Letture festive – 166. Aiuto – 27a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

27a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 6 ottobre 2024
Dal libro della Gènesi – Gn 2,18-24
Dalla lettera agli Ebrei – Eb 2,9-11
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 10,2-16


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letture festive 166

Quello che nel secondo capitolo di Genesi viene indicato come un aiuto che corrisponda all’essere umano ci introduce alla complessa rappresentazione del rapporto tra i sessi nel primo libro dell’Antico Testamento. Come infatti ha ben mostrato l’esegesi biblica femminista, andrebbero criticamente riviste, da parte di con Dio e di senza Dio, tutte quelle traduzioni e interpretazioni di questa celeberrima pagina veterotestamentaria, che tendono a rappresentare la donna come un’appendice successiva, secondaria e derivata da un maschio creato originariamente. In un testo nel quale dare un determinato nome viene presentato come fattore costitutivo dell’identità, a partire dagli animali non umani, il vivente definito adàm in relazione alla terra (adamà), un adàm che quindi viene plasmato dalla polvere del suolo, non è ancora in realtà né un maschio né una femmina, dal momento che i termini prevalenti per indicarli in relazione alla reciproca differenza sessuale saranno rispettivamente, nel seguito della narrazione, ish e ishah. Il vivente umano originario, dunque, non sarebbe inizialmente connotato nella sua differenza sessuale, che si definisce invece grazie al successivo intervento divino, intervento motivato precisamente dall’intenzione di fornire al vivente umano un aiuto. Questo aiuto viene proposto inizialmente presentando al vivente umano gli altri animali non umani, ma la particolare corrispondenza di aiuto che si sta ricercando non viene trovata, evidenziando come questo vivente umano risulti difettoso per due caratteristiche che verosimilmente dipendono l’una dall’altra. L’umano vivente originario, infatti, sperimenta una solitudine non buona, collegata a una sorta di uniformità monolitica e indifferenziata; proprio questa solitudine lo pone in una condizione carente e perciò bisognosa di aiuto, un aiuto che però deve avere determinate caratteristiche, caratteristiche che non si trovano negli altri animali viventi non umani. Il narratore biblico aggiunge allora al processo creativo divino – rivelatosi quanto meno incompleto – un ulteriore e decisivo passaggio che consiste nel differenziare il vivente umano iniziale, rivelatosi una sorta di bozza incompiuta di vivente umano. L’atto divino che conclude la creazione del vero e autentico essere umano vivente consiste in una differenziazione che risolve con un unico atto geniale e paradossale tanto il problema della solitudine cattiva determinata dall’autoreferenzialità monolitica quanto il problema di un aiuto che sia corrispondente allo specifico bisogno del vivente umano. Così questa narrazione antropologicamente densa del secondo capitolo di Genesi indica anche a noi credenti odierni, con Dio o senza Dio, dove l’umanità vivente può trovare tanto la propria identità e verità integralmente e autenticamente umana quanto l’aiuto corrispondente al proprio umano bisogno. Questo luogo della verità e autenticità umana si trova nel riconoscimento e nell’accettazione di una differenza che inizia da quella che ci rende corpi e individui sessuati, ciascuno in un modo unico e personale, anche se in una delle tante forme o modalità, principali o secondarie, nelle quali l’umanità si presenta come un varietà di corpi sessuati. Quando ciò avviene, ci troviamo di fronte qualcuno che ci corrisponde e con il quale possiamo confrontarci – diciamo così – alla pari, sullo stesso piano e allo stesso livello, come umani. E precisamente da questa corrispondenza e da questo confronto alla pari, sullo stesso piano e allo stesso livello ci può venire l’aiuto di cui abbiamo bisogno tutti, maschi e femmine, con Dio e senza Dio, un aiuto necessario, in primo luogo, per farci uscire dalla condizione di una solitudine non buona.

In questo passo della lettera agli Ebrei l’aiuto fondamentale e decisivo è quello di chi conduce alla salvezza attraverso un percorso che sembra comportare una sofferenza in certo modo inevitabile. Questo aiuto viene offerto da un Gesù rappresentato, da una parte, come essere divino di poco inferiore agli angeli e, dall’altra, come salvatore che condivide la stessa origine dei fratelli che salva. Da questa comune origine del Gesù salvatore e di coloro che da lui sono salvati l’autore della lettera agli Ebrei fa derivare una importante conseguenza: il fatto di non vergognarsi a chiamarli fratelli. Per noi odierni lettori con Dio o senza Dio di questo passo neotestamentario, abituati alla concezione religiosa di una salvezza divina descritta come proveniente dall’alto, risulta piuttosto sorprendente che vi possa essere una salvezza – e cioè una forma di aiuto fondamentale e decisiva – descritta come offerta da un fratello nei confronti di fratelli, fratelli che sono tali in virtù di una comune origine. Questa, che potremmo definire una forma orizzontale di aiuto tra simili che sono tali in quanto fratelli, si aggiunge – in quanto ulteriore modalità di aiuto tra soggetti che si corrispondono – a quella di cui parla il secondo capitolo di Genesi in riferimento al rapporto tra femmina e maschio. Vi possono essere, quindi, forme di aiuto così significative da poter essere chiamate salvezza anche tra soggetti simili che si corrispondono nelle relazioni riconducibili a quella della fraternità. A partire da questo testo della lettera agli Ebrei, perciò, dovremmo aspettarci che anche oggi tanto in ambito ecclesiale quanto extra-ecclesiale, tanto fra con Dio quanto fra senza Dio, si possano sperimentare relazioni tra fratelli – che includono ovviamente anche sorelle – dove l’aiuto offerto e accolto risulta così significativo e rilevante da poter essere definito come una salvezza, una salvezza che si realizza non grazie alla distanza abissale tra un salvatore e un salvato, ma grazie alla comune origine di chi aiuta salvando e di chi viene salvato.

Mentre si legge il famoso episodio evangelico sulla legittimità del ripudio, riconoscere nell’aiuto vicendevole il nucleo fondativo e originario, oltre che una delle principali finalità, dell’unione matrimoniale può aiutare anche noi odierni con Dio o senza Dio a trovare chiavi interpretative utili a una comprensione adeguata. Oggi, infatti, sono urgenti interpretazioni che consentano di affrontare in modo evangelicamente ispirato le controverse questioni dei fallimenti matrimoniali, dei divorziati risposati e più in generale dei modi nei quali vivere le relazioni sessuali e i rapporti di coppia, in particolare da parte di chi, come con Dio o come senza Dio, vorrebbe trovare ispirazione nel Vangelo. Il Gesù di Marco, infatti, nel rispondere alla domanda sulla liceità del ripudio della moglie da parte del marito, richiama anzitutto l’originario progetto divino sulla coppia, caratterizzato in Genesi da un’unione che – se vuole dare al vivente umano un aiuto che gli corrisponda – non deve eliminare quella differenziazione originaria, prodotta precisamente perché per l’essere umano potesse esservi un aiuto corrispondente e insieme diverso. La concessione da parte di Mosè, in quanto legislatore, di ripudiare la moglie, viene associata dal Gesù di Marco alla durezza di cuore, che consiste in fondo nel rifiuto di continuare a prestare aiuto all’altra persona cui ci si è legati. Come odierni con Dio o senza Dio potremmo allora riconoscere che la scelta di non essere più di aiuto all’altro, facendo venir meno il nucleo fondativo e originario dell’unione matrimoniale, consiste in una forma di ripudio-respingimento e abbandono-allontanamento che spiega e in un certo senso giustifica la concessione mosaica, una concessione che si limita in realtà a prendere atto del fallimento di un’unione matrimoniale. Su questo sfondo si pone la risposta di Gesù che definisce adulterio – tanto del marito quanto della moglie – l’iniziativa di sposarsi con una seconda persona, dopo aver ripudiata e cioè respinta, abbandonata e lasciata la prima persona cui ci si era uniti in matrimonio. Ebbene questa accezione di adulterio utilizzata da Gesù sembra avere di mira l’iniziativa e la scelta di chi decide unilateralmente e per motivi egoistici di non essere più di aiuto all’altro coniuge, privandolo così di quell’aiuto corrispondente a lui che sta al nucleo dell’insegnamento originario di Genesi sull’unione tra uomo e donna. Se è così allora Gesù non intende contrapporsi alla legge mosaica, modificandone in senso restrittivo le norme sulle seconde nozze, ma intende invece approfondire ulteriormente l’insegnamento sulla durezza del cuore che sta alla base di ogni ripudio, respingimento, abbandono e allontanamento dell’altra persona che si trova ad essere bisognosa del mio aiuto. È come se il Gesù di Marco, quindi, definisse per così dire “adulterato” quel desiderio che – per cercare la propria soddisfazione – conduce ad abbandonare il coniuge bisognoso di aiuto. In modo analogo andrebbe letto anche l’episodio dei bambini che i discepoli vorrebbero respingere e allontanare, e che Gesù invece accoglie e prende tra le proprie braccia, rimproverando i discepoli, bambini che rappresentano qui una tipica categoria di bisognosi di aiuto. Se al centro delle preoccupazioni del Gesù di Marco sta appunto la possibilità per chi è nel bisogno di ricevere l’aiuto che corrisponde alla propria condizione, anche noi odierni con Dio o senza Dio dovremmo condividere questa medesima preoccupazione evangelica. E così dovrebbe essere anche per la Chiesa quando si trova a dover discernere, indicare, proporre o suggerire il da farsi nelle tante situazioni che oggi si presentano come fallimenti matrimoniali, come famiglie ricostituite o allargate, come coppie di vario tipo, di fatto o di diritto. Spesso invece si cerca di applicare in modo rigido a queste situazioni le attuali norme canoniche, dichiarando di ispirarsi a presunti insegnamenti evangelici non negoziabili. Le comunità ecclesiali – e chi in esse ha autorità anche canonico giuridica – dovrebbero prendere atto che tante situazioni di vita, di credenti con Dio o senza Dio, non trovano adeguata interpretazione e corrispondenza nelle norme disciplinari e canoniche vigenti. Queste ultime, infatti, richiederebbero una profonda revisione e riforma, condotta anche attraverso un serio e partecipato percorso di discernimento sinodale. L’obiettivo di questa revisione e riforma dovrebbe essere quello di diventare – tutti e ciascuno con il proprio reale vissuto umano e cristiano – maggiormente fedeli al Vangelo, un Vangelo annunciato per far fiorire l’esistenza di chi, con Dio o senza Dio, è disponibile ad accoglierlo.