Letture festive – 113. Maestri – 31a domenica del Tempo ordinario – Anno A
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
31a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 5 novembre 2023
Dal libro del profeta Malachìa – Ml 1,14b-2,2b.8-10
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési – 1Ts 2,7b-9.13
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 23,1-12
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letture festive 113
Maestri sono coloro che per vocazione o per lavoro dovrebbero offrire con autorevolezza un insegnamento vero che – in quanto tale – possa risultare istruttivo e utile per discepoli e allievi, con Dio o senza Dio. Il testo del profeta Malachia vuole dare voce al severo rimprovero di Dio nei confronti dei sacerdoti, accusati di aver offerto un insegnamento che, per il fatto di essere stato esercitato con parzialità, è risultato per i suoi destinatari d’inciampo anziché di aiuto, facendoli deviare dalla retta via e profanando così l’alleanza dei padri fin quasi a distruggerla. In questo specifico passo non viene descritto con chiarezza ciò che rende così inadeguati i sacerdoti in quanto maestri, ma il contesto generale del libro e la sua datazione intorno al quinto secolo sembrano suggerire un’interpretazione collegata ai rischi di contaminazione degli ebrei con i popoli stranieri, in particolare negli ambiti del culto e dei matrimoni, ritenuti decisivi per conservare e tramandare l’unità identitaria del popolo eletto. Si tratta di un tema, presente nella storia dell’ebraismo biblico e post-biblico, che ha mantenuto fino ad oggi la sua attualità e che – anche se in forme ovviamente diverse – si ripropone anche nel cristianesimo odierno, tanto per i con Dio quanto per senza Dio. Si pensi, ad esempio, al tentativo non sempre facile di distinguere tra quanto, nel vivere e tramandare la fede vissuta, sia da conservare, quanto invece vada abbandonato, quanto possa essere utilmente “contaminato” attraverso l’incontro con altre persone, culture e tradizioni. Anche per questo, quali siano i buoni maestri e quali siano, invece, i cattivi maestri nell’insegnamento del messaggio del vangelo per i suoi destinatari con Dio e senza Dio è una domanda alla quale, anche nell’ambito del cattolicesimo, vengono date risposte diverse, come dimostrano ad esempio i continui attacchi a papa Francesco da parte di certi esponenti del cosiddetto cattolicesimo tradizionalista. Le risposte da dare alla domanda sui buoni e cattivi maestri, d’altra parte, sono cambiate nel tempo anche all’interno della Chiesa cattolica, come dimostrano le riabilitazioni di teologi un tempo condannati e poi riabilitati, come ad esempio Antonio Rosmini, o come dimostrano le riabilitazioni di dottrine un tempo condannate, quali ad esempio la libertà di coscienza e di religione. La complessità del nostro presente richiede allora da parte di con Dio e di senza Dio, prima ancora che la formulazione di accuse e condanne, di esercitare la pratica del discernimento, del dialogo e del confronto, anche conflittuale, tra soggetti che, in un cristianesimo radicalmente ecumenico, dovrebbero ricercare e coltivare insieme comunione fraterna e diversità riconciliata.
Paolo, a partire dalla propria esperienza con i cristiani di Tessalonica evidenzia – dell’essere maestri – quella dimensione di impegno personale e di relazione affettiva che accompagna in certi casi l’insegnamento del vangelo e che vale tanto per i con Dio quanto per i senza Dio. Paolo sceglie, per descrivere il proprio modo di essere maestro, la metafora della nutrice che si prende cura dei bambini e parla di un affetto che si spingerebbe a dare non solo il vangelo ma la propria stessa vita, per coloro che sono diventati cari. Paolo, inoltre, nel proprio essere maestro, unisce all’annuncio del vangelo rivolto ai Tessalonicesi il lavoro duro e faticoso che lo stesso Paolo ha scelto di svolgere per evitare di gravare economicamente sui destinatari del suo insegnamento. E forse proprio questa gratuità del servizio svolto da Paolo ha agevolato nei credenti di Tessalonica l’accoglienza di una parola che si è intuita non essere semplicemente prodotta dall’uomo che la stava annunciando, una parola proveniente da un’origine e aperta verso un oltre che Paolo chiama Dio, ma che i senza Dio potrebbero interpretare anche in altri modi, quali, ad esempio, esperienze vissute e tradizioni elaborate da singoli e comunità del passato e del presente. Ma, indipendentemente dall’origine, divina o meno, dalla quale – come con Dio o come senza Dio – riteniamo ci provengano le parole bibliche, i maestri più apprezzati da ciascuno di noi, con Dio o senza Dio, sono soprattutto oggi coloro che non si limitano a offrirci con autorevolezza un insegnamento vero che – in quanto tale – possa risultare istruttivo e utile, ma coloro che – come il maestro che emerge dall’autoritratto di Paolo – dimostrano di saper ispirare la propria vita concreta al proprio insegnamento.
Il Gesù dell’evangelista Matteo accusa duramente, in questo brano, i maestri che sono rappresentati qui da scribi e farisei, cioè dalle figure religiose che oggi, in ambito ecclesiale, corrisponderebbero in qualche modo ai teologi e credenti impegnati, con Dio o senza Dio. Nel testo evangelico questi maestri, scribi e farisei, si sono simbolicamente seduti nel luogo dal quale viene esercitata la massima autorità e autorevolezza per il popolo di Israele, la cattedra stessa di Mosè. Ma, diversamente dal profeta Malachia, Gesù non sembra – almeno in prima battuta – rimproverare i maestri per un loro insegnamento inadeguato, parziale o deviante, bensì per ciò che fanno, quindi sostanzialmente per l’incoerenza delle loro opere rispetto ai loro insegnamenti. Il contenuto dell’insegnamento religioso di questi maestri viene, infatti, in qualche modo legittimato e approvato, quando si dice di fare ciò che dicono ma non ciò che fanno, quasi che si potesse distinguere e anzi separare chiaramente la verità e validità di un insegnamento dall’incoerenza del comportamento e delle pratiche dei maestri che lo insegnano. Ma, se pensiamo all’importanza centrale e decisiva che la pratica e il comportamento concreto del singolo e della comunità hanno per l’ebraismo di ogni tempo, il dubbio sulla possibilità di scindere così nettamente un insegnamento teoricamente buono da una pratica eticamente e religiosamente cattiva diventa un dubbio più che legittimo. Un ulteriore elemento si trova, peraltro, nelle parole del Gesù di Matteo che definisce i fardelli imposti dall’insegnamento (teoricamente buono) dei maestri come fardelli pesanti e difficili da portare, fardelli che pongono sulle spalle degli altri, ma che, da parte loro, non vogliono muovere neppure con un dito. Segue un elenco di comportamenti messi in atto da questi maestri religiosi per essere ammirati. I segni della loro religiosità vengono esibiti per ottenere dalla gente un riconoscimento di autorevolezza che si manifesta nel godimento di privilegi, quali i primi posti nei banchetti, ma soprattutto nell’utilizzo dei titoli religiosi di rabbì, cioè di maestro, di padre e di guida. Ma a questo punto l’insegnamento di Gesù riguardo ai maestri si esprime in un invito che potrebbe anche essere letto come una vera e propria proibizione: non utilizzare in riferimento ai maestri umani, con Dio o senza Dio, titoli che andrebbero riservati all’unico per il quale sarebbero realmente adeguati, cioè Dio stesso o, al limite, quel nuovo Mosé che Gesù rappresenta con il proprio insegnamento. Questi titoli vengono perciò sottratti ai tentativi di appropriazione da parte di umani in cerca di conferme a una loro presunta superiorità su altri. E proprio questa sottrazione dei titoli richiama e rende possibile la radicale eguaglianza tra fratelli (e, aggiungeremmo noi, sorelle). Matteo arriva in questo modo a revocare a scribi e farisei il titolo di maestri, autorizzando i lettori della pagina evangelica a dubitare della validità stessa del loro insegnamento, anche perché privo di corrispondenza con l’insegnamento dell’unico maestro, un insegnamento che riguarda in primo luogo la pratica di vita. Al termine del percorso proposto da Matteo in questo brano, quelli che erano inizialmente i maestri incoerenti di cui seguire però l’insegnamento si trovano ad essere umiliati e privati del titolo stesso di maestri, mentre noi, lettori odierni veniamo invitati all’umiltà di chi – con Dio o senza Dio – si mette al servizio degli altri e proprio per questo diventa evangelicamente un autentico maestro tanto con i propri insegnamenti quanto con le proprie opere.