Letture festive – 143. Chiunque – 6a domenica di Pasqua – Anno B
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
6a domenica di Pasqua – Anno B – 5 maggio 2024
Dagli Atti degli Apostoli – At 10,25-26.34-35.44-48
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo – 1Gv 4,7-10
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 15,9-17
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letture festive 143
L’orientamento universalistico del messaggio cristiano, grazie al quale chiunque – con Dio o senza Dio – può riconoscere tale messaggio come rivolto anche a sé stesso, trova uno dei riferimenti fondamentali nella narrazione di questo testo di Atti, che la liturgia propone qui solo in alcuni dei suoi passaggi. Pietro, il protagonista, si trova a sperimentare una conversione o – più precisamente – uno spostamento rispetto al proprio consueto punto di vista. Nella narrazione di Atti questo processo viene innescato da un sogno riguardante la non-impurità di alcuni cibi, una sorta di esperienza mistica nella quale una voce dall’alto sostanzialmente invita Pietro ad allargare i confini entro i quali lui ritiene si debba delimitare una legittima esperienza di fede perché possa rimanere autenticamente cristiana. Si tratta di un allargamento di prospettiva necessario affinché – in particolare nella realtà odierna del nostro contesto cristiano ed ecclesiale – i con Dio possano riconoscere a chiunque – e quindi anche ai senza Dio – una possibilità di ispirazione cristiana e una legittimità di appartenenza o partecipazione ecclesiale. Questo allargamento di prospettiva secondo Atti avviene in tre momenti, primo: una nuova e più matura intuizione di alcuni aspetti del messaggio cristiano, che troviamo formulata in questa solenne dichiarazione di Pietro: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga»; secondo momento: la constatazione meravigliata di eventi in sintonia con il messaggio cristiano che si verificano, però, al di fuori di quello che viene considerato l’ambito ecclesiale, in questo caso i segni del dono dello Spirito riconosciuti nel parlare in lingue da parte dei pagani; terzo momento: un’assunzione di responsabilità ecclesiale che trae conseguenze pratiche da questa intuizione e da questa constatazione, per cui Pietro ordina il battesimo dei pagani – e quindi la loro piena inclusione nella comunità ecclesiale – con questa motivazione: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». Si può notare come la dinamica descritta qui in Atti al capitolo 10 riguardo a Pietro presenti interessanti analogie con la dinamica descritta sempre in Atti, al precedente capitolo 9, riguardo a Saulo. Anche in quel caso troviamo (primo momento) una nuova e più matura intuizione da parte di Saulo: quella dell’identità tra la figura di Gesù e i suoi discepoli che Saulo sta perseguitando; abbiamo poi (secondo momento) un riluttante Anania che viene invitato a constatare nel cambiamento avvenuto in Saulo un evento in sintonia con il messaggio cristiano, anche se si verifica al di fuori di quello che viene considerato l’ambito ecclesiale; allo stesso Anania viene chiesta, infine, (terzo momento) un’assunzione di responsabilità ecclesiale che trae conseguenze pratiche da questa intuizione e da questa constatazione, fino ad arrivare al battesimo di Saulo. Anche oggi, affinché chiunque, con Dio o senza Dio, possa arrivare ad essere accolto e se lo desidera incluso nella comunità cristiana, è necessario che questi tre momenti, che Atti collega a Pietro e a Paolo, vengano ripercorsi e apprezzati, fatti propri e attuati nelle nostre comunità ecclesiali, anzitutto da parte di coloro che, come Pietro e Paolo, si trovano a svolgere in esse un servizio rilevante con un’autorità e un potere che li rendono in modo proporzionato anche responsabili.
L’autore della prima lettera di Giovanni, nel suo discorso sull’amore, formula una sorta di duplice principio: «chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» e «Dio è amore», principi che però presentano alcuni aspetti paradossali e sorprendenti. Il primo è che, per valere davvero per chiunque, tali principi devono poter riguardare non solo i con Dio ma anche i senza Dio e quindi anche coloro i quali ritengono che Dio non esista, per lo meno se inteso in senso teistico. Si potrebbero forse allora riformulare i due principi in questi termini: essere generati da Dio o (per i senza Dio) dall’amore e conoscere Dio o (per i senza Dio) l’amore, ebbene: queste sono esperienze possibili per chiunque, a condizione di amare. Ma il secondo aspetto paradossale e sorprendente è che – per chiunque – fare esperienza dell’amore non consiste anzitutto nell’amare, ma nello sperimentare un amore ricevuto, nell’essere amati, nel sentirsi amati. Questo, secondo l’autore della prima lettera di Giovanni, risulta piuttosto evidente per il fatto che «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» e perché questo amore di Dio – che si è manifestato nel mandare il Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita – si collega alla conoscenza che noi possiamo avere di un Dio che ama. Ma, come ci ricorda l’autore di questo testo, «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore», per cui la dinamica discendente che vede l’amore proveniente da Dio concludersi nell’esperienza dell’essere umano che si riconosce amato da Dio, richiede un ulteriore passo, che può avvenire solo se all’amore ricevuto segue un amore rivolto in altre direzioni. E le prime direzioni di questo amore proveniente da Dio devono essere quelle di un amore vicendevole. Tutto questo si può tradurre – soprattutto nel caso dei senza Dio ma non solo per loro – in una dinamica generativa nella quale per chiunque, con Dio o senza Dio, sperimentare l’amore in modo autentico è possibile solo se, per così dire, a monte vi sia l’esperienza di un amore in qualche modo ricevuto e, per così dire, a valle vi sia l’esperienza di un amore in qualche modo rivolto, anzitutto, non tanto alla fonte dell’amore ricevuto, ma ad altre persone con le quali, invece, possa esservi reciprocità nell’amore. Quest’ultima esperienza di amore reciproco diventa allora, per con Dio e per senza Dio, una prova del fatto che si è ricevuto un qualche tipo di amore e una testimonianza del fatto che l’amore ricevuto può creare le condizioni di una nuova possibile circolazione di amore reciprocamente donato.
Queste parole che l’evangelista Giovanni mette sulla bocca di Gesù, all’interno dei discorsi di commiato ambientati nell’ultima cena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici», potrebbero essere riformulate, per con Dio e per senza Dio, in questi termini: chiunque dà la sua vita per i propri amici, questa persona ha l’amore più grande. Intendendo con chiunque l’insieme dei possibili soggetti che dando la vita per i propri amici, precisamente in questo modo hanno l’amore più grande, non si vogliono affatto ridurre tutte le persone a esseri interscambiabili e privi di propria e specifica soggettività. Quando in generale si attribuisce qualcosa a chiunque, effettivamente si rischia di cadere in una sorta di appiattimento delle differenze o in una forma di indifferentismo, nel quale il soggetto con le proprie specifiche caratteristiche rischia di scomparire o di essere assimilato ad altri senza troppe distinzioni, ma il testo giovanneo consente di evitare precisamente questo rischio. Le persone amiche, infatti, sono anche quelle che concorrono a definire la particolare soggettività di una determinata persona, dal momento che le autentiche relazioni amicali si caratterizzano, ciascuna, come unica e specifica. Il parlare nell’ambito del cristianesimo odierno di chiunque come di un possibile destinatario del messaggio cristiano significa e vuole propriamente custodire l’apertura e l’orientamento universalistico e non discriminatorio, non rigidamente identitario e non egoisticamente esclusivo di questo stesso messaggio cristiano. Ma, nello stesso tempo, è probabilmente impossibile – tanto per con Dio quanto per senza Dio – avere l’amore più grande nei confronti di chiunque senza avere delle persone amiche per le quali si sarebbe disposti a dare la vita. In questo senso, l’apertura universalistica del messaggio cristiano a chiunque non può fare a meno dell’incontro con determinate persone reali e ben precise nelle loro particolarità e nella loro concretezza. Così come, del resto, limitarci alla esclusiva coltivazione delle relazioni amicali, riducendo a queste il nostro proprio mondo ed escludendo chiunque altro volesse entrare in relazione con noi, difficilmente potrebbe essere considerato un comportamento autenticamente cristiano. Da questo punto di vista, la comunità ecclesiale potrebbe e dovrebbe costituire un luogo, un tempo e un’esperienza grazie alla quale con Dio e senza Dio imparano insieme a coltivare nel vissuto quotidiano questo equilibrio dinamico tra l’apertura a chiunque e il dare la vita per le persone amiche.