione avviene tramite un doppio cammino di conversione: il suo e il loro. Gioca con un po’ come il gatto con il topo. Da un’iniziale risentimento, fa lezione del passato: a) da vendetta mortale a intenti di vita; b) dal un egocentrismo al senso della responsabilità familiare. Ma lo fa fa-cendo rivivere ai fratelli la sua stessa esperienza e con una tattica sapienziale può verificare la soli-darietà fraterna e il cambiamento di Giuda che si offre al posto del fratello. Qui, dopo, si riallaccia-no i rapporti interrotti paterno e fraterno. La strada maestra è ridare spazio ad una parola di dialogo. Certo, la storia conferma i sogni di Giuseppe, perché i fratelli si prostreranno dinanzi a lui per ben due volte (42,6; 43,26), addirittura si getteranno a terra (44,14), ma cambia l’atteggiamento di Giu-seppe, che diventa fratello, e sfrutta il suo potere di “uomo di frontiera” per sostentarli.
Gn 49-50. Quattro temi fondamentali: la benedizione dei figli e del futuro costruito nel pre-sente. La promessa delle “ossa di Giuseppe” da riportare nella terra promessa. Soprattutto la paura dei fratelli, che temono la vendetta finale di Giuseppe. La rilettura in chiave provvidenziale di Giuseppe “Non temete! Sono io al posto di Dio? Voi avete pensato di farmi del male, Dio invece ha pensato in modo diverso per farlo servire al bene di tutti, come ha fatto oggi.” (50,18; Gn 45,5). Il ragazzo viziato di Sichem diventato saggio primo ministro in Egitto ravvisa nel suo percorso un Dio che ha scritto diritto su righe storte, (Gn 50,20-21; cfr. Pro 16,9) e lo esprime senza il minimo rimprovero ai fratelli. Dio si è servito del male per ribaltarlo in bene. Giuseppe non usurpa il ruolo di Dio; questa è la vera essenza del potere. Non può considerare la carne della sua carne come schiavi. Anticipa quelle che dovranno essere le caratteristiche del re in Israele in tempi di crisi, reg-gere, rendere giustizia, salvare, aver pietà dei deboli, di chi ha poco peso e fame (Sal 72). Ma la sa-pienza di Giuseppe ha origine in Dio, non è una competenza frutto del solo sforzo umano (40,8; 41,16).
La presenza elusiva di Dio. Dio parla solo in Gn 46, ma i personaggi parlano di lui e sono loro a leggere la strategia divina dietro le quinte; Giuseppe lo vede dietro il messaggio dei sogni al faraone, il Faraone lo riconosce nella sapienza di Giuseppe, i fratelli lo ravvisano negli eventi che si susseguono, come pure Giacobbe.
La benedizione. Giuseppe attualizza la benedizione di Abram; «In te si diranno benedette tutte le genti». Benedizione significa vita, fecondità, intesa non solo come dono ma anche come compito, e fedeltà ad una loro trasmissione nel rispetto delle generazioni. È collegato alla giustizia che regge la terra; se prevale l’ingiustizia l’universo precipita nel caos della de-creazione. Il raccon-to che si era aperto con «i miei fratelli io cerco», approda al «io sono Giuseppe vostro fratello». Ma termina con un finale aperto: per rilanciare l’ineludibile domanda: «Dov’è tuo fratello?» (Gn 4,9).
Il ruolo della storia di Giuseppe alla fine del libro della Genesi pare risponda a tre esigenze narrative. La prima è che la sua vicenda spiega i motivi per cui Israele si trova in Egitto nel raccon-to dell’Esodo. La seconda è incoraggiare quanti vivono in una situazione di diaspora, in un paese estero. Una storia di un emigrato che poi fa gavetta e carriera, per poi essere di aiuto a quanti sono rimasti in patria, in una situazione meno abbiente. La visione della diaspora è positiva, e siamo lon-tani da quella conflittuale ed emarginante che ritroveremo tra Mosè e un altro faraone, il quale ap-punto “non aveva conosciuto Giuseppe” e dunque la potenzialità che questi con la sua saggezza amministrativa e la sua gestione oculata aveva rappresentato per l’Egitto. La terza ragione verte sul conflitto e riconciliazione con i fratelli: Giuseppe (e con lui Beniamino) erano figure legate al nord, e quindi originariamente potevano rappresentare il regno di Samaria, la cui figura chiave era pro-prio Giacobbe (padre che amava Giuseppe e Beniamino più degli altri). Gli altri fratelli, il cui lea-der è Giuda possono rappresentare il regno omonimo del Sud. La riconciliazione finale, in un cam-mino di dissapori di discesa-risalita, di malintesi ed odio omicida, vissuta prima da Giuseppe che la fa rivivere maieuticamente ai fratelli può lanciare una speranza. Oltre a questo primo orizzonte che riguarda lo scisma dei regni, se ne dischiude un altro, che è la conflittualità tra i vari partiti, fazioni, che collidevano e nutrivano rivendicazioni nel periodo del post-esilio (dopo il 538 a.C). Di nuovo, abbiamo un invito a non usare il potere per sovrastare gli altri, per far pagare agli altri umiliazioni, ferite e sconfitte, ma per mettersi al servizio ed aiutare i propri fratelli: In questo senso, la storia rappresenta nitidamente una critica del potere e delle correlative reazioni, quali l’invidia, la gelosia e la violenza.