Letture festive – 93. Vita – 13a domenica del Tempo ordinario – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

13a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 2 luglio 2023
Dal secondo libro dei Re – 2Re 4,8-11.14-16a
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 6,3-4.8-11
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 10,37-42


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letture festive 93

Nel racconto del secondo libro dei Re, una donna – della quale apprendiamo la condizione di sterilità – si rivela capace di accogliere e nutrire la vita. Questa donna, infatti, accoglie a casa propria un profeta, Eliseo, gli dà più volte da mangiare e infine condivide con il marito l’intenzione di ampliare la loro casa per offrire al profeta un’accoglienza più completa e un’ulteriore possibilità di ristoro. Il profeta – prosegue il racconto – decide allora di ricompensarla e lo fa dichiarandole che l’anno dopo stringerà tra le braccia un figlio: per lei evidentemente il dono insperato di una nuova vita. Questo brano può essere ovviamente letto come l’invito ad accogliere e nutrire gli inviati di Dio, perché Dio stesso – attraverso eventi miracolosi – ricompenserà con i doni più preziosi e lungamente desiderati chi, appunto, ha accolto, nutrito e beneficato i suoi inviati. Ma il brano potrebbe anche essere letto, da con Dio e da senza Dio, come un invito a riconoscere i modi – spesso inattesi e insperati – nei quali la vita e la parola biblica, nelle loro molteplici forme ed espressioni, riescono a nascere e a moltiplicarsi, ovunque trovino le condizioni per farlo. La donna del racconto, infatti, diventa capace di accogliere in sé la vita di un figlio da nutrire e far crescere, perché in realtà si è già mostrata predisposta ad accogliere nella propria casa e a nutrire altre vite, perché possano avere un futuro. Perché non si tratta solo di quella del profeta, del portaparola di Dio, ma anche – indirettamente – della vita della parola profetica, essendo la vita del profeta dedicata a trasmettere parole autentiche e di verità, che a noi sono accessibili grazie alla vita delle parole bibliche arrivate fino a noi. La parola – in particolare la parola biblica – e la vita presentano, infatti, caratteristiche simili: nascono entrambe quando ve ne sono le condizioni; crescono secondo un dinamismo proprio che però si confronta con l’ambiente e con le vicende esterne, venendone modificato in modi mai completamente prevedibili; sia la parola biblica che la vita, infine, sono generative e capaci di riprodursi in altro da sé: altra vita e altre parole ispirate a quelle bibliche. Da questo punto di vista, siamo tutti invitati, con Dio e senza Dio, a nutrire e accogliere – nei tanti modi che ci sono possibili – la vita delle persone che incontriamo e che ne hanno necessità, come pure siamo invitati ad accogliere e ad nutrire in noi le parole bibliche. E questo non tanto perché ci aspettiamo una ricompensa, ma perché vita e parole bibliche, quando le si incontra, ci chiedono di essere accolte e alimentate, dentro e fuori di noi. Che poi queste pratiche di accoglienza e di nutrizione possano allenare le nostre eventuali sterilità a superare sé stesse, generando nuova vita e nuove parole, è qualcosa che costituisce forse la ricompensa migliore che possiamo sperare.

Paolo ricorda ai Romani che l’origine della loro vita battesimale è la morte di Cristo Gesù. Questo provenire della vita cristiana da una morte generatrice rimane un elemento decisivo e inaggirabile per ogni discorso di con Dio o di senza Dio che voglia ispirarsi alle parole neotestamentarie. Il battesimo stesso, al simbolismo vitale di una sorta di liquido amniotico del grembo ecclesiale dal quale si nasce come credenti, unisce il simbolismo di una sepoltura sotto le onde in un unico e gigantesco mare, ostile e mortale come quello creatosi con il diluvio. Ma gli esiti tragici o salvifici delle traversate dei migranti nel Mediterraneo – se accettiamo di vederli e ascoltarli – ci riportano non solo al simbolismo ma alla drammatica e ambivalente realtà di questo sopravvivere o di questo morire. Tutti noi europei, con Dio e senza Dio, che abbiamo avuto in dono o in sorte di poter vivere in un luogo relativamente sicuro, rischiamo, infatti, di non cogliere il significato profondo di questa vita e di questa morte di cui Paolo scrive ai cristiani di Roma. Essere in qualche modo uniti alla morte di Cristo Gesù è per i credenti la condizione per poter camminare in una vita nuova, come risorti, perché la morte è quella condizione che comporta la massima spoliazione di tutto ciò che si ha e che si è. E solo una condizione di radicale spoliazione consente alla vita, nella sua forma più nuda e sorgiva, di affermarsi come la possibilità di un’esistenza davvero nuova e davvero cristiana. Il soccorso ai migranti che rischiano fisicamente la vita, così come la loro accoglienza e la loro integrazione, comportano inevitabilmente per noi europei una sorta di parziale spoliazione, rispetto a terre, ricchezze e risorse che riteniamo nostre e che fatichiamo a condividere. È qui che, forse, ascoltare le parole di Paolo su morte e vita ci può aiutare, come cristiani con Dio o senza Dio, a vedere quello che ci è necessario per poterci riconoscere come risorti che camminano in una vita nuova. E quello che ci è necessario è la disponibilità a condividere la spoliazione rappresentata nella morte di Cristo Gesù. Ma per poter fare questo, senza spiritualismi, ipocrisie ed egoismi, non possiamo dimenticare la grande differenza che rimane tra la spoliazione richiesta a noi europei e quella che devono affrontare i migranti in quel Mare Nostrum che è il Mediterraneo. La nostra spoliazione di europei può limitarsi a riguardare solo parzialmente terre, ricchezza e risorse ricevute in dono per la fortuna di essere nati qui. Quella invece drammaticamente sperimentata da chi cerca con ogni mezzo di raggiungerci è la spoliazione più radicale e completa, la spoliazione di chi non porta con sé nulla e che rischia la propria vita, una spoliazione che – dobbiamo riconoscerlo onestamente – somiglia molto di più della nostra a quella spoliazione del Cristo Gesù che Paolo descrive.

Il rapporto tra vita e morte, che Paolo pone al centro del proprio annuncio evangelico, diventa nel Gesù di Matteo l’invito a trovare la vita perché si è stati disponibili a perderla per causa dello stesso Gesù, perché si è rinunciato a trattare la propria vita come una proprietà che appartiene esclusivamente a sé stessi e si è deciso invece di metterla in gioco accettando le paradossali logiche evangeliche. Secondo il Gesù di Matteo solo chi, con Dio o senza Dio, si comporta in un determinato modo trova la vita. E questo brano evangelico potrebbe essere letto come una sorta di catalogo delle diverse forme nelle quali questo trovare la vita si esprime, incrociando e attraversando i paradossi del rapporto tra vita e morte. Da questo punto di vista, perciò, si potrebbe dire che trovare vita, per con Dio e per senza Dio, si esprime nell’essere degni di Gesù, perché lo si ama più di quanto si amano i propri familiari, quelli dai quali si è ricevuta la vita – i genitori – e quelli ai quali la si è trasmessa – i figli – e si accetta di seguire la via di Gesù, anche quando questa diventa la via della croce; abbiamo qui un primo paradosso: la vita in cui siamo stati introdotti dai nostri genitori e alla quale abbiamo introdotto i nostri figli, se viene soffocata e mortificata da queste stesse relazioni familiari, può trovare nella figura di Gesù un fattore di liberazione. Con il suo proporre, infatti, nella comunità dei discepoli una sorta di famiglia allargata che però non deve mai assolutizzare sé stessa, la figura evangelica di Gesù può aiutare a riconoscere le relazioni familiari ed ecclesiali nella loro verità e ad apprezzarle nel loro valore. Ma il riferimento alla figura del Gesù evangelico legittima i credenti a cogliere le realtà familiari ed ecclesiali anche nei loro limiti intrinseci o fattuali e persino a relativizzarle o addirittura a fuggirle quando ciò diventasse necessario per tutelare la propria stessa vita (si pensi ad esempio ai casi estremi e drammatici di maltrattamento, violenza e abuso, presenti purtroppo sia nelle realtà familiari che in quelle ecclesiali). Trovare vita, per con Dio e per senza Dio, consiste poi anche nello sperimentare l’accoglienza offerta e ricevuta, andando oltre l’immediatezza di colui che si ha davanti, perché la vita ha dimensioni che vanno sempre oltre l’immediato e l’accogliere qualcuno o l’essere accolti da qualcuno significa spesso l’incontro tra vite e mondi diversi, dai quali proveniamo e che ci hanno plasmati. Trovare vita, per con Dio e per senza Dio, comporta inoltre il ricevere la stessa ricompensa del profeta e del giusto, perché accogliendoli si è scelto di condividere almeno un po’ della loro vita e del loro destino. Ma le vite e i destini del profeta e del giusto il più delle volte non sono vite semplici e questo rende enigmatica e incerta, se non addirittura ironicamente minacciosa, la promessa del testo evangelico riguardo alla ricompensa che ci si potrà aspettare: successo e vita o persecuzione e persino morte? Trovare vita, per con Dio e per senza Dio, è infine imparare a dissetare la sete di vita di quei piccoli che sono diventati discepoli di Gesù, perché non sapevano in quale altro luogo cercare acqua per la propria piccola vita; la ricompensa che in questo caso non andrà perduta consiste nel riconoscere che in realtà tutti noi, con Dio e senza Dio, siamo in fondo questi piccoli discepoli cercatori e che abbiamo finalmente trovato quello che stavamo cercando: l’acqua che è il vangelo stesso, l’acqua che ci consente di avere ancora vita.