Letture festive – 101. Stranieri – 20a domenica del Tempo ordinario – Anno A
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
20a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 20 agosto 2023
Dal libro del profeta Isaìa – Is 56,1.6-7
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 11,13-15.29-32
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 15,21-28
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letture festive 101
In questo passo del profeta Isaia l’apertura a quelli che vengono definiti stranieri sembra riguardare coloro che nella tradizione ebraica venivano chiamati proseliti, cioè gli stranieri che si erano convertiti all’ebraismo, impegnandosi a osservarne le norme religiose. Si spiega così la relazione che questo testo stabilisce tra la particolarità cultuale dell’ebraismo e l’apertura universalistica a tutti i popoli. Si tratta di una relazione che presenta tuttavia delle ambivalenze: se infatti a chi dall’esterno desideri aggregarsi a un determinato gruppo religioso si offre la possibilità di farlo indipendentemente dalla sua provenienza, nello stesso modo si condiziona l’accoglienza di chi desideri avvicinarsi a un determinato gruppo alla piena accettazione delle sue norme e alla piena immedesimazione nelle sue tradizioni. Vi sono almeno due ambiti che nella realtà sociale ed ecclesiale di oggi riguardano con Dio e senza Dio e nei quali l’ambivalenza di questo rapporto può diventare un problema. Si tratta anzitutto del modo in cui la società e la chiesa – quando non decidono a priori di chiudersi – provano ad aprirsi agli stranieri e in primo luogo a quelli che si presentano come migranti provenienti per lo più dal Sud del mondo. La tentazione di trattarli come proseliti sociali o ecclesiali, cioè la tentazione di accoglierli solo a condizione che si uniformino in tutto alla società, alla cultura e alla religione che trovano qui è una tentazione forte, alla quale è difficile resistere. Tanto più che questa tentazione può facilmente indossare la maschera di una tolleranza libertaria e occidentale, quando si dice: li lasciamo liberi di scegliere di quale società e di quale mondo vogliono far parte! Ma anche la relazione tra con Dio e senza Dio nelle odierne comunità cristiane rischia di trovarsi esposta alla medesima ambivalenza del proselitismo, in particolare se i con Dio – come per lungo tempo si è fatto e come forse non si è ancora cessato di fare – dovessero dichiarare indispensabili, per poter appartenere alla chiesa, affermazioni e convinzioni riguardanti il modo di intendere Dio che i senza Dio in coscienza non potrebbero condividere, pur volendo sinceramente appartenere alla comunità ecclesiale in quanto attratti dal messaggio evangelico. Si tratterebbe in fondo di un proselitismo molto simile a quello che in epoca coloniale ha caratterizzato tanta parte dell’impegno missionario delle chiese cristiane e che ha prodotto in molti casi assimilazioni forzate ed esclusioni dolorose, quando non addirittura persecuzioni e violenze.
Paolo, colui che viene definito l’apostolo delle genti, si rivolge qui direttamente proprio alle genti, cioè agli stranieri, ai non ebrei che hanno accolto la sua predicazione, per descrivere la propria utopia religiosa di una riconciliazione anche con quelli del suo sangue e cioè con gli israeliti che per lo più, invece, la predicazione di Paolo non l’hanno accolta. Ma nel fare questo Paolo sottolinea indirettamente come proprio gli stranieri siano stati i primi credenti di quel vangelo che lui ha predicato. Rimane certamente vero che – come afferma Paolo – i doni e la chiamata di Dio rivolti agli israeliti sono irrevocabili; rimane certamente vero che la misericordia e la riconciliazione per gli stranieri è stata ottenuta attraverso la disobbedienza degli israeliti e l’essere stati rifiutati di questi ultimi; rimane certamente vero che l’essere diventati disobbedienti degli israeliti a motivo della misericordia ricevuta dagli stranieri deve far ottenere anche ai primi misericordia; rimane certamente vero che tutti sono stati rinchiusi nella disobbedienza perché tutti possano ricevere misericordia. E tuttavia ciò non toglie che proprio gli stranieri siano nelle comunità paoline i primi cristiani e che da quelle comunità cristiane, costituite da stranieri, derivino anche le nostre odierne comunità cristiane, a ben vedere costituite anch’esse fondamentalmente da stranieri, essendo ben pochi gli israeliti divenuti cristiani. Ai con Dio e ai senza Dio che oggi desiderano essere cristiani e credenti all’interno delle comunità ecclesiali, questa pagina paolina dovrebbe suggerire anzitutto un grande rispetto reciproco e – subito dopo – una grande prudenza nel ritenere di sapere quali siano – nella comunità cristiana – le precedenze e le primogeniture, quali siano i primi e quali siano i secondi, chi siano quelli che vivono già nell’obbedienza e nella misericordia e quelli per i quali ancora si attendono e si desiderano obbedienza e misericordia. La situazione descritta da Paolo è infatti, da una parte, quella di un’inversione dei ruoli sul piano dei tradizionali rapporti tra religiosi e non religiosi e, dall’altra parte, una situazione che richiede di rimanere aperti a un compimento che non ci appartiene e che sta ancora davanti a noi. E proprio nell’attesa escatologica di una riammissione degli israeliti descritta come una vita dai morti, da parte di tutti si deve coltivare rispetto reciproco e prudenza riguardo alle convinzioni sul proprio sapere. Nel fare questo, infine, si deve essere consapevoli di una cosa: non è affatto detto che l’essere in qualche modo stranieri o invece israeliti, per usare il linguaggio di Paolo, sia qualcosa che distingue chiaramente i con Dio dai senza Dio, o non sia piuttosto una linea per lo più invisibile, che passa attraverso entrambe queste categorie e le loro possibili e innumerevoli declinazioni intermedie.
Questo passo di Matteo, insieme al suo parallelo in Marco, è probabilmente il testo più sorprendente tra quelli dei vangeli e dell’intero Nuovo Testamento, per il modo in cui presenta la figura stessa di Gesù, criticandola e relativizzandola attraverso le parole utilizzate per raccontarla. Qui, infatti, Gesù viene descritto come un personaggio religioso – e quindi un con Dio – concentrato in un modo rigido e etnocentrico sui limiti circoscritti della propria missione, sordo alle ripetute invocazioni di una donna cananea, straniera e pagana – e quindi una senza Dio – dal momento che quest’ultima non appartiene al medesimo gruppo etnico e religioso di Gesù, il quale peraltro la tratta in modo sprezzante e addirittura razzista, definendo cagnolini anziché figli gli stranieri come lei e come la sua figlia tormentata da un demonio. Fatichiamo a riconoscere in questa rappresentazione di Gesù la stessa figura che troviamo nel resto dei vangeli e per questo Matteo, nell’economia del suo racconto, assegna proprio a questa donna straniera e senza Dio il compito e la missione di operare la necessaria trasformazione e conversione di un Gesù, che qui sembra quasi posseduto da un demone maligno più di quanto non accada alla figlia della straniera senza Dio. E questa trasformazione e conversione avviene attraverso il dialogo tra una femmina marginale e impotente, straniera e senza Dio, e la figura di un maschio, Gesù, posto al centro della scena e di tutto il racconto evangelico, potente e membro del popolo eletto ma soprattutto, più di ogni altro e in un modo speciale e unico: un con Dio – anzi il – con Dio. Ebbene a questo dialogo la straniera arriva faticosamente: benché riconosca l’identità messianica di Gesù e chieda la liberazione non per sé ma per la propria figlia tormentata da un demonio, prima questo Gesù insolitamente etnocentrico, senza rivolgere a lei neppure una parola, risponde ai discepoli di essere stato inviato soltanto alle pecore perdute di Israele, poi questo Gesù sorprendentemente razzista risponde alla straniera implorante aiuto che non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini. Il punto di svolta del racconto si trova nella replica della straniera senza Dio che nel far notare al Gesù con Dio come i cagnolini mangino le briciole che cadono dalla tavola dei padroni fa proprio lo stile di provocazione narrativa tipico delle parabole evangeliche. E proprio questa provocazione narrativa da parte della straniera senza Dio pone il Gesù con Dio di Matteo nella scomoda condizione di dover prendere posizione, come tante volte gli stessi interlocutori del Gesù evangelico che racconta parabole sono costretti a fare. Il Gesù che Matteo due capitoli prima ha descritto come maestro delle parabole del regno in questa pagina evangelica, attraverso la replica a una sua stessa quasi-parabola, viene provocato, trasformato e convertito dalla parola di una donna, straniera e senza Dio. L’interlocutrice ritorce contro Gesù la sua stessa quasi-parabola dei figli e dei cagnolini e lo fa per liberare lo stesso Gesù da quella che sembra una sorta di ossessione etnocentrica e razzista, in modo che anche il desiderio di liberazione per la propria figlia possa essere esaudito. E così avviene: il Gesù finalmente convertito e liberato diventa capace di riconoscere l’autenticità di una fede straniera e di ampliare i propri desideri, mettendoli in sintonia con i desideri femminili di una madre. In questo testo sorprendente e straordinario Matteo opera, perciò, uno scambio – anzi una vera e propria inversione – che nel disorientare il suo lettore e ascoltatore, gli offre un’opportunità di liberazione, ampliamento e trasformazione dello sguardo e della vita, come fanno del resto tutte le parabole evangeliche. Si tratta dell’inversione tra il con Dio maschio ed ebreo Gesù e la senza Dio femmina e straniera madre senza nome, tra i figli e i cagnolini, tra il pane e le briciole, tra la tavola e la terra, tra l’alto e il basso, tra l’etnocentrismo religioso e il paganesimo pluralistico, tra il presunto dovere religioso di un inviato divino e la potenza liberante del desiderio e dell’amore materno di una straniera.