Letture festive – 82. Ereditare – 2a domenica di Pasqua – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

2a Domenica di Pasqua Anno A – 16 aprile 2023
Dagli Atti degli Apostoli – At 2,42-47
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo – 1Pt 1,3-9
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 20,19-31


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letture festive 82

Qual è la chiesa e qual è il cristianesimo che, come con Dio o come senza Dio, siamo chiamati a ereditare? Il libro degli Atti degli Apostoli, viene spesso inteso – in continuità con il Vangelo di Luca che racconterebbe la storia di Gesù – come un resoconto storico della nascita e della vita delle prime comunità cristiane. Alcuni studiosi propongono invece un’interpretazione alternativa, che suggerisce di leggere Atti come una narrazione mitica di fondazione della comunità cristiana, composta nei primi decenni del secondo secolo della nostra era. Potremmo perciò definirlo una sorta di libro biblico di Genesi della chiesa, ma, allo stesso tempo, Atti potrebbe essere letto anche come una sorta di narrazione utopica per delineare il futuro a cui l’autore vorrebbe aprire la comunità cristiana e perciò, in questo senso, una sorta di libro biblico di Apocalisse della chiesa. Proprio questa unione e tensione tra mito delle origini e utopia futura consente di leggere il libro di Atti come un testo che presenta ciò che i con Dio e i senza Dio possono ereditare dalla chiesa e dal cristianesimo, un testo che utilizza la particolare forma letteraria di un mito e di un’utopia narrati come fossero storia. Che cosa è, infatti, un’eredità, se non qualcosa che ci viene lasciato in dono da chi ci ha preceduto perché possa aprirci a un futuro migliore? Un caso particolare di questa eredità che apre al futuro lo possiamo trovare nei brani di Atti che vengono definiti “sommari”, tra i quali vi è anche quello che leggiamo in questa domenica. Questi testi descrivono una comunità ideale, caratterizzata dalla comunione di intenti e di beni, dalla preghiera comune nel tempio, dalla celebrazione comunitaria dello spezzare il pane nelle case. Questa comunità è circondata da ammirazione diffusa per il proprio modo di vivere e risulta capace di attrarre nuovi credenti. Ci troviamo davanti alla rappresentazione, ideale e idealizzata, di un gruppo sociale, di una comunità, dove ciascuno, secondo le proprie capacità, condivide e dona ciò che ha, in modo che ciascuno possa ricevere secondo il proprio bisogno. Non deve meravigliare, perciò, che questa rappresentazione abbia esercitato nel corso della storia uno straordinario fascino. I tentativi di dare una realizzazione concreta a questo ideale hanno attraversato, con fortune alterne, i secoli e le culture, dalle comunità cristiane di vita religiosa, maschile e femminile, fino ad arrivare alle rappresentazioni del socialismo e marxismo utopistico, ottocentesco e novecentesco. E tutto ciò perché anche noi, oggi, potessimo ereditare, dalle generazioni di credenti con Dio e senza Dio che ci hanno preceduto, un ideale di comunità al quale poter guardare come a un’utopia ancora da costruire e da raggiungere.

Nella lettera di Pietro si parla di un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, e che si collega a un già e a un non ancora. Si tratta, infatti, di un ereditare che si radica in una misericordia che ha rigenerato i credenti, mediante la resurrezione di un Gesù Cristo che, però, non si è ancora manifestato. Si tratta di un ereditare già garantito ma che viene quasi a coincidere con il futuro di una viva speranza. Qui il contesto presente viene caratterizzato come un tempo di afflizioni, nel quale la fede viene messa alla prova. La prova consiste in una purificazione simile a quella di un metallo prezioso, da sottoporre a temperature elevatissime per poter essere distinto e separato da ciò che prezioso non è. L’ereditare di cui parla Pietro sembra consistere, perciò, nell’abitare consapevolmente e su più livelli una tensione, della quale tanto i con Dio quanto i senza Dio possono fare esperienza: un amare la figura di Gesù senza averla vista, un credere senza vedere, un essere nella gioia pur trovandosi nell’afflizione, un vivere una salvezza già raggiunta e motivo di esultanza indicibile e gloriosa, pur trovandosi ancora e sempre solo sulla soglia di una imminente e ultima rivelazione salvifica.

Tommaso è il nostro gemello nella fede, come suggerisce altrove l’evangelista Giovanni attribuendogli il nome greco didimo, e Tommaso è il protagonista del famoso brano giovanneo, che possiamo leggere e ascoltare oggi come un insegnamento su ciò che significa – nella chiesa e nel cristianesimo – ereditare. Questa eredità è infatti il nucleo del messaggio evangelico e questo nucleo consiste precisamente in un incontro vitale con la figura del crocefisso risorto, capace di offrire una pace, uno Spirito e un perdono, da ricevere, diffondere e trasmettere a propria volta ad altri. Questa eredità è ciò a cui un gruppo di discepoli impauriti e chiusi può aprirsi, ricevendola e accogliendola come capace di trasformare questo gruppo in una comunità riabilitata e riaperta alla testimonianza e alla trasmissione, a propria volta, di ciò che ha ricevuto in eredità. Ma se la comunità dei discepoli ha saputo inserirsi in questa dinamica dell’ereditare e del trasmettere in eredità, Tommaso e con lui anche noi – suoi gemelli nella fede, con Dio e senza Dio – rifiutiamo di ereditare. Noi, infatti, vogliamo vedere e toccare colui che vorrebbe invece congedarsi da noi per lasciarci la sua eredità. Il rifiuto di ereditare – nostro e di Tommaso – è infatti profondamente collegato al rifiuto di ciò che sta all’origine dell’eredità che ci viene offerta: una morte che non vogliamo riconoscere e che non vogliamo accettare. La morte è quella della figura di Gesù, dalla quale non vogliamo staccarci e che vorremmo continuare a poter vedere e toccare, per trattenerlo come vorrebbe fare, pochi versetti prima, anche Maria di Magdala nel racconto dell’incontro con il maestro risorto. Come per Tommaso, anche per noi, l’apparizione, l’incontro e il dialogo con il Gesù risorto si verificano nell’ottavo giorno, un giorno che sposta il racconto fuori dal tempo, per renderlo contemporaneo all’oggi di ciascun lettore e ascoltatore del vangelo. Ma si tratta di un’apparizione, di un incontro e di un dialogo con il Gesù risorto che sono possibili precisamente ed esclusivamente attraverso il testo e la narrazione di un racconto evangelico che ci è accessibile solo nell’ascolto o nella lettura. Si tratta di un testo e di un racconto che, ricevuto e trasmesso grazie a generazioni di eredi, di credenti e di comunità ecclesiali, è giunto fino al nostro tempo e ci interpella in quanto eredità offerta e proposta a noi, in quanto ultimi destinatari, ad oggi, di un testo evangelico, di una tradizione vivente, di una esperienza ecclesiale. Sta a noi, con Dio e senza Dio, scegliere in che modo vogliamo rispondere al provocatorio invito di Gesù a credere senza vedere e a trovare in questo la nostra beatitudine di credenti, grazie ai segni scritti nel libro del Vangelo, che la chiesa e il cristianesimo ci propongono di ereditare come dono prezioso dal quale avere vita, nel nome di Gesù.

Riferimenti:

Dennis E. Smith – Joseph B. Tyson Acts (a cura di), Acts and Christian Beginnings. The Acts Seminar Report, Polebridge Press, Salem (Oregon) 2013.

Le dieci principali acquisizioni del Seminario di studio, dedicato al possibile utilizzo come fonte storica del libro neotestamentario di Atti degli Apostoli, promosso dal Westar Institute in California tra il 2000 e il 2011 (in traduzione dall’introduzione al volume sopra citato, che ne raccoglie gli atti) sono le seguenti:

1. L’autore degli Atti è un esperto narratore/teologo che ha scritto un racconto con finalità decisamente apologetica [in particolare nei confronti della versione del cristianesimo proposta da Marcione e rispetto alla interpretazione marcionita di Paolo e delle sue lettere]
2. Il libro degli Atti è stato composto nei primi decenni del II secolo.
3. L’autore di Atti ha usato le lettere di Paolo come una delle sue fonti.
4. Ad eccezione delle lettere di Paolo, nessun’altra fonte storica attendibile può essere definitivamente identificata per il libro di Atti. Atti utilizza invece una varietà di “fonti” come Giuseppe Flavio, Omero, Virgilio e la versione biblica (veterotestamentaria) dei Settanta. Questi materiali, tuttavia, forniscono unicamente materiale di base o modelli letterari per il racconto di Atti. Non costituiscono di per sé delle fonti storicamente utilizzabili per la ricostruzione delle origini cristiane.
5. Gerusalemme non è stata il luogo di nascita del cristianesimo, contrariamente a quanto narrato in Atti, nei capitoli dall’1 al 7.
6. Atti non può essere considerata una fonte indipendente per la vita e la missione di Paolo. Si può invece affermare che l’uso delle lettere di Paolo come fonte è sufficiente per spiegare tutti i dettagli della vita e dell’itinerario di Paolo in Atti.
7. Atti costruisce il proprio racconto sul modello della letteratura epica e su modelli letterari con caratteristiche analoghe.
8. L’autore di Atti ha creato i nomi dei personaggi come strumenti di carattere narrativo.
9. Atti costruisce i propri racconti per raggiungere obiettivi di tipo ideologico [e teologico]
10. Atti non può essere considerato un resoconto attendibile sul piano storico, a meno che non si dimostri il contrario. L’onere della prova va infatti invertito: Atti deve essere considerato non storico salvo prova contraria.

Questo è l’esito complessivo dei risultati sopra indicati. Mentre Atti è altamente discutibile come risorsa per il cristianesimo del primo secolo, è una risorsa significativa per comprendere i problemi e la forma del cristianesimo del suo proprio tempo, cioè dei primi decenni del secondo secolo.
In conclusione Atti – mentre, come prodotto del secondo secolo, è una risorsa primaria per comprendere il cristianesimo di quel periodo anche dal punto di vista storico – va considerato complessivamente come un mito delle origini cristiane.