Letture festive – 150. Limite – 12a domenica del Tempo ordinario – Anno B
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
12a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 23 giugno 2024
Dal libro di Giobbe – Gb 38,1.8-11
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi – 2Cor 5,14-17
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 4,37-41
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letture festive 150
Nei capitoli finali del libro di Giobbe il tema del limite si trova al centro del discorso e dell’argomentazione con la quale Dio ribatte alle domande di un uomo giusto, Giobbe, il quale si trova colpito ingiustamente dalla sventura, come può capitare anche oggi tanto a con Dio quanto a senza Dio. Il testo riguarda il porre un limite alle forze della natura e questo è, nella cosmologia antica, indicatore di un potere che il divino possiede ed esercita e che invece gli esseri umani non possiedono e quindi non possono esercitare. Ma il Dio biblico intende porre un limite non solo all’orgoglio delle forze cosmiche, come leggiamo in questa pagina, ma anche all’orgoglio delle obiezioni che Giobbe, spinto dalle proprie sofferenze, pone al suo interlocutore divino. E in questi capitoli del libro il limite che Giobbe è invitato da Dio a riconoscere riguarda anzitutto la propria limitata capacità di conoscere davvero il senso complessivo della creazione. Il limite della conoscenza di Giobbe, cioè, viene utilizzato da Dio come argomento per evitare di rispondere alle domande di Giobbe – e dell’umanità intera – riguardanti il dolore e il male subiti ingiustamente. L’interlocutore divino di Giobbe, attraverso una serie di domande retoriche che riguardano lui stesso come Dio creatore del mondo, sostanzialmente zittisce lo stesso Giobbe facendogli notare i limiti della sua conoscenza e che non è lui il creatore del mondo. Ma i presupposti di questo dialogo li ritroviamo anche nel dibattito che da secoli impegna con Dio e senza Dio riguardo alla cosiddetta teodicea, cioè al tentativo di giustificare il comportamento di un Dio che si ritiene onnipotente e buono in un mondo da lui stesso liberamente creato e dal quale tuttavia sembra impossibile estirpare il male, un male che provoca a molti viventi innocenti, sofferenze ingiustificabili dal punto di vista etico e sproporzionate in molti casi persino se messe in relazione agli errori o alle colpe commesse. Ma si tratta di presupposti che presentano un limite fondamentale che impedisce radicalmente all’approccio della teodicea la possibilità di arrivare a un risultato utile e convincente: il presupposto è quello di considerare come reale – senza metterla in discussione – l’esistenza di un Dio creatore, onnipotente e buono, con il quale l’uomo colpito dalla sventura potrebbe interloquire, come avviene ad esempio nel libro di Giobbe. Questo approccio può avere senso soltanto per i con Dio che danno appunto per scontata l’esistenza di un Dio inteso in senso teistico, anche se gli stessi con Dio non sembrano ancora aver trovato una risposta davvero convincente alla domanda posta dalla teodicea: «Se Dio è un creatore buono e onnipotente, come si può spiegare e giustificare, in questo mondo con i suoi limiti, l’esistenza del male e della sofferenza, nelle forme e dimensioni che conosciamo?» Da parte loro i senza Dio non possono accettare il problema della teodicea formulato in questi termini, ma possono porsi questa domanda: «Se Dio, inteso in senso teistico non esiste, come si può spiegare e giustificare, nel complesso della realtà con i suoi limiti, l’esistenza del male e della sofferenza, nelle forme e dimensioni che conosciamo?» La risposta dei senza Dio è in un certo senso più semplice di quella che i con Dio devono cercare, dal momento che i primi possono rispondere che ciò dipende dai molti limiti che la realtà intrinsecamente presenta a diversi livelli, e tra questi limiti vi è certamente quello che la realtà nel suo complesso non sembra manifestare orientamenti finalistici corrispondenti ai desideri umani né preoccupazioni etiche per il male e le sofferenze che i viventi devono sopportare. Anche se ciò non rende necessariamente più semplice per i senza Dio accettare e vivere l’esperienza della sofferenza e del male più di quanto possa avvenire per i con Dio, tuttavia i senza Dio – davanti agli evidenti e importanti limiti della realtà – per lo meno non devono porsi il problema aggiuntivo di poter dubitare della bontà o dell’onnipotenza di qualcuno (un Dio inteso in senso teistico) dal quale ci si aspetterebbe un intervento nel mondo che per lo meno riducesse, se non eliminasse, le sofferenze e il male.
L’autore della seconda lettera ai Corinzi mette in relazione la condizione che viene descritta come un essere posseduti dall’amore del Cristo con quel limite estremo dell’esistenza umana che è costituito, per con Dio e per senza Dio, dalla propria morte oltre che dalla morte dello stesso Cristo. E questa morte del Cristo e di ciascun discepolo che si mette alla sua sequela, questa morte intesa come limite, è precisamente quella che rende possibile all’esistenza umana, con i suoi limiti, di trovare un senso, cioè una direzione e insieme un significato e un valore, nell’apertura di un vivere non più costretto a perseguire come fine ultimo unicamente sé stessi. Qualcosa di simile, del resto, è stato affermato anche dalle filosofie novecentesche collegabili all’esistenzialismo, quando hanno sottolineato la paradossale importanza che ha per la vita di un essere umano il suo essere limitato e destinato alla morte. Ma, tornando alla pagina neotestamentaria, l’essere presi da quello che viene chiamato l’amore di Cristo trova nel limite della morte almeno tre possibili forme di superamento di questo stesso limite, che possono valere anche oggi per noi credenti con Dio o senza Dio: la prima forma di superamento del limite della morte consiste nella possibilità di una vita vissuta in questo tempo e in questo mondo come vera e propria esistenza da risorti, che hanno in qualche modo oltrepassato una condizione di morte, perché hanno imparato a vivere non più per sé stessi ma per qualcun altro, nei modi che – anche se diversamente tra loro – con Dio e senza Dio possono ritenere propri della resurrezione; la seconda forma di superamento del limite della morte consiste in uno sguardo inedito sulla condizione umana e sulla stessa figura di Cristo, uno sguardo che può diventare più alto e più profondo per con Dio e per senza Dio grazie alla novità del messaggio cristiano; la terza forma di superamento del limite della morte consiste nel radicale rinnovamento evocato dalla condizione di nuova creatura, per la quale le cose vecchie sono passate e ne sono nate di nuove, compresa la possibilità che credenti con Dio e senza Dio – superando quello che potrebbe sembrare un limite invalicabile – si trovino ad abitare la medesima comunità ecclesiale.
Con questa narrazione della tempesta sedata l’evangelista Marco sembra voler ricordare ai propri lettori come la missione e la testimonianza evangelica richiedano di superare il limite dei confini consueti. Questa esigenza, particolarmente rilevante anche per noi odierni credenti con Dio o senza Dio, viene espressa con l’immagine del passare all’altra riva, su una barca che deve essere capace di attraversare tempeste. Queste tempeste di vario tipo possono suscitare paure altrettanto varie ma a missionari e testimoni è chiesto di affrontare queste paure con ciò che si pone esattamente all’opposto della paura e cioè la fede. La paura da parte dei discepoli, infatti, tende a porre limiti ai possibili destinatari della missione, ma si tratta di una paura che va superata, oggi come in passato, ricordando che la parola evangelica e la Chiesa devono aprirsi e rimanere aperte a chiunque, anzi – come direbbe papa Francesco – a tutti, tutti, tutti… e questo anche per sfuggire alla maledizione che il Gesù di Luca (al capitolo 11 del suo vangelo) pronuncia nei confronti di coloro che non entrano e impediscono ad altri di entrare. Ma in questi attraversamenti missionari e testimoniali del limite, in questo passare all’altra riva, quando si sperimentano i limiti e le fragilità delle proprie imbarcazioni e i limiti e le fragilità dei compagni di traversata, perché la paura possa essere affrontata e superata dai credenti con una fede piena di fiducia è necessaria la parola di Gesù, la parola del messaggio evangelico che consente di affrontare questi limiti gestendoli e arrivando all’altra riva. Ma vi è un’altra possibile suggestione riguardante il limite che questo brano può offrire se – al di fuori di una rappresentazione della forza divina di Gesù come quella che Marco descrive qui in termini simbolici e metaforici – vi si riconosce il carattere insensato della pretesa umana di controllare in modo assoluto la natura e le sue forze. Ciò che, infatti, dovrebbe restare una rappresentazione mitico-simbolica della forza presente nella figura di Gesù, finisce per evocare le deliranti fantasie di onnipotenza di un’umanità inconsapevole tanto del proprio limite quanto dei limiti del pianeta che abitiamo, un’umanità che si illude di poter dominare le forze della natura a proprio piacimento, arginandone le conseguenze distruttive semplicemente dando un ordine e aspettandosi obbedienza. Da questo punto di vista, con Dio e senza Dio, potrebbero sentirsi invitati da questo testo a riflettere criticamente sulla insensatezza e sulla irresponsabilità di umani che, in ogni caso, non sono Dio, ma pensano di poter dominare il pianeta senza tenere conto dei suoi limiti e senza accettare di porre limiti a sé stessi e ai propri comportamenti. Solo se si accompagnano a questa riflessione critica, la fede e la fiducia di con Dio e di senza Dio possono affrontare in modo intelligente e lungimirante le paure, superando quelle che vorrebbero imporre limiti alla missione e alla testimonianza, ma riconoscendo l’utilità di quelle che suggeriscono di non superare i limiti del pianeta, se vogliamo che rimanga abitabile per i viventi del presente e del futuro.