Letture festive – 159. Intelligenza – 20a domenica del Tempo ordinario – Anno B
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
20a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 18 agosto 2024
Dal libro dei Proverbi – Prv 9,1-6
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini – Ef 5,15-20
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 6,51-58
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letture festive 159
L’intelligenza (la cui etimologia suggerisce un leggere-dentro e quindi un cogliere in profondità o anche un leggere-tra e quindi un cogliere interconnessioni) non è solo una facoltà innata ma – in questo passo del libro dei Proverbi – è una via da seguire per coloro che accettano l’invito a nutrirsi del pane della Sapienza, compresi noi odierni lettori con Dio o senza Dio delle pagine bibliche. Attraverso la personificazione della Sapienza l’autore offre alcune suggestioni che noi potremmo applicare all’intelligenza della fede, intesa tanto in senso soggettivo e cioè come l’intelligenza della realtà a partire dalla fede, quanto in senso oggettivo e cioè come l’intelligenza dei contenuti di fede. Una plurisecolare riflessione teologica da parte di con Dio ha elaborato per gli stessi con Dio una quantità di forme e modalità di intelligenza della fede, tanto in senso oggettivo quanto in senso soggettivo. Per i senza Dio, invece, questo tipo di intelligenza della fede è oggi solamente agli inizi e deve quindi cercare e trovare nuovi modi e nuove forme. Seguendo le suggestioni di questo passo veterotestamentario, va anzitutto costruita una casa, da intendere qui come un’adeguata struttura teorica che sia aperta e non chiusa, partendo magari dalla definizione di teologia di David Tracy. Si tratta di una definizione di teologia aperta e quindi applicabile anche a una teologia senza Dio, dal momento che per Tracy la teologia consiste nel «tentativo di stabilire delle correlazioni reciprocamente critiche tra una interpretazione della tradizione cristiana e una interpretazione della situazione contemporanea». Una costruzione teorica anche aperta come questa non è tuttavia sufficiente, dal momento che l’intelligenza della fede (in senso soggettivo e oggettivo) necessita, anche per i senza Dio, di un qualche nutrimento di tipo emotivo, affettivo e relazionale. Questo va cercato e trovato nell’ascolto, nello studio e nella meditazione delle parole bibliche, in forme di quasi-preghiera che trovino parole dense ed espressive e in una partecipazione attiva alla dimensione comunitaria della vita ecclesiale. Se l’intelligenza della fede dei senza Dio si attrezza con una adeguata struttura concettuale e impara a nutrirsi – insieme – di bibbia, di parole così dense da poter essere quasi-pregate e di concrete relazioni comunitarie ed ecclesiali, allora diventa possibile un passo ulteriore. Quello che consiste nel mettere a disposizione di chiunque, condividendola, la propria esperienza di vita e di intelligenza della fede, esperienza e intelligenza che vanno esercitate attraverso un’assidua pratica di interpretazione caratterizzata da spregiudicatezza critica. Solo così, infatti, esperienza e intelligenza possono diventare pane e vino che accompagnano e sostengono il cammino di chi – con Dio o senza Dio – cerca una intelligenza della fede che possa essere personale e autentica pur essendo vissuta in una comunione ecclesiale costituita da una pluralità di intelligenze della fede.
In questo passo della lettera agli Efesini l’intelligenza potrebbe essere vista, da con Dio e da senza Dio, come quella facoltà che consente alle persone sagge di far buon uso del tempo, un tempo che in molti casi nel suo trascorrere, contrariamente a ciò che suggerisce il proverbio, non è affatto galantuomo. Il tempo diventa, infatti, cattivo quando i giorni lasciati passare inutilmente finiscono per essere sprecati insieme all’esistenza di chi non li sa vivere e interpretare adeguatamente. Il vivere in modo intelligente il tempo, invece, si basa, per con Dio e per senza Dio, sulla presenza di quattro elementi che possiamo riconoscere nel testo paolino. Il primo consiste nella pratica del discernimento, che Paolo definisce qui per i con Dio come il saper comprendere qual è la volontà del Signore e che i senza Dio potrebbero tradurre come la ricerca della via migliore per interpretare la propria vita in modo evangelico. Il secondo elemento che consente di vivere in modo intelligente il tempo consiste nell’evitare le possibili ubriacature di ogni tipo (da quelle di tipo religioso a quelle di tipo politico, solo per fare un paio di esempi), ubriacature che, facendo perdere lucidità e consapevolezza a con Dio e a senza Dio, distolgono dal vivere i giorni con intelligenza. Il terzo elemento consiste in ciò che Paolo indica, per i con Dio, in un essere ricolmi dello Spirito che unisce la comunità nella preghiera gioiosa del canto. Per i senza Dio, invece, possono essere le ispirazioni trovate nei testi biblici e liturgici a suscitare la produzione di quasi-preghiere con le quali arricchire in modo partecipato e vicendevole la vita comunitaria. Il quarto e ultimo elemento per con Dio e per senza Dio di un’esistenza che vive con intelligenza il tempo che le è dato è il coltivare assiduamente una gratitudine che virtualmente riguarda ogni cosa, perché ovunque può nascondersi qualcosa per cui essere grati.
Questo passaggio del testo giovanneo su Gesù come pane vivo, dove si parla espressamente della sua carne data da mangiare e del suo sangue dato da bere, suscita una discussione aspra tra i Giudei, spinti dalla propria intelligenza critica a porre una domanda piuttosto ovvia: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Nel dialogo e nel confronto tra opinioni e convinzioni diverse, comprese quelle che nella Chiesa oppongono con Dio e senza Dio si può anche arrivare a momenti di dibattito acceso, cercando sempre di mantenere il rispetto reciproco. Ma una critica intelligente richiederebbe a entrambe le parti di non fermarsi al primo, apparente e immediato significato delle parole e delle frasi, ma di compiere un adeguato sforzo interpretativo. Solo così, anche secondo l’evangelista Giovanni, si può essere introdotti a leggere in profondità e quindi a comprendere con intelligenza la verità del vangelo. Nella storia del cristianesimo e in particolare in epoca medioevale e ai tempi della Riforma protestante nel sedicesimo secolo ci si è posti in fondo la medesima domanda dei Giudei nel vangelo di Giovanni (Come può costui darci la sua carne da mangiare?). E si sono cercate risposte che risultassero convincenti per l’intelligenza critica della fede, così come praticata in quel periodo storico. Ma, data la pluralità esistente già allora nei modi di intendere l’intelligenza critica della fede l’interpretazione da dare alle parole evangeliche riguardanti Gesù come pane vivo in relazione alla celebrazione eucaristica è stata oggetto di contrapposizioni e accese controversie, per lo più riguardanti le diverse forme e gradazioni di realismo o di simbolismo da attribuire a queste stesse parole evangeliche. A distanza di secoli alcune dichiarazioni ecumeniche hanno consentito alle diverse Chiese di interpretare meglio alcune delle reciproche affermazioni e di ritirare alcune delle reciproche scomuniche. Rimangono tuttavia i nodi legati al problema della verità e in particolare i nodi legati al problema delle verità di fede e delle loro differenti comprensioni da parte delle diverse Chiese. Anche da questo dipendono gli ostacoli alla reciproca ospitalità eucaristica, in particolare da parte della Chiesa cattolica. Questi nodi rischiano di diventare ancora più difficili da sciogliere se, oltre alle relazioni ecumeniche tra le Chiese cristiane, si prendono in considerazione anche le relazioni extra-ecclesiali e intra-ecclesiali tra con Dio e senza Dio. In questo caso, infatti, le diverse interpretazioni delle verità di fede sembrano più divergenti di quelle che dividono le diverse confessioni cristiane e in fondo si giocano anche qui in buona parte – come già nelle controversie eucaristiche – su forme e gradazioni di realismo e di simbolismo che l’intelligenza critica della fede può e deve utilizzare nell’interpretare i contenuti del messaggio cristiano. Davanti a questo nodo problematico, tanto nei rapporti tra le confessioni cristiane quanto nei rapporti tra con Dio e senza Dio, andrebbero ricercate con intelligenza vie praticabili perché l’intelligenza della fede di tutti possa essere rispettata e fatta maturare nella comunione ecclesiale di una diversità riconciliata. Una via che mi pare promettente sarebbe quella fondata su quattro principi fondamentali che tutti, confessioni cristiane diverse, credenti con Dio e credenti senza Dio, dovrebbero poter condividere. Primo principio: la buona fede della coscienza che l’altro dichiara nella propria sincera ricerca della verità del messaggio evangelico va apprezzata e riconosciuta, purché rimanga aperta senza preclusioni e pregiudizi alla verità cui questa ricerca potrà condurre. Secondo principio: la coscienza dell’altro, anche nella elaborazione dell’intelligenza della fede alla quale può arrivare, va rispettata anche quando dovesse risultare invincibilmente erronea e l’altro non va escluso dalla comunione ecclesiale a motivo di un errore – per lui insuperabile – nella sua personale intelligenza della fede. Terzo principio: l’atto di fede del credente, come sembra suggerire perfino la teologia di Tommaso d’Aquino, si rivolge alla realtà ultima in sé stessa e non alle forme concettuali e linguistiche in cui questa realtà viene enunciata. Tali forme concettuali e linguistiche, infatti, possono essere limitate, imperfette o in certi casi addirittura erronee, ma ciò non impedisce all’intenzione di fede del credente di raggiungere infallibilmente la realtà ultima cui si rivolge, una realtà che sempre trascende le forme culturali e linguistiche in cui può essere enunciata. E ciò vale persino se questo medesimo credente, per sua ignoranza invincibile, fosse in condizione di articolare la propria intenzione di fede unicamente in una forma erronea sul piano culturale e linguistico. Quarto principio: tutto ciò dipende anche dal fatto che i contenuti della fede, fin dagli inizi del cristianesimo e in ogni epoca fino ad oggi esistono e si presentano sempre e unicamente nella forma di un amalgama culturale e linguistico di volta in volta diverso. Da questo amalgama, come afferma Karl Rahner, risulta impossibile estrarre una sorta di nucleo puro che esprima la verità di fede in una forma culturale e linguistica valida in ogni tempo e in ogni luogo, per con Dio e per senza Dio. L’autentica intelligenza critica della fede è tale solo quando riconosce e accetta con umiltà e intelligenza i propri stessi limiti. Questi limiti sono, infatti, un elemento necessario per comprendere e vivere la fede cristiana in quel modo autenticamente evangelico e personale richiesto dalla irriducibile diversità e pluralità di con Dio e senza Dio che sono chiamati alla medesima comunione ecclesiale.