Letture festive – 72. Sapore – 5a domenica del Tempo Ordinario – Anno A
Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio
di Alberto Ganzerli
5a domenica del Tempo Ordinario Anno A – 5 febbraio 2023
Dal libro del profeta Isaìa – Is 58,7-10
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi – 1 Cor 2,1-5
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 5,13-16
Su YouTube l’audio-video si trova cercando:
letture festive 72
il sapore biblico di un’esistenza umana, con Dio o senza Dio, può essere dato – questo sapore – dal digiunare? Il profeta Isaia sembrerebbe rispondere di sì, a condizione che il digiuno significhi condividere il proprio pane con l’affamato, vestire chi è nudo e condividere la propria casa con i senzatetto, o ancora rinunciare ai comportamenti che sono in qualche modo violenti: opprimere, puntare il dito per accusare, parlare contro ciò che affermano le parole bibliche. Il sapore biblico dell’esistenza sembra quasi dipendere da ciò di cui volontariamente ci si priva, o perché lo si condivide con altri in quanto buono o perché volontariamente lo si tiene lontano in quanto cattivo. È uno strano modo di avere sapore, questo della sottrazione. Il paradosso, tuttavia, è solo apparente, perché risultare saporiti suppone il genere lo scomparire perché si viene divorati. Ma il digiuno è in fondo sempre la preparazione a un morire e a uno scomparire, anche se temporaneo, simbolico e reversibile. Non vi è, infatti, esistenza che abbia un sapore, se non quella che – rinunciando a nutrire un egoismo ingordo e autoreferenziale – si misura con la privazione, con la rinuncia alle proprie cose e soprattutto con la capacità di condividerle con altri. Tre esempi di esistenze insaporite dal digiuno, in base ai criteri del profeta Isaia, sono allora l’esempio biblico della vedova pagana di Sarepta di Sidone, per la capacità di condividere con il profeta Elia il proprio ultimo pane, pur trovandosi in una situazione di estrema indigenza; l’esempio iconografico – che troviamo rappresentato in tante nostre chiese – di San Martino che taglia il proprio mantello per condividerlo con il mendicante seminudo; l’esempio storicamente vissuto, concreto e recentissimo di Biagio Conte, per la sua condivisione con i senzatetto di Palermo non solo di spazi di accoglienza, ma – con gesto profetico ed evangelico di protesta – della loro stessa esperienza di vita sulla strada e sotto i cartoni utilizzati come riparo. Solo esistenze così, con Dio o senza Dio, possono dire di avere quel sapore autenticamente e inconfondibilmente biblico o evangelico, che anche altri possono in qualche modo gustare e apprezzare.
Il sapore del messaggio cristiano può essere il sapere di Gesù in quanto crocefisso? L’apostolo Paolo sembrerebbe rispondere di sì e – almeno nella lingua italiana – la domanda sul sapore e sul sapere del messaggio cristiano suona nello stesso modo: di che cosa sa il cristianesimo? Cioè: qual è il suo sapore? Ma anche: di che cosa sa il cristianesimo? Cioè: qual è l’oggetto del suo sapere? E la risposta di Paolo è la medesima a entrambe le domande: il sapore del cristianesimo non è sperimentabile se non assaggiando in qualche modo ciò che troviamo rappresentato in Gesù crocefisso, così come l’oggetto del sapere cristiano non è altro, in fondo e ultimamente, se non la medesima rappresentazione di Gesù crocefisso. Assaggiare il sapore del messaggio cristiano e cogliere l’oggetto del suo sapere – così come distinguerlo da altri sapori e da altri oggetti del sapere – è possibile se si colgono le differenze tra i diversi sapori e si distinguono i diversi oggetti del sapere: Paolo sottolinea come l’eccellenza della parola o della sapienza umana, con i suoi discorsi persuasivi, abbia un sapore e un oggetto diversi da quelli del messaggio cristiano. Quest’ultimo, infatti, ha il medesimo sapore che si può assaggiare in Paolo stesso, un sapore che si trova nella sua parola debole e in qualche modo timorosa e trepidante. Queste, del resto, sono sempre caratteristiche autentiche delle parole che hanno la figura del Gesù crocefisso come oggetto del loro sapere, del loro racconto e della loro rappresentazione, con Dio o senza Dio.
Il sale del messaggio evangelico, può riuscire a insaporire le realtà terrene, con Dio o senza Dio? L’evangelista Matteo sembrerebbe rispondere di sì, a condizione che il vangelo, mentre rimane sé stesso, riesca però a trasformare il sapore delle realtà terrene che raggiunge, rendendole migliori e più saporite. In caso contrario avremmo un sale che non è più sale, perché non è più capace di salare, avremmo una luce che non è più luce, perché non è più capace di illuminare. Ma la metafora del sale, per indicare la capacità trasformatrice del messaggio cristiano, suggerisce anche un altro rischio – per certi versi opposto e più insidioso – che va evitato: quello di immaginare e desiderare che le realtà terrene, anziché essere insaporite dal sale evangelico, ne vengano sostituite. Ciò significherebbe che ogni cosa dovrebbe diventare sale evangelico o che il sale evangelico dovrebbe prendere il posto di ogni cosa: prospettiva piuttosto inquietante, poco augurabile e anzi a rischio di rivelarsi mortale, come suggerisce il racconto biblico della moglie del Lot, trasformata in una statua di sale – sulle rive di un Mar Morto straordinariamente salato – per essersi voltata indietro, anziché guardare in avanti. Quando il sale rimane nella sua forma in grani – quella consueta per i nostri utilizzi domestici – difficilmente assolve alla sua funzione di insaporire qualche altra realtà. Il sale evangelico dovrebbe invece comportarsi allo stesso modo del sale da cucina che, solitamente, per dare sapore perde la sua forma in grani, visibile e solida. Quando infatti – facendo attenzione alla giusta dose – viene sciolto dall’acqua o unito a qualche altro cibo, il sale insaporisce dissolvendosi in un liquido o mescolandosi a un cibo. In modo analogo il sale del vangelo – rinunciando a rimanere da solo, come un concentrato che risulta eccessivo e sgradevole al palato – se viene disciolto o mescolato nella misura adeguata a una realtà terrena che ci sembra un cibo senza sapore, la rende gradevole o, se già buona, la migliora rendendola ottima.