Letture festive – 144. Parzialità – Ascensione del Signore – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

Ascensione del Signore – Anno B – 12 maggio 2024
Dagli Atti degli Apostoli – At 1,1-11
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni – Ef 4,1-13
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 16,15-20


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letture festive 144

Gli uomini di Galilea, nella narrazione iniziale del libro di Atti, sembrano avere – come anche oggi molti uomini di ogni provenienza, con Dio o senza Dio – una specie di ritrosia a riconoscere la propria parzialità, cioè a riconoscere di poter essere solo una parte e non il tutto. E questo proprio mentre sono in ricerca di una totalità che però continuamente sfugge loro, così come fa, del resto, il Gesù apparso come risorto per quaranta giorni – un tempo che richiama l’esodo nel deserto – e che ora si sottrae al loro sguardo in una nube che lo nasconde nel suo ascendere al cielo. La totalità che gli uomini di Galilea desiderano ardentemente è quella formulata nella loro domanda: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Il narratore di Atti, in effetti, nell’indirizzarsi al suo lettore ideale, a colui che ama Dio (come suggerisce il nome greco Teòfilo), dichiara di aver trattato già tutto quello che Gesù ha fatto fino al momento dell’ascensione e persino il tempo di quaranta giorni delle apparizioni del risorto, suggerisce agli uomini di Galilea che sia finalmente giunto il tempo del totale compimento di ciò che fino ad allora era stato possibile sperimentare solo in forma frammentaria: stiamo parlando, appunto, del ricostituirsi – ricompattato nella sua totalità – di quel regno di Israele al centro dei sogni religiosi e nazionalistici dell’ebraismo del primo secolo. Ma questa attesa degli uomini di Galilea, impazienti di uscire dalla condizione di parzialità collegata anche al loro essere “di Galilea” (e cioè provenienti da un luogo specifico e parziale), ebbene questa attesa è destinata a rimanere delusa. Non solo, infatti, il Gesù risorto lascia intendere che non sarà certo lui a ricostituire la totalità del regno per Israele, dal momento che sta per congedarsi da loro; non solo costringe il gruppo a riconoscersi irrimediabilmente parziale, in quanto privato della sua presenza; non solo ordina loro di attendere ulteriormente (anche se per non molti giorni) l’adempimento di una promessa, quella del battesimo nello Spirito; non solo Gesù riconduce a un potere che la divinità ha riservato per sé quella forma di totalità che il conoscere sembra promettere, totalità del conoscere che, invece, agli uomini di Galilea – nella loro condizione di parzialità – non è data; ma – soprattutto – la testimonianza che sarà richiesta dallo Spirito agli uomini di Galilea dovrà andare ben oltre la sognata ricostruzione della totalità di Israele, dal momento che Gerusalemme, Giudea e Samaria saranno solo tappe che precedono un cammino diretto ai confini della terra. Un orizzonte così ampio e aperto evidenzia l’impossibilità per chiunque di pensarsi come totalità anziché come parzialità. E tuttavia per gli uomini di Galilea – come anche oggi per molti uomini di ogni provenienza, con Dio o senza Dio – è difficile rinunciare all’illusione di essere non una parte ma, in qualche modo, il tutto. Evidentemente gli uomini di ieri e di oggi, dentro e fuori la Chiesa, con Dio o senza Dio, faticano ancora ad acquisire quella consapevolezza della propria parzialità che è in realtà il modo di stare al mondo che più corrisponde alla condizione umana. Si tratta di una consapevolezza che il pensiero, gli studi e le lotte femministe da molto tempo vanno testimoniando e insegnando, fuori e dentro la Chiesa, a beneficio soprattutto dei maschi, i quali però, come gli antichi uomini di Galilea, rimangono purtroppo in larga parte refrattari a questa testimonianza e a questo insegnamento. Anche se può sembrare paradossale, infatti, il cristianesimo, per poter rispettare la propria destinazione universalistica, deve riconoscere la propria singolare parzialità e così testimoniare la possibilità di essere raggiunto dal messaggio cristiano a ciascuno nella sua propria parzialità, compresa quella di essere con Dio o senza Dio.

Questo passo della lettera agli Efesini esorta i componenti della comunità a riconoscere, accettare e sopportare vicendevolmente le rispettive parzialità, in questo caso caratteristiche personali che richiedono umiltà, dolcezza e magnanimità per essere, appunto, accettate e sopportate nell’amore. Nell’odierna realtà ecclesiale i con Dio e i senza Dio rappresentano due tra le possibili parzialità che, secondo il testo paolino, richiederebbero reciprocamente un comportamento degno della chiamata ricevuta. E di questa chiamata l’autore della lettera sottolinea ed enfatizza l’invito all’unità quasi fosse un antidoto al rischio di una contrapposizione disgregatrice della comunità e un antidoto al rischio di un’aggressività distruttiva delle persone e delle relazioni. Sarebbe, tuttavia, illusorio e controproducente ritenere che nell’esperienza delle comunità cristiane – di quelle di oggi così come di quelle delle origini – il richiamo all’unità possa o debba appiattire differenze e parzialità anche conflittuali. Conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace richiede a con Dio e a senza Dio di accettare – prima ancora di quella altrui – anzitutto la propria parzialità, rinunciando alla tentazione di considerare sé stessi e le proprie convinzioni come il tutto e come il vero. Quando si parla di un solo corpo, di un solo spirito, di una sola speranza, di un solo Signore, di una sola fede, di un solo battesimo, di un solo Dio e Padre, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti, questa enfasi retorica sull’unità e sull’unicità ha lo scopo di esortare a riconoscere come la propria e altrui insuperabile parzialità possa e debba tendere a una composizione che nelle comunità cristiane credenti può prodursi solo nell’amore evangelico e nell’accettazione reciproca dell’altrui diversità, compresa quella che con Dio e senza Dio possono legittimamente ritenere dipenda da un qualche errore dell’altro, un errore forse invincibile che non deve impedire, però, l’unità della comunione fraterna vissuta nell’amore evangelico. Vi è poi un’altra parzialità che la lettera agli Efesini segnala come una ricchezza delle primitive comunità cristiane e che nel tempo si è andata perdendo, a motivo del progressivo concentrarsi in poche figure di autorità e di potere di quella che verosimilmente nelle prime comunità era una ministerialità diffusa e plurale. I doni che, infatti, abilitano i componenti della comunità a svolgere un determinato servizio, uno specifico ministero, si presentano in questo testo come strutturalmente parziali nella loro pluralità complementare e reciproca. In questo senso ad alcuni è dato il dono di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri. Accorpare in una sola figura queste funzioni, come avvenuto storicamente per il ministero ordinato nella Chiesa cattolica, ha significato muoversi in una direzione opposta a quella auspicata dalla lettera agli Efesini e ha fatto coltivare nella Chiesa l’illusione che la parzialità dei doni potesse essere superata in una sorta di super-ministero totale in grado di riassumere ed esprimere al meglio tutti i doni. La gravità dell’odierna crisi di identità e di esercizio del ministero ordinato cattolico, che è il prodotto di questo percorso storico, richiederebbe urgentemente un’inversione di marcia, per ritornare al riconoscimento delle potenzialità virtuose di una parzialità plurale e diversificata, nell’ambito di una ministerialità trasformata e orientata a promuovere la partecipazione ecclesiale di tutti i soggetti, con Dio o senza Dio. In questo quadro, l’invito di papa Francesco a “smaschilizzare” la Chiesa dovrebbe essere solo il primo di molti passi nella direzione di una Chiesa in uscita dal patriarcato e da tutte le forme ingiuste e ormai difficilmente giustificabili di esclusione delle donne da funzioni di responsabilità, semplicemente in quanto appartenenti al genere femminile. Proprio le donne del resto – e in particolare le femministe, con Dio o senza Dio – sarebbero probabilmente le migliori testimoni e maestre in una Chiesa che ha urgente bisogno di riconoscere, accettare e valorizzare la parzialità e particolarità di ciascuno e di ciascuna.

Nel capitolo finale aggiunto successivamente al vangelo di Marco, il discorso di Gesù sembra voler introdurre i suoi al futuro di una proclamazione del vangelo caratterizzato dalla parzialità e non dalla totalità, benché il messaggio evangelico sia virtualmente rivolto a ogni creatura. Una prima parzialità è suggerita già dal numero di coloro che prima erano dodici e sono rimasti in undici. La seconda parzialità dipende dal fatto che nel mondo e nella storia sia il bene che il male devono riconoscere la loro reciproca – anche se ovviamente diversa – parzialità, dal momento che nessuno dei due sembra aver raggiunto una qualche forma di controllo sulla totalità del reale. Se quindi sia il male che il bene sono parziali, la seconda parzialità di questo testo consiste nel fatto che non tutti saranno salvati ma solo coloro che crederanno. La distinzione tra salvati e condannati, tra credenti e non credenti, non coincide tuttavia necessariamente con la distinzione tra con Dio e senza Dio. Coloro che credono, infatti, con Dio o senza Dio, saranno accompagnati da alcuni segni che – davanti alle molteplici forme con le quali il male si presenta nel mondo e nella storia – esprimono precisamente la parzialità di una presa di posizione etica e spirituale che si riconosce ispirata dal nome e dalla figura di Gesù e cioè dall’insegnamento evangelico. Così alla parzialità di un male che – simboleggiato dalla possessione demoniaca – tende a fare completamente sua la propria vittima si deve opporre una parzialità evangelica capace di schierarsi dalla parte della vittima per scacciare questo male. Alla parzialità di un male che vuole ricondurre la comunicazione a un unico linguaggio si deve oppone una parzialità evangelica capace di apprendere e parlare una pluralità di linguaggi anche nuovi. Alla parzialità di ciò che può avvelenare l’esistenza, dall’esterno o dall’interno – come possono fare serpenti e veleni – si deve oppone la forza nonviolenta di una parzialità evangelica capace di maneggiare adeguatamente, rimanendone immuni, le possibili minacce. L’ultima radicale parzialità dell’umano ad essere richiamata è quella che con Dio e senza Dio incontrano nell’esperienza della malattia propria o altrui, e cioè la parzialità dell’umano che si confronta con il proprio limite strutturale. Si tratta di una parzialità che tuttavia, nell’incontrare altre parzialità umane disponibili a prendersene cura, può fare esperienza – secondo le parole di Gesù nel suo congedarsi – di una qualche forma di guarigione. Ma, una volta giunti alla fine di questa pagina che conclude il testo attuale del vangelo di Marco, con Dio e senza Dio vengono invitati a riconoscere la parzialità complementare delle stesse forme di presenza della figura di Gesù. Se infatti, da una parte, il Signore Gesù viene elevato in cielo e siede alla destra di Dio, dall’altra parte e contemporaneamente, lo stesso Signore agisce insieme con i suoi e conferma la Parola con i segni che la accompagnano. La possibilità di relazione con la figura di Gesù che è data anche a noi, discepoli odierni, si articola allora in una parzialità almeno duplice di questa stessa figura di Gesù, che ci è chiesto di riconoscere, accettare e interpretare, a partire anzitutto dalla nostra propria e individuale parzialità di credenti con Dio o senza Dio.