Letture festive – 65. Ruoli – Santa Famiglia – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

Santa Famiglia – Anno A – 30 dicembre 2022
Dal libro del Siràcide – Sir 3,3-7.14-17a (NV) [gr. 3.2-6.12-14]
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési – Col 3,12-21
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 2,13-15.19-23


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letture festive 65

Nell’ambito di una società patriarcale – come quella in cui opera l’autore del libro del Siracide – il ruolo di ciascun individuo nelle relazioni familiari tende ad essere prefissato e rigido, sancito e garantito, oltre che dalla società e dalla sapienza religiosa, anche dalla stessa divinità. Il rispetto del proprio e dell’altrui ruolo nella famiglia è, perciò, indice di un comportamento al tempo stesso religiosamente buono, socialmente adeguato e conforme a una sapienza tramandata. Ma per i lettori del testo biblico che, come noi, appartengono a culture diverse e meno patriarcali di quella del Siracide, si pone il problema di come interpretare il modo nel quale i ruoli familiari vengono qui delineati. Quale sapienza possiamo trovare in una gerarchia familiare che ci appare oggi sostanzialmente inaccettabile per come intende, rispetto ai ruoli di padre, madre e figli, i rapporti di potere e di sottomissione? Un elemento che potrebbe sfuggire anche alle nostre critiche è – non a caso – una sorta di inattesa relativizzazione dei ruoli familiari che possiamo ricavare dal nostro testo. Si tratta di una forma di reciprocità indiretta tra i diversi ruoli, legata ai mutamenti che il tempo e gli anni producono nelle relazioni tra persone. Tipicamente, ad esempio, chi oggi è un figlio giovane e nel pieno delle forze potrebbe diventare un domani un padre, anziano e addirittura privo di senno. Per questa ragione la sapienza del Siracide invita il figlio a onorare ora il padre, quasi che il rispetto nei confronti dei genitori possa diventare motivo e quasi una sorta di pegno per ricevere un trattamento analogo da parte dei propri figli, quando si diventerà a propria volta genitori e si assumerà questo ruolo. È chiaro che questo approccio di tipo retributivo ai comportamenti etici e religiosi, legato a una cultura dove, tra l’altro e diversamente dalla nostra, quasi tutti i figli erano destinati a diventare padri, presenta diversi limiti. Un duplice insegnamento, tuttavia, rimane probabilmente valido anche per noi oggi: il primo insegnamento è che i nostri comportamenti attuali nei confronti delle altre persone, a partire da quelle più vicine e con le quali c’è un legame più profondo – che sia tratti di familiari o meno – producono effetti e conseguenze rilevanti anche per il futuro a lungo termine, nostro e altrui. Il secondo insegnamento è che il comportamento che adottiamo, in base al nostro ruolo attuale (dentro e fuori la famiglia), dovrebbe poter essere ritenuto valido e adeguato anche dal punto di vista di chi (dentro e fuori la famiglia) ha attualmente un ruolo diverso dal nostro.

Nel passo della lettera ai Colossesi troviamo ben testimoniata una commistione ricorrente nella bimillenaria storia del cristianesimo riguardo al modo di intendere i ruoli dei componenti la famiglia: la commistione tra condizionamenti sociali e culturali antievangelici e potenzialità positivamente innovative degli ideali cristiani. Da una parte, infatti, la logica – che oggi a molti di noi appare chiaramente patriarcale e maschilista – della sottomissione delle mogli ai mariti viene qui elevata al livello di ciò che è conveniente anche sul piano religioso e in qualche modo voluto da Dio. Dall’altra parte, invece, si sottolinea fortemente un approccio di reciprocità tendenzialmente egualitaria e che prescinde dal ruolo familiare di ciascuno, quando si esortano i cristiani a vivere le relazioni interpersonali in modo conforme a tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti vicendevoli: tenerezza, bontà, mansuetudine, magnanimità, sopportazione, perdono, carità, pace, gratitudine, istruzione e ammonimento. Si tratta di una tensione sempre presente nel cristianesimo e che non può mai essere risolta una volta per tutte, anche perché collegata alle scelte dei singoli e delle comunità e alla cultura e società alla quale appartengono, tanto che si tratti di con Dio quanto di senza Dio. Per questa ragione nella storia del vissuto delle persone e delle comunità cristiane, partendo dagli inizi per arrivare fino alla nostra contemporaneità, possiamo riconoscere le numerose oscillazioni tra condizionamenti negativi e impulsi positivi, con i rispettivi esiti, alternativamente incoraggianti e liberanti o, al contrario, deludenti e scandalosamente antievangelici.

Questo episodio evangelico della fuga in Egitto e del ritorno potrebbe essere letto come una perfetta descrizione del ruolo del genitore sufficientemente buono. Nel vangelo di Matteo, come abbiamo già notato in precedenza, la figura di Giuseppe viene rappresentata con richiami evidenti ai testi veterotestamentari, quelli di Genesi che parlano del Giuseppe figlio di Giacobbe, ma qui anche gli altri – profetici e non – che sono in qualche modo riferiti al tema dell’esodo. Non si tratta, però, in Matteo di un semplice calco letterario, bensì di una raffinata rielaborazione, caratterizzata da richiami e inversioni, opposizioni e ampliamenti narrativi, secondo il genere letterario ebraico del midrash: qui, infatti, l’Egitto è il luogo della possibile salvezza in contrapposizione alla terra promessa da cui si deve fuggire, perché il sovrano uccisore di bambini non è più il faraone egiziano che non aveva conosciuto il primo Giuseppe, ma l’Erode che si trova a Gerusalemme. L’esodo di salvezza offerto a questa famiglia ebrea si muove perciò nella direzione opposta a quella del primo grande esodo di tutto il popolo ebraico. In ogni caso, come dicevamo, nella narrazione evangelica di Matteo, il ruolo di Giuseppe sembra corrispondere perfettamente – indipendentemente dal sesso e dal genere della figura genitoriale – a quella interpretazione del ruolo di genitore per la quale lo psicoanalista Winnicott ha proposto la definizione di genitore sufficientemente buono. In questo passo del vangelo abbiamo, infatti, un genitore che, pur nella consapevolezza dei propri limiti (non è Dio) sa che deve fidarsi del proprio istinto: nel caso di Giuseppe si tratta della sua capacità di ascolto dei propri sogni. Abbiamo, inoltre, un genitore attento che sa riconoscere in tempo utile il bisogno di custodia e protezione del figlio e che sa corrispondervi in modo adeguato e proporzionato, rifuggendo ogni tentazione di onnipotenza delirante o di irrealistica perfezione: Giuseppe sceglie, infatti, la fuga come la reazione più efficace, anziché scegliere, ad esempio, in modo poco realistico, di tentare di eliminare la fonte della minaccia o di reagire all’aggressione con le modalità di una resistenza violenta o, al contrario, di una persuasione amichevole. Abbiamo, infine, un genitore che sa apprendere, anche attraverso esperienze negative, come la necessità del camminare e la condizione del viandante caratterizzino, in modi diversi, sia il proprio ruolo di genitore quanto il ruolo del figlio: per Giuseppe e per suo figlio, insieme con la madre, tutto ciò viene rappresentato dall’evangelista richiamando il potente tema biblico dell’esodo e accompagnandolo con il ritornello: perché si adempissero le Scritture. È così che Matteo esprime, in modo ricorrente, il dinamismo – di compimento e insieme di nuovo inizio – che i testi biblici sono capaci di imprimere a ogni vicenda umana individuale e comunitaria. Vicende che sono quelle dei personaggi biblici, ma anche e soprattutto le nostre, quelle di noi lettori di ogni tempo, ai quali le Scritture sono affidate perché trovino sempre nuovo adempimento… quali che siano i nostri ruoli.