Adulti , cercasi!
Germogli
“germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;
“germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;
“germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).
Alberto Bigarelli
Uno dei tratti più problematici della condizione giovanile odierna è il difficile percorso verso l’età adulta. Questo passaggio viene reso più laborioso – e talvolta impossibile – proprio dalla generazione degli adulti che desiderano restare giovani ad ogni costo, trasmettendo indirettamente l’idea che la vita adulta, con le sue responsabilità e i limiti connessi al tempo che passa, sia da allontanare se non da evitare. Sembra scomparire la conflittualità tra le generazioni e con essa la possibilità di una reale crescita.
L’attuale congiuntura sociale è segnata dalla poco consolante constatazione che gli adulti di oggi – in particolare quelli nati tra il 1946 e il 1964 e in parte coloro che sono nati tra il 1964 e il 1979 – non siano più in grado di educare, né di trasmettere qualcosa come una fede, una pratica di devozione o di pietà ai loro figli.
Senza adulti – L’attuale fatica delle giovani generazioni a diventare adulti è legata al fatto che la stragrande maggioranza di coloro che hanno compiuto e oltrepassato i 35 anni d’età e che quindi sono sociologicamente adulti non ha più alcuna intenzione di investirsi nel nobile e difficile “mestiere dell’adulto”. Questo fa sì che ci sia una discrepanza tra l’essere adulti anagraficamente parlando e l’impegno da adulti sotto il profilo delle relazioni educative.
La situazione è talmente ai minimi storici che non più di un anno fa il giurista Gustavo Zagrebelsky, professore emerito della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Torino, ha potuto dare alle stampe un piccolo volume intitolato “Senza adulti”. Ne cito un passaggio particolarmente incisivo: «Dove sono gli uomini e le donne adulte, coloro che hanno lasciato alle spalle i turbamenti, le contraddizioni, le fragilità, gli stili di vita, gli abbigliamenti, le mode, le cure del corpo, i modi di fare, persino il linguaggio della giovinezza e, d’altra parte, non sono assillati dal pensiero di una fine che si avvicina senza che le si possa sfuggire? Dov’è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore? Ne ha preso il posto una sfacciata, fasulla, fittiziamente illimitata giovinezza, prolungata con trattamenti, sostanze, cure, diete, infiltrazioni e chirurgie; madri che vogliono essere e apparire come le figlie e come loro si atteggiano, spesso ridicolmente. Lo stesso per i padri, che rinunciano a se stessi per mimetizzarsi nella cultura giovanile dei figli» (Torino 2016, 46-47).
Ecco il punto: dove sono gli adulti? Cosa è successo a quell’ampia parte di popolazione che risulterebbe titolare dello status di persone mature, ben piantate, salde in se stesse, capaci pertanto di guardare in faccia i problemi dell’esistenza, che ha lasciato alle spalle le incertezze e i turbamenti delle precedenti stagioni della vita e che può accompagnare le nuove generazioni nel cammino della crescita, che è sempre contemporaneamente cammino di decisione e di rinuncia? Per quanto sia difficile crederlo, adulti così ce ne sono sempre di meno.
La ragione di questo dato di fatto si trova in una vera e propria rivoluzione copernicana circa il sentimento di vita che ha visto protagonista la generazione postbellica, quella nata tra il 1946 e il 1964, e che poi si è ormai diffusa anche nella generazione successiva, rintracciabile nei nati tra il 1964 e il 1979.
Per quella generazione – e anche per quelle successive – al centro del compimento di un’esistenza umana non c’è la volontà di diventare adulta, ma quella di “restare giovane” ad ogni costo. Come scrive acutamente l’analista Francesco Stroppa docente dell’istituto ICLeS per la formazione degli psicoterapeuti: «la specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur diventati adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla, al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane» (La restituzione…, Milano 2011, 9-10).
Il contenuto di questo ideale di giovinezza nulla ha a che fare con ciò che normalmente si intende con “spirito della giovinezza” o “giovinezza dello spirito”. La giovinezza come ideale è qui intesa piuttosto come grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l’affermazione della propria sessualità, del proprio successo, del proprio fascino, disponibilità ininterrotta a “fare esperienze”, a completarsi e a rinnovarsi. Va da sè che qui non esiste più alcuno spazio per il lato etico-morale, educativo, che qualifica l’età adulta. Al contrario, l’orizzonte di riferimento degli adulti attuali – segnala giustamente il filosofo francese Marcel Gauchet – è quello di «essere il meno adulti possibile, nel senso peggiorativo del termine, sfruttarne i vantaggi aggirandone gli inconvenienti, mantenere una distanza rispetto agli impegni e ai ruoli imposti, conservare il più possibile della riserve per altre possibili direzioni. La giovinezza assume valore di modello per l’intera esistenza» (Il figlio del desiderio, Milano 2011, 44).
Questo, tuttavia, comporta – ed è ancora alle tesi del pensatore francese ch ci rifacciamo – un’autentica «liquidazione dell’età adulta. Siamo al cospetto di una disgregazione di ciò che significa maturità […] Quella dell’adulto non è ormai che un’età, senza un particolare rilievo o privilegio sociale. Nessuno deve più essere maturo, nel senso che non sussite più l’obbligo pubblico della riproduzione collettiva. La vita famigliare e la procreazione sono divenute questioni puramente private. Non esistono più modelli di esistenza adulta definiti dal discrimine della creazione di un nucleo famigliare» (Ib. 43).
Ne deriva che, a questo punto, parlare di un diventare adulti oggi risulta gravemente faticoso proprio in quanto l’adultità è rinnegata da coloro che dovrebbero incarnarne i contenuti umani e che quindi il gesto dell’educare, che indica sempre l’indicazione di una meta verso la quale indirizzare i non-ancora-adulti, risulta semplicemente impossibile. Di più: se gli adulti desiderano e fanno di tutto per restare giovani – ed è il mercato con incredibile generosità che si applica a sostenerli in questa lucida follia – ciò che posso comunicare educativamente ai loro ragazzi è il comandamento di non crescere, di non spostarsi, di non muoversi: di perdere cioè la giovinezza.
Ed è esattamente qui che l’educazione, da gesto del movimento verso, si trasforma in un’ossessionante forma di preoccupazione, di controllo, perdendo quel profilo essenziale e dinamico dell’asimmetria, del confronto, della conflittualità, della testimonianza, di una differenza accolta senza risentimento.
Senza educazione – La relazione educativa adulto-giovane, genitore-figlio, si basa su una semplice struttura, che può essere restituita così all’intelligenza nell’essere dell’adulto il giovane dovrebbe trovare iscritta questa legge: «Lì dove sono io, là sarai tu», quindi cammina, datti da fare. Nella lingua tedesca esiste una straordinaria capacità tra termine che dice formazione – Bildung – e il termine che dice immagine – Bild. Questo ci ricorda che si diventa adulti guardando gli adulti. D’altro canto, la parola “adolescente” nulla altro significa che “tempo per diventare adulti”. Come? Guardando appunto gli adulti.
Cosa comporta ora la rivoluzione, compiuta dagli adulti attuali, del sentimento di vita che tutto fa scommettere sulla giovinezza? Comporta che, nella carne vivente di ogni adulto, il giovane trovi quest’altra disperata legge: «Lì dove sei, io sarò». Insomma: non ti muovere. Tu sei nel paradiso. Tu sei paradiso. Io adulto sono l’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile cammino sull’orlo della vecchiaia, della morte, del non senso che è il non essere più.
Se per gli adulti, allora, il massimo della vita è la giovinezza e tutto il resto è non-senso, che cosa dovrebbero essi insegnare, segnalare, indicare, mostrare ai giovani? Se per gli adulti crescere è la cosa peggiore che esista e l’età adulta non ha senso, mentre il paradiso è nella giovinezza, perché i giovani dovrebbero ambire all’età adulta?
Un ultimo elemento deve essere ancora preso in considerazione: se gli adulti attuali interpretano la loro esistenza come un’esistenza da giovani permanenti e impenitenti, è giocoforza che non saranno più in grado di discernere la vera età dei figli e le connesse esigenze di crescita. Per loro saranno sempre dei “bambini”, dei “ragazzi” (termine, quest’ultimo, che gli adulti usano anche per persone che hanno abbondantemente superato la soglia dei trent’anni), cosa che ostacola ancor di più l’assunzione di quel ruolo educativo adulto che comporta appunto la conflittualità, la capacità di dire di no e ancora di più quella di saper contenere l’eventuale frustrazione inevitabile dispiacere che il no adulto comporta nel figlio. Quest’ultimo sarà sempre considerato troppo piccolo, troppo delicato, per essere sottoposto a tali esperienze previste da ogni processo di crescita che voglia giungere a buon fine.
Sulla base di queste considerazioni, si capisce perché le nostre famiglie non siano più nelle condizioni di aiutare i propri figli a diventare adulti, trasformando il prezioso e delicato compito della cura educativa in una sostanziale prassi di controllo e preoccupazione dei figli.
La recente collocazione esistenziale della generazione adulta rende, insomma, il processo educativo quasi del tutto impossibile. Bisogna purtroppo riconoscere che oggi sia imposta una figura genitoriale di basso profilo e di scarsa responsabilità. Si pensa – e si agisce di conseguenza – che non sia più necessario educare i figli, essendo sufficiente voler loro del bene, preoccuparsi per loro e controllarli. Basta insomma coccolarli, procurar loro delle cose e risparmiar loro fatica, programmandone costantemente le attività. Basta letteralmente preoccuparsi, ovvero occupare e predisporre prima i posti che loro dovranno occupare (cf. M. D’Amato, Ci siamo persi i bambini. Perché l’infanzia scompare, Roma-Bari 2014).
Questa è la strategia dei cosiddetti genitori “spazzaneve”, che tolgono la neve prima che i bimbi escano di casa e questi ultimi non sapranno mai cavarsela con la neve, giungendo a pensare che essa non esista (cf. C. Voltattorni, I genitori spazzaneve… Il Corriere della Sera, 30.11.2014). E ancora la logica dei genitori “amuchina”, che sterilizzano e de traumatizzano tutti gli ambienti destinati alla crescita dei loro pargoli.
Il termine per esprimere tutto questo è “controllo”. Educare è oggi voce del verbo controllare. Si tratta di un gesto che ormai procede ben oltre la normale dose di precauzioni e di cautele legate all’esercizio della genitorialità. Siamo davanti a un esercizio del controllo semplicemente asfissiante per gli stessi ragazzi e che i genitori interpretano paradossalmente come autentica forma d’amore.
In verità, osserva lucidamente lo psicologo- psichiatra Federico Tonioni, «tutte le volte che controlliamo di nascosto quello che [i figli] fanno, o cerchiamo di capire quello che pensano, non si tratta di “amore speciale”, ma dell’incapacità di separarsi da loro. Se, con il tempo, questa tendenza non accennerà a diminuire, la tentazione di trattenere “a fin di bene” la loro vitalità sarà più forte della disponibilità a offrire fiducia. E’ così che, al di là delle nostre intenzioni, rischiamo di diventare un impedimento per la loro crescita» (Gli adolescenti, l’alcool, le droghe…, Milano 2013, 20).
Ed è per questo che oggi diventare adulti rappresenta una fatica di grande rilievo: i nostri ragazzi e i nostri giovani non trovano davanti a sé adulti, con i quali poter entrare in un salutare rapporto di conflittualità educativa, ma adulti che cercano permanentemente di sedurli nella loro condizione di vita giovane e beata, affinché a tutto pensino tranne che a crescere; la loro crescita, infatti, decreterebbe – ed in modo che nessuna crema o pillola colorata o bisturi possa far credere il contrario – il loro (dei genitori) essere/diventare adulti o già vecchi: in una parola la loro espulsione dall’universo della giovinezza. Il risultato è netto: tra le generazioni si crea un clima di sostanziale concorrenza con il netto svantaggio di quelle più giovani. Gli adulti attuali – così poco adulti – in definitiva amano la loro giovinezza più dei loro figli. Il futuro di tanti giovani non appare molto rassicurante né per loro, né per la società.