«IO, TE, IN LUI». Il mistero nuziale nella sinfonia di Gen. 1-3

Tre cose, anzi quattro non comprendo
La via dell’aquila nel cielo
La via del serpente sulla roccia
La via della nave in alto mare
La via dell’uomo in una donna
(Pro 30,19)

  di Antonio Nepi

1. Introduzione
È ormai un’abitudine, quando si cerca d’invenire i fondamenti del matrimonio, addurre i primi capitoli della Genesi, come se sancissero immutabilmente un’istituzione quasi in modo atemporale e cristallizzato. Precisiamo che i testi della Genesi che affronteremo non parlano espressamente di matrimonio. A ingenerare tale idea sono i testi del NT (Mc 10,7-8; Mt 19,4-5) che citano Gn 1,27 e 2,24. La Genesi presenta una relazione tra uomo e donna al di là di un’istituzionalizzazione. È il racconto di un dialogo mai concluso tra Dio e l’umanità nel tempo. La narratività permette di vivere il presente in modo non mummificato, ma forgiando un’autocoscienza nel fluire degli eventi, poi-ché, come affermava R. Batman, «il senso della storia si nasconde sempre nel tuo presente e tu non puoi guardarlo da spettatore, ma solamente nelle tue decisioni responsabili». Pertanto la Bibbia non è un manuale di risposte preconfezionate, un arsenale di “pezze d’appoggio” a una tesi teologica previa. Non va dimenticato il contesto socio-culturale di una visione androcentrica espressa dal tar-divo Siracide: «Meglio la cattiveria di un uomo, che la bontà di una donna» (Sir 42,14a)

.

L’AT però presenta non poche pagine sovversive in cui la donna appare finanche più positiva dell’uomo. Una di queste è il progetto di coppia originario. Seguono poi tante altre storie di espe-rienze di coppia, riuscite e non riuscite, regolari e irregolari, monogame e poligame, feconde o steri-li, ma pure di non-coppia dove spesso «di lei non si fa memoria», o vigono la violenza o la manipo-lazione. Questo caleidoscopio si arricchisce con le loro armonie e ferite, luci ed ombre, più spesso opacità. I narratori alternano giudizi espliciti a silenzi, lasciando al lettore il compito di interrogarsi. Dio non propone copioni; ama la recita a soggetto. E come dice un witz rabbinico «Il Santo, bene-detto Egli sia, si rallegra quando gli esseri umani fanno meglio di Lui…».

La nostra riflessione verterà sulla posta in gioco nei due testi fondativi, che si trovano nella eziologia metastorica di Gn 1–11. Per eziologia intendiamo un discorso (logos) sugli ineludibili «perché» (aitìa) dell’esistenza del cosmo e dell’essere umano. Metastorica in quanto ricerca delle verità che fondano la storia, espresse in un linguaggio mitico, da non confondere con «non vero», ma come spiegazione simbolico-narrativa del vivere, in assenza ancora di concetti astratti. Il mito, più agevolmente del dogma, resta aperto alle istanze di senso. Contrariamente ai miti del Vicino Oriente Antico, non esiste una storia degli dèi prima di quella umana. In tali miti, infatti, è patente una sacralizzazione della fecondità: l’amore umano risulta meno importante dell’ordine cosmico, per cui ciò che conta è il ritmo delle stagioni, la fertilità della terra e degli animali. La narrazione biblica invece si incentra sulle persone, elabora e rilancia una sua antropologia teologica. Adam, nel senso simbolico collettivo di umano/umanità, non è il frutto dell’accoppiamento tra divinità, ma di una creazione mediante separazione (P. Beauchamp), senza violenza ma tramite la parola efficace «e disse» (wayy’omer) del Creatore. Come il cosmo, l’umano è distinto nella reciprocità tra maschi-le e femminile, tra unità e alterità.

I due racconti appartengono a due diverse tradizioni teologiche. Il primo (Gn 1,1–2,4a) è scrit-to dal Sacerdotale (=P); il secondo (Gn 2,4b–3) da un autore di area laica (= oggi chiamato Non-P). Finora il secondo era ritenuto il più antico; al contrario, oggi si tende a ritenere P come il più antico, affiancato dal non-P che è coevo, se non più recente. Ci si chiede: perché due racconti invece di uno solo, come per il Decalogo e molti altri testi dell’AT-NT? La risposta sta nella natura polifonica

della Bibbia, che non annulla voci diverse sullo stesso evento/avvenimento. Per la legge della con-servazione, tipica delle culture antiche, non si rottama niente, ma si integrano in modo complemen-tare, talora in discanto, tradizioni maturate nei vari vissuti di “Israele”. Ora, il racconto dei 7 giorni di P di Gn 1,1–2,4 è ottimista e luminoso, narra la creazione nella sua armonia; tutto ciò che giunge ad esistere è definito, come Dio stesso dichiara, «buono/bello» (tôb) e l’essere umano si configura come il vertice della creazione («molto buono»). Il racconto del giardino di Gn 2–3 con discanto e disincanto presenta l’umano nella sua primordiale incompletezza, poi colmata dalla donna, riflet-tendo sui motivi di un’armonia ferita e le sue conseguenze.

2. Gn 1,26-28. La coppia sessuata al servizio dell’universo
Il racconto sacerdotale ha un interesse cosmologico, mirante ad affermare la sovranità del Creatore. Dio, chiamato con il suo nome universale (‘ӗlōhîm), ovvero Dio di tutta l’umanità, parla al plurale; il «facciamo», per taluni (come H. Gunkel) sarebbe il residuo mitico di una corte celeste – l’assemblea degli dèi – che l’AT ben conosce (cf. Sal 82,1; Gb 1; Is 6,8). Ora, nella prospettiva di P, ogni concorrenza o coesistenza con altri dèi, o l’idea di Dio con una sua paredra, sono eliminate in nome di uno strenuo monoteismo, affermatosi nel post-esilio. Il «facciamo» è un plurale di deci-sione, che in Gn 1–11 accade sempre in momenti nevralgici, tesi al bene dell’umanità, ed esprime una risoluzione ponderata, sottesa da un progetto, come se Dio giocasse tutto sé stesso per fare qualcosa di speciale.

L’essere umano nella sua interezza (uomo e donna) è l’immagine/statua (ṣelem) e somiglian-za/modello (demût) di Dio. I due termini, qui in endiadi, sono sinonimi (Gn 5,3). La Bibbia presenta una inedita democratizzazione: se nell’Antico Oriente solo il re era l’immagine del dio, qui ogni es-sere umano ha la dignità e la libertà del re. Come un re, ogni persona è il visir, il luogotenente che fa le veci di Dio nel mondo. Cosa significa essere immagine divina? Non va cercata solo nell’anima e nella ragione (S. Agostino), nella capacità morale, nella posizione eretta, nel tratto ominide, ma, a differenza degli animali, nella capacità di dialogo e di abilità artistica, nella comunione interperso-nale. È dono e compito: la creazione dell’umano appare come una realtà incompiuta, che tende alla sua pienezza. L’immagine divina va cercata in tale continuazione nella storia dell’atto creativo di Dio, che lascia spazio agli umani (pro-creazione = al posto suo).

Sopprimere un essere umano allora significa sopprimere l’immagine di Dio, perché l’essere umano è l’unico che lo rappresenta. L’umano calcato nell’immagine divina non significa che Dio sia sessuato, ma rinvia simbolicamente alla sua capacita di amare e di creare mediante la comunione di uomo e donna. Come Dio, ogni essere umano è mistero, sempre ricercato, come nella ricerca dei due amanti nel Cantico dei Cantici. Il Dio dell’universo non si identifica con la creazione, la tra-scende e sfugge all’iconizzazione della religione; analogamente un partner sarà sempre «altro» ri-spetto a quello che immagina e desidera il suo partner. Dal plurale «facciamo» si passa al singolare «e creò» (v. 27). Questo verbo (bārā’) comprova il monoteismo, è riservato solo a Dio senza con-correnti ed indica qualcosa di inedito, l’essere umano (hā-’ādām) distinto nel genere. Qui, vicever-sa, il passaggio dal singolare «lo» al plurale «li» indica l’umanità nell’unità e nella diversità genita-le. La polarità sessuale di maschio (zākār = lett.: essere con la punta) e femmina (neqēbāh = essere con la fessura) è alterità per la complementarietà; non ci può essere umanità senza questa alterità; ogni discriminazione o abolizione è contro il progetto di Dio. Essa trova un senso nell’esperienza dell’alterità di Dio che è al di là della polarità dei sessi.

Appena creata, la relazione tra uomo e donna viene benedetta da Dio. La benedizione (berākāh) è il dono divino ai viventi del potere di trasmettere la vita; si manifesta dunque nella fe-condità (Sal 128) e, quanto ad energia vitale, l’essere umano non è diverso dagli animali (Gn 6,19). D’altro lato, la benedizione della relazione tra l’uomo la donna comporta una propulsione a vivere bene e con gioia; è il successo e il gusto della vita. Il testo rifugge da ogni angelismo per una valo-rizzazione solare della fisicità. Le genealogie che seguiranno confermano l’attuazione di questa be-nedizione.

Vanno notati cinque punti essenziali.

1. La comunione tra uomo e donna precede la procreazione. La relazione con Dio precede e fonda tale comunione e fecondità. In altri termini la vocazione della coppia non è subordinata alla procreazione, ma, al contrario, è la procreazione subordinata alla vocazione. Alla mentalità per cui una donna «non costruita» o «dal ventre chiuso» (Gn 16,1; 29,31; 30,1) era destinata alla maledi-zione, la Bibbia risponde con Elkana, che dice alla moglie sterile Anna: «Perché sei triste? Non so-no forse io per te meglio di dieci figli?» (1Sam 1,8). Così ad un eunuco, privo di figli, che veniva disprezzato come un albero secco, concederà un futuro più prezioso di figli e figlie (Is 56,3). Parlare di una inferiorità ontologica o funzionale della partner femminile, che trova l’unica ragione di esse-re nella riproduzione, è manipolare il messaggio biblico.

2. La descrizione della sessualità come «molto buona/bella» fa crollare ogni divinizzazione della sessualità (in particolare della religione cananaica) come mezzo di conquista magica per pro-durre energia. Il Cantico dei Cantici è un esempio stupendo di questa demitizzazione, leggendolo come «fiamma di Dio» o «fiamma fortissima», cifra nascosta dell’amore divino (Ct 8,3). L’amore viene cantato in tutta la sua sensualità, passionalità e complicità erotica.

3. La benedizione di Dio (v. 28), che si esplicita in cinque verbi, non va intesa come un co-mando apodittico, ma come apertura a possibilità positive (cf. Gn 17,16; 35,11-12). È potere donato da usare secondo i criteri della propria coscienza e della situazione. Sullo sfondo è possibile che il narratore sacerdotale abbia vissuto le ansie del contesto storico della decimazione dell’esilio (Ger 29). Il suo programma è che la terra deve essere riempita; ma questa moltiplicazione vale ancora una volta che è piena? Una procreazione sregolata con conseguente esplosione demografica incon-tenibile in molti paesi poveri, può essere considerata una benedizione, o diventa piuttosto una male-dizione? Questo vale per il resto del rapporto con l’eco-ambiente. In nuce abbiamo una riflessione teologica sull’ecologia ante-litteram.

4. «Crescete, moltiplicatevi, riempite la terra». I primi due verbi spesso sono abbinati (Gn 9,1-2; Es 1,7; Ger 23,3). Questa fecondità è compito anche degli animali. Ma l’essere umano sorpassa l’istintualità animale per il dono di una “coscienza” o responsabilità che verrà precisata nel secondo racconto. L’energia grezza dovrà essere umanizzata, ovvero deferinizzata. La sua potenzialità non deve tracimare in violenza, ma acconsentire al limite, altrimenti degenera in cupidigia, volontà di mero possesso, come accadrà ad Amnon in 2Sam 13.

Il terzo verbo «riempire» indica che l’aumento demografico è segno tangibile del permanere della benedizione e la proliferazione deve tendere alla sua pienezza e alla sua libertà. Qui Dio non è infastidito dalla crescita demografica e dall’inquinamento sonoro, a differenza degli dèi mesopota-mici, che stroncano gli esseri umani col diluvio; così pure gli esseri umani non sono creati per eso-nerare gli dèi pigri dalle loro fatiche. Dio inoltre non vorrà una concentrazione di potere omologante in uno spazio, cultura unica e gerarchia onnipotente, come sarà il caso della Torre di Babele (Gn 11).

5. «Soggiogatela e abbiate dominio sui pesci, volatili, bestiame, su ogni essere vivente che striscia sulla terra»: i due verbi sono accomunati da un dominio, che è conseguenza dall’essere im-magine di Dio. Non è un potere autonomo, né assoluto, ma un dominio dominato. Il primo verbo «soggiogare» (kābaš) è bellico e significa «prendere possesso, sfruttare, asservire» (2Sam 8,11; Ger 34,11.16), ma è un potere limitato. Il secondo verbo «dominare» (rādāh) è politico e descrive spes-so il potere del re (1Sam 5,4; Is 14,6; Ez 34,4), ma anch’esso non è una egemonia unilaterale o ca-pricciosa, bensì deve tradursi in una responsabilità per quanto gli è affidato. La benedizione com-porta il rispetto per gli animali dei tre piani del cosmo. Gli animali terresti non vengono benedetti, come lo sono i volatili e i pesci, perché la loro benedizione dipende dalla responsabilità dell’umanità, perché abitano come l’uomo la terra. Ogni violenza viene esclusa: il mondo ideale di Genesi è pacifico e vegetariano, come quello di Is 11; non si possono uccidere gli animali per cibo, ma si coesiste con loro, selvatici e domestici. Sul versante antropologico tale armonia impedisce che ognuno prevarichi sull’altro, lo divori sul piano personale o collettivo.

In Gn 1, in cui il mondo appare come un immenso tempio, la coppia primordiale viene vocata ad esserne il sacerdote. Dio resta trascendente e asessuato. Come creatore e partner dell’alleanza ha la sua rappresentazione ideale non nel solo maschio, secondo una successiva tradizione giudaica se-

guita anche da san Paolo (1Cor 11,7), ma nella coppia umana che si ama e genera. Dio è Relazione così come il Logos è Legame (C. Pagazzi). Questo primo racconto sottolinea la responsabilità dell’uomo dell’ambiente in cui vive e che deve lasciare ad altri che verranno. Non si tratta di mera salvaguardia, ma di portare a compimento una creazione in fieri. La coppia diventa così la «statua vivente» di Dio.

3. Gn 2,18-25. L’alleanza tra uomo e donna: luci, ombre e limiti
Il secondo racconto del giardino è più antropologico, attento alla complessità della vita uma-na. Si introduce il fattore misterioso della libertà connesso all’obbedire o no al divieto di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male (cf. Gn 2,16-17). Nell’esperienza di questo limite creaturale l’essere umano può trovare la propria grandezza, ma anche la propria rovina. Nel testo confluiscono varie tematiche di indole sapienziale. La creazione dell’essere umano è funzionale a colmare la mancanza di chi coltivi la terra brulla e spoglia. Dio, qui identificato con Yhwh, il nome del Dio d’Israele, è descritto come un vasaio (Ger 18,2-6; Is 41,25) che modella (yāsar) la sua crea-tura ancora indivisa, in cui insuffla il suo «alito di vita» (nišmat ḥayyim), equivalente all’autocoscienza (Pro 20,27), che lo distingue dagli altri animali (Sal 104,30).

L’immagine/somiglianza di Gn 1 viene sostituita dallo stile delle dita dell’Artista. Il materiale è la polvere (‘āpār) simbolo di fragilità, di mortalità (Gn 3,19; 18,27; Qo 3,20). Rispetto ai miti me-sopotamici ed egizi che vedono, ad esempio, Enki e Khnum come dèi vasai, o l’uomo impastato con terra e il sangue del dio violento Kingu ucciso all’uopo, qui Adam è una creatura positiva, e non è frutto di una procreazione divina. L’adam ancora indistinto, come in un esodo primordiale viene posto nel giardino, con la responsabilità di «coltivarlo e custodirlo», due verbi che in ebraico posso-no anche suonare «servire/osservare», rinviando al culto e alla legge di Israele nell’esodo e nella terra (Dt 13,5; Nm 3,7-8). Il narratore proietta così nel mito delle origini il suo oggi e plasma il suo oggi a partire dal medesimo mito. All’essere umano viene poi imposto un limite, quello di «non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male» (v. 16). L’umano deve riconoscere il suo limite di creatura, non cedere alla legge del desiderio che è la pretesa di “mangiare” (‘ākal), ov-vero di impadronirsi e controllare tutta la realtà: bene e male (ṭōb werā’) sono un merismo, cioè i poli che abbracciano tutta l’esistenza. Non può usurpare la sapienza che è solo di Dio. Deve attuare una dereflessione. La morte nel pensiero biblico non è tanto quella fisica: è quella relazionale. Essa nasce dalla bramosia, che è un desiderio sfrenato, ripiegamento.

Spicca lo spazio accordato alla creazione della donna, misconosciuta negli altri miti extrabi-blici. Dinanzi ad una mancanza vitale, costituita dalla solitudine dell’essere umano ancora indiviso, Dio prende l’iniziativa di colmarla. Egli non ama la solitudine, perché come assenza di relazioni è morte, lebbra, disperazione (Qo 4,9-12). Pertanto decide di affiancargli letteralmente un «aiuto co-me stante di fronte a lui/alla sua altezza» (‘ēzer kenegdô). «Aiuto» designa un alleato indispensabile in frangenti in cui la vita è seriamente minacciata. Nella Bibbia il termine è confiscato da Dio, per-ché solo Lui è capace di fornirlo (cf. Is 30,5; Sal 121; Os 13,9), per cui il rispettivo partner sarà il migliore complice/alleato dell’altro/a nelle battaglie, crisi, scacchi della vita.

Il secondo sintagma è ambiguo: il «come» indica approssimazione, per cui la relazione non è del tutto simmetrica, ma qualcosa sfugge alla definizione reciproca. L’avverbio «di fronte» può si-gnificare anche un «contro», con la stessa radice del verbo nāgad = raccontare. Il vis à vis è dunque dialogico, un raccontarsi, che può essere incontro, ma anche scontro.

Yhwh dapprima offre la compagnia di animali. Ma questa si rivela un’alterità inadeguata (vv. 18-20), perché gli animali non sono esseri di parola (a differenza di Omero e della saggia asina di Balaam). Allora, in uno dei non rari casi dei “ripensamenti” di Dio, in cui Egli approda sempre all’esito migliore, il divino Architetto «costruisce» (bānāh) la donna e la «conduce» (bô’) all’uomo, un verbo che può indicare il presentare un’offerta e in particolare recare la partner al suo partner (Gdc 12,9). Yhwh la toglie dal «fianco» dell’uomo e questa perdita riempie la solitudine con il gua-dagno di un’alterità riuscita. Il termine abitualmente tradotto con «costola» (in ebraico ṣēlā’ e in greco pleura) in realtà è il “fianco” o “parete” (i rabbini immaginavano un essere segato in due!). Yhwh la estrae non dall’humus, come per gli animali, ma dall’humanus segno di dignità superiore.

L’estrazione avviene dopo che Yhwh ha fatto scendere sull’uomo un torpore, quasi una cata-lessi, che nella Bibbia appare sempre in momenti decisivi di creazione e di sorpresa, come per Abram (Gn 15,12; 1Sam 26,12; Gb 4,13). L’uomo non può vedere il suo Creatore all’opera, non controlla o conquista ciò che è dono. L’uomo può riceverlo in un perdersi necessario a ritrovarsi. È noto che da qui nasce una interpretazione che vi legge il mito dell’androgino (dal greco anēr = uo-mo + gynē = donna), cioè di un essere primigenio bisessuale, o indifferenziato, perché univa in sé attributi maschili e femminili, destinate successivamente a dissociarsi. Fu Platone a rendere popola-re questa teoria nel Simposio (189d-193d): «In principio tre erano i sessi degli uomini, non due co-me ora: maschio, femmina e il terzo sesso che partecipava ai caratteri di entrambi gli attuali. Un tempo l’androgino era un unico essere vivente, formato dagli altri due sessi insieme riuniti, maschio e femmina […]. Che potenza di forza presentava questa duplice creatura e quale sterminato orgo-glio! Decise, allora, di tentare una scalata al cielo con l’intento di far violenza agli dèi […]. Zeus pensò a lungo e alla fine si decise: Taglierò in due ciascun androgino».

Platone ravvisava in questo mito la radice della potenza attrattiva dell’eros tra uomo e donna, che tende a ricondurre la creatura alla sua unità primigenia. Ciascuno è la metà dell’uomo intero; ciascuno, allora, continua a cercare l’altra metà che gli corrisponda. Se il narratore biblico conosce-va il mito, tuttavia lo demitizza radicalmente!

Ora, al contrario, per la Bibbia la solitudine dell’uomo non è buona; la creazione dei due sessi è vista non come conseguenza di un peccato di ribellione contro Dio, bensì come un atto d’amore del Creatore verso la sua creatura (Sir 13,15; 36,24; Qo 4). Questa diversificazione di genere non è una maledizione, bensì una benedizione divina (1,28). Questa positività contrasta coi racconti mitici di altre culture. Ad esempio, la Teogonia di Esiodo (viii s. a. C.) parla di un tempo in cui gli uomini vivevano felici, senza donne; ma Zeus, per vendicarsi del furto del fuoco degli dèi da parte di Pro-meteo, creò Pandora che, con il suo vaso, portò ogni male all’umanità. Ogni donna è la figlia di Pandora.

L’immagine del «fianco/costola» è stata variamente interpretata. Qualcuno la spiega con l’ideogramma sumerico in cui coincidono quattro significati: costola, freccia, vita, fuggevolezza dell’esistenza. Il nesso è chiaro se si pensa che le punte delle frecce venivano aguzzate con pezzi di costola, che la freccia vola via veloce come la vita e che “signora della costola” era il nome della dea Nin-ti preposta alla vita, creata da Ninḫursag, il dio supremo, per colmare la lacuna di Enki, un dio maschio. Del resto Eva verrà chiamata «madre dei viventi/colei che dà la vita» (3,22). Qualcuno adduce il fatto che, ancora oggi, presso alcune tribù arabe il migliore amico viene chiamato “costola mia”. Qualcun altro preferisce parlare di fianco e quindi immagine è quella di un modello alla “Giano bifronte”, una unità che si guarda negli occhi. Pertanto il narratore immagina che Yhwh prenda l’essere umano indistinto, di cui costruisce con un lato la donna, mentre l’altro diventa uo-mo. In modo etimologicamente corretto possiamo dire che la donna è ac-canto, viene ac-costata in piena vicinanza. Per curiosità, E. Wiesel riporta un simpatico e salace midrash:

«Dio decise di creare la donna non dalla testa, perché la donna sarà orgogliosa; non dagli oc-chi, perché sarà curiosa; non dalle orecchie perché ascolterebbe; non dalla nuca, perché avrebbe l’aria insolente; non dalla bocca, perché non smetterebbe di cicalare; non dal cuore perché sarebbe malata di gelosia; neppure dalla mano perché si immischierebbe in ciò che non la riguarda. Dio de-cise di prenderla dalla parte più casta, la costola. Nonostante le precauzioni di Dio, la donna ha tutti gli altri difetti».

Il Talmud babilonese aggiunge:

«Talmente forte è il legame tra uomo e donna che, quando un partner muore, l’altro sente un dolore fortissimo come se il tempio fosse crollato, così come crolla la sua colonna vertebrale» (bSan 22a).

Per la prima volta l’uomo parla (v. 23); reagisce con un’esplosione di gioia, rimarcata dal rit-mo dell’allitterazione eziologica: «osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne» (‘eṣem me’aṣmî ȗbāśār mibbeśārî) denota una parentela stretta (Gn 29,14; 37,27; 2Sam 5,1), i diritti ma anche i do-veri che ne conseguono. La frase «la si chiamerà donna (‘iššāh) perché è stata tratta dall’uomo (‘îš)» – come se dicesse si chiamerà Piera perché è stata tratta da Piero – indica uno status paritario, senza discriminazioni. L’uomo non impone il nome alla donna, come con gli animali, a significare

la sua signoria, ma ne constata il genere (più tardi si chiamerà Eva). L’etimologia però è forzata e popolare, perché in realtà in ebraico «uomo» deriva da una radice che significa «forte/robusto», mentre «donna» da un’altra che significa «essere debole, vulnerabile». L’essere umano si autodesi-gna col nome «uomo» e di conseguenza designa la giusta relazione con la donna. Qualcuno però vede in questa reazione una sorta di riappropriazione da parte dell’uomo di qualcosa che gli è stato tolto, una insicurezza dinanzi ad una alterità che deve ricondurre a sé; questo perché l’uomo non parla direttamente alla donna, ma in terza persona, la definisce «questa qui», e non menziona Dio. Attenua il rapporto vis à vis insistendo sulle somiglianze più che sulle differenze, che sono costitu-tive. Non coglie il progetto integrale di Dio, ma si limita alla sua costola. La donna è oggettivata come un accessorio. Lasciamo al testo questa ambiguità, che si abbina a quella dell’alleato di fron-te/contro. Tutto dipende dalla responsabilità di accogliere e di valorizzare l’altro partner. D’altro canto, l’“accanto” è riconoscere che uno non è tutto, non può conoscere tutto dell’altro/a, non può fonderlo o fagocitarlo nelle sue brame e paturnie.

La frase finale (v. 24) è molto probabilmente quella del narratore, o forse quella di Dio (nella Bibbia, però coincidono…). Non si tratta di un comando, ma della spiegazione del desiderio pro-fondo dell’uomo verso la sua donna. Questa eziologia non sembra concernere esplicitamente l’istituzione del matrimonio. L’uomo si distacca dalla sua vecchia famiglia (ovviamente si guarda al futuro, perché la prima coppia non ha genitori e suoceri…) per entrare in comunione con la sua donna. Nell’Antico Israele non spettava all’uomo lasciare i genitori, ma alla donna, per cui abbiamo una sovversione dei ruoli tradizionali. «Abbandonare» (‘āzab) va inteso come subordinare qualcosa a una realtà superiore. Chi vuole instaurare una relazione di reciprocità deve tagliare i propri cordo-ni ombelicali e non trasformare l’altro/a in madre, padre, sorella/fratello, se non addirittura fi-glio/figlia.

«Unire» (dābaq) indica una adesione personale assai intima, che oltrepassa il mero rapporto sessuale (cf. Gn 34,30), ma ingloba un affetto o condivisione effettiva in generale (cf. Rt 1,14; 2,21; Pro 18,24). La finalità di questa comunione sta nel «diventare una carne una». Molti esegeti, a parti-re dall’esegesi rabbinica medievale, hanno ravvisato in quella «carne sola» il figlio della coppia. Nel pensiero biblico diventare una carne significa diventare un singolo individuo che vive nella ten-da della sua fragilità, vulnerabile alle tempeste, solcato dalle rughe del tempo. Se il narratore avesse avuto in mente la procreazione di un figlio, lo avrebbe esplicitato, come in Gn 1,27. Questa unità sta nel conservare l’attrazione reciproca, il mistero delle differenze, senza assorbirle, come canta il Cantico dei Cantici: «Forte come la morte è Amore…» (Ct 8,6). Il sesso è il linguaggio privilegiato dell’Amore, ma non l’unico.

Il racconto si chiude con un’ombra présaga (v. 25), che prepara al seguente della trasgressione del comando di non mangiare dell’albero. Il narratore avvisa che «uomo e donna erano nudi, ma non provavano vergogna»; detto altrimenti, i due vivevano una fragilità di creature, espressa in ebraico dal termine «nudità» (‘erwāh), che in ambito militare connota i punti deboli, indifesi, di un paese (cf. Gn 42,9), ma non la avvertivano come «vergogna» (bôš), cioè come sconfitta, fallimento, delusione (Is 20,1-6). Gn 3 narrerà il ribaltamento di questa armonia, causata dalla rottura della co-munione con Yhwh, mangiando dell’albero proibito. Il peccato delle origini sta nella pretesa di sempre di avere il totale controllo della loro vita, non rispettando cioè quel limite che li rendeva ap-punto creature. La responsabilità non è solo della donna, ma anche dell’uomo; la rottura appare for-te nel loro incolparsi a vicenda. Togliendo di mezzo Dio, annullano sé stessi; la relazione, ancor prima della sponsalità, diventa ostilità, diffidenza, paura.

Tutto è dovuto alla voce del serpente, al suo oracolo che scimmiotta l’invito di Dio, invitando a una bulimia della vita e del sapere. In termini psicologici, il serpente può metaforizzare il subcon-scio, gli Acheronta dell’uomo, come simbolo archetipo dei grandi desideri: immortalità, la perenne giovinezza, la fecondità, la sapienza. Nell’immaginario prevale il ruolo di «nemico di Dio» come nella mitologia accadica. Esso rappresenta narrativamente il male, che non viene spiegato, ma con-statato nel suo oggettivarsi, soprattutto in quei desideri elencati di vita e fecondità che però si per-vertono distanti da Dio. Nel suo compito di dominare gli animali l’essere umano doveva dominare il serpente, ma si è lasciato dominare da esso.

Le “sentenze” dei vv. 16-19 non sono prescrittive, ma descrittive: non vanno intese come se “prima” non ci fossero state, ma come constatazione di come, una volta spezzata la comunione, l’uomo le vive nella paura e nel conflitto. Possiamo riassumerle nelle seguenti disarmonie: l’altro/a diventa la preda del desiderio irrefrenabile dell’altro; l’altro/a diventa un ostacolo alle aspettative dell’altro, se non l’avversario più temibile; l’altro/a diventa lo strumento, il toy dell’altro. Questo può comportare una lotta bruta, ma anche sofisticata, che necessariamente induce alla menzogna e alla dissimulazione. Il parto, l’attrazione, ogni realtà anche la più bella, possono essere deturpati e sconvolti da decisioni di chi desidera o «ama perché ne ha bisogno e non perché ha bisogno dell’altro» (Mama, Zucchero Fornaciari). Pertanto Gn 2–3 esprime miticamente la sproporzione tra ciò che si deve essere secondo il cuore di Dio e ciò che purtroppo si è nella complessità della storia. Cambia la prospettiva: ciò che sta prima (la protologia) in realtà è ciò a cui si tende dopo (l’escatologia). Ogni coppia umana si costruisce giorno dopo giorno. Nella tensione tra l’ideale e il reale, annunciare la coppia come dono di Dio non contraddice la possibilità di una nuova partenza, per chi l’ha vista naufragare.

4. Conclusioni
«La differenza di sesso non è la dualità di due termini complementari. Infatti, due termini complementari suppongono un tutto preesistente. Ora, dire che la dualità sessuale suppone un tut-to, significa porre già prima l’amore come fusione e, dunque, come annullamento dell’ego. Al contrario, il patetico dell’amore consiste in una insormontabile dualità degli esseri, è una rela-zione con ciò che sempre si sottrae, un faccia a faccia, appunto, un aut- aut. La relazione non neu-tralizza l’individualità, ma la conserva».

I due testi mitici non fissano un ideale di coppia immutabile, ma aiutano il lettore ad un’assunzione di responsabilità esistenziale ed etica verso altri soggetti, e verso l’intera creazione ad essi affidata. Affermare che questi testi non parlano primariamente dell’istituzione matrimoniale sembra confliggere con l’uso che Gesù fa dei versetti di Gn 1,27 e 2,24 nel contesto della contro-versia sulla liceità del ripudio. Gesù «estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» per proporre la sua idea del matrimonio indissolubile e questo è incontestabile. La sua autorità come Logos in-carnato va oltre la “parola di Mosè” contenuta nel Pentateuco, per cui egli oltrepassa il senso origi-nario dei testi: «…ma io vi dico».

Però questi testi mantengono potenzialità ed iridescenze arricchenti che la rilettura evangelica non dispiega, limitata dal genere della controversia. Pertanto vanno rilanciati in modo espansivo. Ribadiscono che ogni coppia nasce per iniziativa divina, come dono e compito, nella reciproca gra-tuità: l’amore non si compra (Ct 8,7!). Propongono l’assoluta parità, termine preferibile ad ugua-glianza, poiché la differenza non è una ingiusta disparità, ma una ricchezza (1Cor 12,21). Evitano un nuovo individualismo, che considera il mondo come i prolungamenti di sé stesso, o un amore li-quido che dissolve i legami a suo capriccio.

Spicca il ruolo positivo dato alla donna. Non può essere brutalizzata, o ridotta a toy woman, né considerata ancilla diaboli (cf. il misogino Sir 25,24-26). La Bibbia, pur palesando incrostazioni culturali, svelenisce l’eros. L’uomo deve superare il complesso di Peter Pan, per consacrarsi alla sua donna e consacrare il loro amore. L’accettazione della propria nudità significa accettare l’altro nella sua povertà, non considerarlo un nemico da umiliare o dal quale difendersi, ma accoglierlo per quel-lo che lui/lei è, e non per quello che noi vorremmo che fosse. I testi suggeriscono cautela nell’evitare varie trappole. Può essere la competitività, specie se mascherata sotto il valore ambiguo del giusto femminismo/machismo; la non accettazione che l’altro sia responsabile di me, per cui non ci si apre con la scusa di non esasperare, o per nascondere debolezze; sentire l’altro/a come qualcuno/a che non potrà mai aiutarmi; la presunzione di essere confermati in coppia, per cui la si esalta, ma si trascura la persona. Per il credente la fede e il sacramento non azzerano insidie spesso ammantate di sacro: ci si rifugia in Dio, dal guru specializzato, in uno spiritualismo che relega la donna allo sfornare figli, enfatizzando la procreazione piuttosto che la comunione, o che persegue il primato dell’emozione, che può diventare idolatria. La coppia è un cammino, un perdersi per ritrovarsi. Se si va a Dio insieme, occorre rispettare i tempi dell’altro. Concludiamo con due perle rabbi-niche, a ricordare che ogni amore nasconde l’Amore:

Un discepolo chiese al suo maestro che rapporto ci fosse tra un Uomo (‘îš), Donna (‘îššāh), Dio (iāh) e il fuoco (‘ēš). Il maestro rispose: «Guarda bene le lettere dei nomi. Quando un uomo ed una donna si incontrano, anche se non credono, nascondono il mistero di Dio Creatore; ma, se tu togli le lettere di Dio (iāh) dal loro stare insieme, allora resta solo un fuoco (‘ēš) che li consuma».

Il mistero dell’amore coniugale si nasconde nella parola ebraica amore, che si compone di tre lettere la ‘(=‘alef), la h (=he), la b (=bet). Una coppia è una realtà unica, un corpo solo, come esprime la lettera alef, la prima dell’alfabeto che indica anche “uno”. Tuttavia è un’unità che non annulla le differenze, ma vive della ricchezza dell’uno e dell’altro, come esprime la lettera bet, che indica il “due”, ma anche la casa. Tutto ciò ha un senso e vive solo se la coppia è aperta all’accoglienza soprattutto del povero, come esprime la lettera he, che in ebraico sembra una ca-panna con un’apertura: se entra l’altro, entra anche l’Altro.