Letture festive – 123. Discendenza – Santa Famiglia – Anno B
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
Santa Famiglia – Anno B – 31 dicembre 2023
Dal libro della Gènesi – Gn 15,1-6; 21,1-3
Dalla lettera agli Ebrei – Eb 11,8.11-12.17-19
Dal Vangelo secondo Luca – Lc 2,22-40
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letture festive 123
Secondo il libro della Genesi, la ricompensa più grande che Abram può desiderare di ricevere dal Signore è quella di una discendenza alla quale lasciare la propria eredità. Discendenza ed eredità sono elementi molto rilevanti tanto per con Dio quanto per senza Dio, quale che sia il tempo o la cultura alla quale si appartiene. Discendenza ed eredità indicano, infatti, chi e che cosa si lascia dopo di sé come proveniente in qualche modo da sé e – proprio per questo – concorrono a definire l’identità personale di chi lascia una discendenza e un’eredità. Abram accenna alla grande differenza che vi è tra un proprio figlio biologico e un proprio servitore o schiavo, una differenza che in realtà presenta anche aspetti paradossalmente contrastanti: il figlio proviene anche da te ed è in un certo senso parte di te, ma può essere anche molto diverso da te e prendere le distanze da te, scegliendo di non fare quanto gli chiedi. Al contrario, il servitore non proviene da te ma viene messo a tua disposizione, non è per nulla parte di te ma puoi affidargli molto del tuo perché ti serva al meglio, facendo quanto gli chiedi. E questa paradossale differenza si riflette, per con Dio e per senza Dio, anche sul tema della eredità, che nel figlio biologico è anzitutto – nel bene e nel male – un’eredità genetica, rispetto alla quale non esiste possibilità di essere “diseredati”, mentre al servitore l’eredità – patrimoniale e non genetica – viene solitamente lasciata per una scelta compiuta in mancanza di opportunità migliori. Nel caso di Abram – al quale Dio cambierà nome in Abraham proprio in riferimento alla sua discendenza – il figlio infine arriverà, insieme alla promessa che la discendenza sarà numerosa come le innumerevoli stelle del cielo. La straordinaria forza di questa discendenza – che giunge come ricompensa nel tempo limite della vecchiaia di Sara e di Abram – caratterizza, per con Dio e per senza Dio, ogni autentica discendenza, che per essere tale deve essere costituita da figli – biologici o meno – ma non da servitori o schiavi. Tale forza della discendenza è duplice e consiste, da una parte, nel giungere sempre e comunque in tempo, un tempo che l’autore biblico definisce come quello fissato da Dio; dall’altra parte, consiste nell’essere in realtà solo l’inizio di una storia del tutto nuova, ancora non scritta e solo in parte immaginabile, una storia che, pur provenendo da noi, è capace di andare avanti – come i figli – dopo di noi e diversamente da noi.
L’autore della lettera agli Ebrei, riprendendo gli esempi di Abramo e Sara, sottolinea il rapporto tra discendenza e fede a partire da una definizione di fede come “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”, definizione alla quale fa seguire molti esempi ricavati da figure veterotestamentarie. A ben vedere, infatti, l’avere una discendenza e il coltivare un atteggiamento di fede presentano molte analogie e si possono vedere intrecciati in molti modi, tanto nei con Dio quanto nei senza Dio. Avere una discendenza e coltivare un atteggiamento di fede consistono entrambe in un partire con la speranza di ottenere qualcosa, ma senza sapere dove si stia andando e dove si arriverà. Avere una discendenza e coltivare un atteggiamento di fede possono presentarsi anche come esperienze insperate, inattese o apparentemente impossibili. Avere una discendenza e coltivare un atteggiamento di fede sembrano presuppore come requisito una sorta di fiducia fondamentale che si esprime nella capacità di ritenere affidabile qualcun altro. Vi è poi qualcosa – in questo testo della lettera agli Ebrei – che sembra in totale contraddizione con l’avere una discendenza e forse anche con il coltivare un atteggiamento di fede: l’accettare di poter perdere il discendente, rinunciandovi per un qualche buon motivo che giustifichi questa perdita. Quello di Abramo che si mostra pronto a offrire Isacco per obbedienza al comando divino è uno degli episodi biblici più difficili da accettare, tanto per i con Dio quanto per i senza Dio. Eppure anche l’invito neotestamentario ad accettare di perdere la propria vita per poterla ritrovare suggerisce, in realtà, qualcosa di molto simile. Se le difficoltà dei con Dio di fronte a pagine come queste riguardano l’immagine stessa di Dio che se può ricavare, i senza Dio, che non hanno la necessità di difendere una determinata immagine di Dio, possono forse, più liberamente, arrivare al cuore di ciò che la pagina di Isacco rivela dell’esperienza umana della discendenza: gli umani che generano una discendenza devono riconoscerne e accettarne la finitezza e la mortalità. L’offerta di Isacco da parte di Abramo sarebbe quindi da leggere come il riconoscimento e l’accettazione di questa finitezza e mortalità della propria discendenza. E il simbolo di resurrezione rappresentato in Isacco ricorderebbe che può davvero vivere e trasmettere vita alla propria discendenza solo colui che ne ha riconosciuto e accettato la finitezza e la mortalità. Senza questo riconoscimento e senza questa accettazione, non può esservi autentica esperienza di discendenza nel tempo, perché questa comporta e richiede che i figli generati oggi, un giorno, morendo, lascino a loro volta il mondo ai propri figli e nipoti.
Nel vangelo di Luca la presentazione al tempio di Gesù costituisce forse la celebrazione più alta e profonda del suo essere discendenza, attraverso una sorta di duplice dilatazione, nel tempo e nello spazio, capace di raggiungere con Dio e senza Dio. La dimensione temporale della discendenza proviene anzitutto dal passato delle tradizioni antiche, che si rifanno alla necessità di riscattare un primogenito che altrimenti dovrebbe condividere la tragica sorte dei primogeniti d’Egitto. Nella direzione del futuro, troviamo invece lo sguardo di Simeone che riconosce nel bambino il futuro atteso e la luce destinata a rischiarare Israele e le genti non ebree. Una luce che però attraversa come una lama i cuori di chi se ne lascia illuminare, dal momento che svela la verità di pensieri e intenzioni in modi che, mentre distinguono e separano, possono ferire. Da parte sua, la profetessa Anna, che inizia a parlare del bambino a chi attende liberazione, diventa la prima predicatrice di un Gesù ancora bambino, ma già simbolicamente portatore di un messaggio liberante. Queste figure profetiche di anziani – anziani come lo sono Abram e Sara – accompagnano l’affacciarsi al mondo religioso di quella discendenza salvatrice che Gesù rappresenta nella linea di un tempo proteso dal passato verso il futuro. Ma queste stesse figure di anziani testimoniano anche la dilatazione della discendenza in uno spazio che ha confini più ampi di quelli della famiglia costituita da Gesù e dai suoi genitori. Custodendo e coltivando l’attesa e la speranza di tutto un popolo Simeone e Anna arrivano a sperimentare l’incontro con un Gesù bambino che compie le attese e riapre le speranze come l’incontro con una propria discendenza spirituale, per la cui venuta sono grati tanto quanto lo possono essere dei genitori. Per con Dio e per senza Dio, infatti, la discendenza, risalendo nel tempo passato o protendendosi verso il futuro, può riguardare non solo ascendenze o discendenze biologiche, bensì anche spirituali e ideali, comunitarie e profetiche, ispiratrici e simboliche. In questo modo, come per Simeone e Anna, l’esperienza di una paternità e maternità non biologica ma spirituale e simbolica può consentire a con Dio e a senza Dio di sentirsi comunque, in relazione alla propria discendenza, altrettanto generativi e fecondi, coinvolti e pieni di gioia.