Credi nella reincarnazione?
Germogli
“germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;
“germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;
“germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).
Alberto Bigarelli
È impressionante il numero di coloro che credono oggi nella reincarnazione. Non parlo del mondo orientale, in cui la convinzione del saṃsāra è molto radicata e diffusa, perché costituisce una delle dottrine di base dell’induismo, del giainismo e del buddhismo, ma del mondo occidentale. Anche in Italia l’accettano in moltissimi che dicono di essere cristiani. La proclamano molti mezzi di comunicazione e ogni giorno diventa più forte l’influsso delle religioni/filosofie orientali che sostengono la reincarnazione. La facilità di questa adesione si deve forse in parte ad una reazione istintiva contro il dilagante materialismo. Nel modo di pensare di molti nel nostro tempo, questa vita terrena è avvertita come troppo breve per poter sviluppare tutte le potenzialità di un uomo o perché possano essere superati o corretti gli errori commessi. Si avverte un senso di incompiutezza e di incompletezza reso ancora più acuto quando si coltiva un nobile ideale di vita religiosa e non si riesce a immaginare di poterlo portare a pienezza se non si ha una seconda opportunità: una sola esistenza non basterebbe.
Che cos’è la reincarnazione? È la credenza secondo la quale l’anima o l’elemento psichico (o il «corpo sottile»), che è per sua natura immortale, dopo la morte del corpo s’incarnerebbe in un altro corpo mortale umano. La reincarnazione è determinata dalle colpe di ciascuna anima e la sua durata e il numero di passaggi sono indeterminati dipendendo dal livello di purificazione raggiunto. Il termine metempsicosi, usato a volte come sinonimo, universalizza però i passaggi e si diversifica perché l’anima trasmigrerebbe successivamente sia in corpi umani, sia in corpi di bestie o in corpi vegetali oppure assumerebbe un nuovo stato, ma non necessariamente un nuovo corpo. Perché si possa parlare di reincarnazione, l’anima deve dotarsi, a ogni successiva esistenza, d’un corpo umano differente. Il corpo sarebbe quindi una veste provvisoria che l’anima immortale indossa per il suo bisogno di purificazione, e che, una volta consunta, abbandona per ricominciare in un’altra. Ma l’argomento più importante, per i reincarnazionisti, è che una sola vita umana sarebbe insufficiente a far raggiungere all’uomo quel grado di perfezionamento che è necessario per il godimento della felicità perfetta. Nemmeno gli uomini migliori nel momento della morte si trovano in tale stato di perfezione intellettuale e morale da essere degni di accedere al regno della beatitudine infinita. Un perfezionamento assoluto raggiunto al momento della morte appare sommamente improbabile.
La credenza nella reincarnazione è molto antica non solo in Estremo Oriente ma anche in Occidente. Era nota presso i celti, dei quali Cesare scrive: «Una delle loro principali massime è che le anime non muoiono, ma che alla morte passano da un corpo in un altro, ciò che essi credono assai utile per incoraggiare alla virtù e per fare disprezzare la morte» (De bello gallico, IV,14,5). Nell’antica Grecia, gli orfici (VII-VI sec. a.C.) ritenevano che l’anima, appena uscita da un corpo, s’incarnasse di nuovo in un altro corpo (sòma), che diventa una prigione (sêma), da cui si possono liberare solo coloro che sono iniziati. Anche Pitagora (VI-V sec. a.C.) e i pitagorici credevano nella trasmigrazione delle anime. Dagli orfici e dai pitagorici Platone (V sec. a.C.) derivò questa dottrina, che passò poi ai neoplatonici e agli gnostici. Per Platone si tratta d’una teoria conforme alla giustizia, perché noi riceviamo un corpo per espiare le colpe commesse nel corso di vite precedenti.
La reincarnazione – secondo i suoi sostenitori – risponde al principio di espansione e di contrazione dei cicli del mondo e deriva dal principio di dualità, per cui la morte si alterna alla vita quale condizione per lo sviluppo della coscienza. Morire e nascere, nascere e morire, questa è la trama dell’esistenza. C’è un continuo nascere e morire di forme; con la morte del corpo lo spirito scompare, con la nascita riappare. La reincarnazione perciò è la conseguenza del principio dell’indistruttibilità della sostanza e del trasformismo. In realtà, l’anima sarebbe in continua evoluzione e quindi sottoposta a successive reincarnazioni, le quali avverrebbero progressivamente su piani sempre più alti fino a che l’anima non giunga alla perfezione e diventi spirito non più bisognoso d’incarnazione perché purificato oppure s’immerga nell’infinito.
C’è un principio che regola le reincarnazioni è il karma: «Il karma è la forza che costringe alla reincarnazione, e quel karma è il destino che l’uomo tesse per se stesso» scrive la H.P. Blavatsky (1821 -1891), inventrice della teosofia e spiritista.
[Per essere chiari, una persona è una “spiritista” quando attinge le proprie conoscenze attraverso sedute spiritiche e la necromanzia. Chi lo fa si illude di avere parlato coi defunti, ma ha inconsapevolmente parlato con entità demoniache, le quali conoscono i particolari della vita delle persone morte evocate e sono quindi in grado di imitarle perfettamente. Il fine che si prefiggono questi demoni è quello di ingannare i viventi, condizionarli e alla fine assogettarli].
Karma è una parola sanscrita che significa «azione» e designa la necessità di nascere in una nuova esistenza in conformità con quello che si è compiuto nell’esistenza precedente: in condizioni animali, umane o divine, secondo che nell’esistenza precedente ci si è comportati male o bene. La legge del karma è quindi la legge della retribuzione degli atti. Questi portano necessariamente frutti, se non in quella presente, certamente nella vita futura. Per i reincarnazionisti la legge senza eccezione che regge l’intero universo, dall’atomo invisibile e imponderabile fino agli astri, è la «legge universale della giustizia distributiva». Questa legge consiste nel fatto che ogni causa produce il suo effetto, senza che una volta prodotta la causa nulla possa impedire o sviare l’effetto. Non è possibile nessun intervento della volontà, nè umana né divina: «Né il pentimento, né il dolersi del fatto possono ottenere nulla. Non c’è posto né per il perdono, né per la redenzione. Il karma è cieco, automatico, non intelligente; quel che è fatto resta fatto», scrive in un vecchio e grosso libro un grande esperto come F. M. Palmés (Metafisica e Spiritismo, Roma 1952). Così, «in ognuna delle nostre vite noi gettiamo i semi della personalità della prossima reincarnazione. Questo è il metodo con cui agisce il karma umano. I due fattori sono intrecciati inscindibilmente» scrive il suo collega e reincarnazionista L. H. Leslie Smith (Karma e reincarnazione, in Virginia Hanson, Karma. La legge universale di armonia, Ed. Mediterranee, Roma, 1952, 43).
Cosa ci dice la Bibbia? Già nel III sec. d.C: ci fu un gruppo di cristiani contro cui polemizzò Origene, gruppo che indicava in Mt 11,14 (cf. 17,10) il testo evangelico da cui si poteva dedurre la reincarnazione: «tutti i Profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni. E, se volete comprendere, è lui quell’Elia che deve venire». Cioè, Elia è di nuovo qui nella persona di Giovanni, il suo spirito è in lui. Ma questa passo matteano non parla affatto di anime e non concede niente in modo chiaro all’idea di reincarnazione. La reazione di Origene può essere utile anche a noi. Lui non accetta la loro prova basata su questo versetto e ne dimostra subito la debolezza anzitutto perché non si può produrre nessun’altra testimonianza biblica e perché non è in realtà conforme a quello che vorrebbero dimostrare. Siccome la migrazione dell’anima è intesa, da quelli che la sostengono, come una conseguenza del peccato e poiché l’essere umano più o meno pecca sempre, la sua incarnazione successiva sarà sempre da riscattare. Col profeta Elia hanno scelto poi, come prova, un esempio fondamentalmente sbagliato. Ritenendo che la sua anima si sia incarnata nel corpo di Giovanni non si accorgono che così facendo danno del peccatore ad Elia che fu assunto al cielo ancora vivo perché caro a Dio (cf. 2Re 2,1-13; Sir 48,1-11), mentre la nascita del Battista era stata annunciata dallo stesso angelo che poi si presentò a Maria. Quei cristiani simpatizzanti per la reincarnazione si contraddicevano da soli. Origene poi trae importanti conseguenze che derivano dalla loro dottrina e la smentiscono. Se si ammette una reincarnazione si deve fare i conti con numerose e infinite serie di rinascite, perché il peccato continua nelle reincarnazioni in un ciclo infinito. In conclusione, questa dottrina presuppone che l’anima che viene in un corpo, porti con sé dal tempo della nascita una colpa da espiare in questo mondo. Se si ammette realmente un cambiamento di corpo per le anime allora non si riesce a vedere nessuna fine per le reincarnazioni sempre nuove e sempre diverse perché questo cambiamento diviene sempre nuovo, ma sempre contaminato dal peccato e, di conseguenza, è necessario un cambiamento di corpo delle anime ininterrotto e infinito.
Nel mondo cristiano nessuno ha mai sostenuto la reincarnazione, per il semplice fatto che essa è in radicale contraddizione con la risurrezione; è incompatibile cioè con la dottrina evangelica, la quale insegna che la salvezza, dono di Dio in Gesù, si realizza nel corso d’una sola esistenza. Lungo tutta la sua storia, la Chiesa non ha fatto che riprendere l’affermazione della Lettera agli Ebrei: «Come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la salvezza» (Eb 9,27-28).
In seguito, nessun padre della Chiesa ha professato nei suoi scritti la dottrina della reincarnazione, definita da S. Girolamo «empia e scellerata» (Ep. 130 ad Demetriadem; PL 22,1120). Neppure Origene può essere accusato di reincarnazionismo, perché egli difese – e fu condannato per questo dalla Chiesa – la preesistenza delle anime, sotto l’influsso platonico, ma non la reincarnazione. D’altra parte, nessun concilio ecumenico si è pronunciato contro la reincarnazione, dato che questa credenza non è mai stata condivisa dai cristiani e non è stata mai oggetto di controversia nella Chiesa. Una condanna indiretta della reincarnazione si può trovare tuttavia nel Concilio di Firenze (1439), quando esso dichiara solennemente che il destino dell’uomo è irrevocabilmente definito immediatamente dopo la morte: «Le anime di quelli che dopo aver ricevuto il Battesimo non sono incorse in nessuna macchia; e anche quelle che, dopo aver contratto la macchia del peccato, sono state purificate o, durante la loro vita, o, come sopra è stato detto, dopo essere state spogliate del loro corpo, vengono subito accolte in cielo… Invece, le anime di quelli che muoiono in peccato mortale attuale… scendono subito nell’inferno» (cf. Denz.-Schòn. 1305-1306).
Nel mondo cristiano si è ricominciato a parlare di reincarnazione solo nel secolo XVI nei circoli del risorto neoplatonismo e da parte di Girolamo Cardano (1501-1576) e di Giordano Bruno (1548-1600). Però, la maggiore diffusione di questa credenza s’è avuta nel secolo XIX, quando in Europa e in America del Nord diviene il tema privilegiato della teosofia e degli ambienti spiritistici. Ne sono apostoli ardenti Allen Kardek, fondatore e codificatore dello spiritismo, che si credeva la reincarnazione d’un druida o sacerdote celtico, e che nel 1857 nel Libro degli spiriti riporta le rivelazioni che gli spiriti disincarnati gli hanno fatto circa la reincarnazione; Elena P. Blavatsky, inventrice della teosofia, e Annie W. Besant, autrice di opere molto diffuse, come Reincarnazione (1892) e Karma (1892). Il reincarnazionismo ottocentesco è all’insegna dell’evoluzione e del progresso continuo; ci si reincarna per progredire. Il motto è di Allen Kardek così riassume la legge della reincarnazione: «Nascere, morire, rinascere ancora e progredire sempre: questa è la legge».
Proprio su questo punto sta la differenza sostanziale tra il reincarnazionismo occidentale e quello delle religioni e delle filosofie orientali. In queste la reincarnazione non è un fatto positivo, non costituisce un motivo di gioia e di speranza, ma è una dura necessità cosmica, una purificazione necessaria a cui non si possono sottrarre coloro che alla loro morte non godono ancora della liberazione definitiva e fondersi nell’âtman universale (hinduismo: indica, a seconda dei contesti, sia il corpo, sia il soffio vitale, la coscienza spirituale, il vero soggetto dell’uomo, il Sé del mondo) o giungere al nirvâna (buddhismo: dove possiede il significato sia di estinzione, cessazione del soffio); è dunque un male, una maledizione, da cui ci si deve liberare attraverso la meditazione e l’ascesi. Così, per le religioni e filosofie orientali, accedere alla salvezza è uscire dal “ciclo delle rinascite” (saṃsāra). Invece per il reincarnazionìismo dei teosofi e degli spiritisti occidentali, la reincarnazione è un mezzo di perfezionamento e di progresso, è lo strumento con cui l’anima si eleva «progredendo sempre».
Consultando l’opera di J.Head – S.L.Cranston, La reincarnazione (Milano 1973), per i reincarnazionisti d’Occidente gli argomenti più forti sono quelli indiretti, nel senso che la reincarnazione spiegherebbe alcuni fatti che altrimenti sarebbero inspiegabili. Spiegherebbe, per esempio, il fatto che ci siano negli uomini idee innate; che alcuni uomini siano più intelligenti di altri, in particolare il fenomeno dei fanciulli-prodigio; che ci sia il male nel mondo, e il dolore sia inegualmente distribuito tra gli uomini, in modo che alcuni siano più infelici di altri; che alcuni bambini muoiano precocemente; che ci siano tra gli uomini simpatie e antipatie; che alcuni matrimoni siano infelici; che l’umanità sia in continuo progresso. Infatti, affermano i reincarnazionisti, le idee innate si devono interpretare come maturazione di concetti elaborati da altri spiriti nelle vite precedenti; le persone intelligenti, i geni, i fanciulli-prodigio sono spiriti reincarnati che hanno acquistato scienza nelle esistenze precedenti, mentre gli idioti sono anime che non hanno fatto tesoro delle occasioni favorevoli nelle vite trascorse. Le persone buone sono anime già perfezionate nelle vite precedenti, mentre i criminali sono anime reincarnate ancora all’inizio della loro evoluzione; il male e il dolore sono la conseguenza del cattivo comportamento nelle vite precedenti, secondo la legge del karma: però il male e il dolore forgiano le anime come il martello forgia il ferro sull’incudine, e in tal modo le anime si perfezionano, per cui, trasmigrando da un corpo all’altro, per successive prove, raggiungeranno la perfezione; i bambini che muoiono precocemente sono individui che pagano con la loro morte un debito contratto in un’esistenza precedente e poi ritornano sulla terra, liberate dal debito, per incarnarsi in un altro corpo e per raccogliere altre esperienze e perfezioni; il continuo progresso dell’umanità è una prova che gli individui che nascono hanno già un’esperienza che essi hanno acquisita nelle vite precedenti; le simpatie e le antipatie trovano la loro causa in amori e odi nutriti in esistenze anteriori; i matrimoni infelici si spiegano con il fatto che i coniugi hanno debiti da pagare contratti in esistenze antecedenti. È più credibile che tale perfezionamento possa essere raggiunto gradualmente con la reincarnazione in altri corpi.
Qual’è il valore di questi argomenti? Vediamoli brevemente uno per uno. Anzitutto non ci sono nell’uomo idee innate, ma ogni idea è formata dall’intelletto partendo dalle sensazioni fornite dai sensi; da tali sensazioni singolari e concrete l’intelletto umano elabora le idee. C’è, invece, una facilità innata ad acquistare alcune idee più semplici. Che alcuni uomini siano più dotati di altri sotto il profilo intellettuale e morale, si spiega con l’ereditarietà, con gli influssi dell’ambiente, con l’educazione, con l’impegno che ognuno mette per perfezionarsi intellettualmente e moralmente; il caso dei fanciulli-prodigio è un caso limite, ma si spiega anch’esso con l’ereditarietà, con una precoce maturità cerebrale ed endocrina, con un’idonea educazione ricevuta fin dai primi anni, unita a particolari inclinazioni e talenti per talune scienze, come la matematica, o arti, come la musica: «A ben considerare le loro qualità – osserva G.B. Alfano (La reincarnazione, Napoli 1952, 37-38) – si è trattato di straordinaria assimilazione, di facile coordinazione delle idee che hanno appreso, o che sentirono; sicché in poco tempo compirono quella via che altri avrebbero percorsa in tempo più lungo per rafforzare nella memoria le cose studiate o udite… Del resto questi fanciulli-prodigio, tirando le somme, non furono molti. Si citano sempre gli stessi nomi; sono una decina, una ventina, in mezzo ai miliardi di abitanti che vissero sulla terra. Né qualcuno di questi famosi fanciulli-prodigio ci ha dato vera dimostrazione di essere Galileo o Newton o Leonardo o Pasteur redivivi».
Quanto agli uomini buoni e cattivi, essi sono tali sia per l’educazione ricevuta e per l’ambiente nel quale sono vissuti, sia per l’impegno che hanno o non hanno posto nel compiere il bene. Il male e il dolore, che si manifestano nel mondo, non sono la conseguenza di comportamenti malvagi nella vita precedente. Secondo i reincarnazionisti le anime, passando da un corpo all’altro, sarebbero in continuo progresso spirituale: quindi, avendo vissuto molte vite, dovrebbero aver raggiunto una grande perfezione e, di conseguenza, la vita attuale dovrebbe essere, almeno per moltissime di esse, una vita felice in base al bene compiuto nelle esistenze precedenti. Invece, il male e il dolore colpiscono inesorabilmente tutti gli uomini buoni e cattivi, santi e criminali. Ora questo non si spiegherebbe, se si trattasse di anime reincarnate. Si reincarnano solo i malvagi e i criminali?
C’è poi un’obiezione di fondo contro la reincarnazione, a cui i suoi sostenitori non sanno rispondere: come mai, tra i miliardi di uomini che sono oggi sulla terra e che sarebbero tutti reincarnati nessuno ricorda nulla delle vite precedenti? I reincarnazionisti dicono che le anime reincarnandosi dimenticano tutto il passato; ma come si spiega una dimenticanza totale e generale? Si potrebbe spiegare una dimenticanza parziale e particolare, non il fatto che tutte le anime dimentichino tutto. Questo è tanto più incomprensibile perché i reincarnazionisti seguono la concezione platonica dell’anima come sostanza completa che si serve del corpo come il pilota si serve della nave o come il cavaliere si serve del cavallo; in quanto sostanza completa, l’anima, passando da un corpo all’altro, dovrebbe conservare tutti i suoi ricordi, come li conserva il cavaliere passando da un cavallo all’altro.
C’è di più; l’ignoranza delle esistenze anteriori rende inutile la reincarnazione. Infatti, la ragione principale per cui questa è ammessa è che l’anima reincarnandosi si perfeziona partendo dal punto di perfezionamento a cui era giunta nella vita anteriore e servendosi delle esperienze in essa acquisite per andare più avanti e più in alto. Ora, com’è possibile un maggiore perfezionamento in base alle esperienze acquisite, se di queste conoscenze/esperienze non si conserva nessun ricordo? Certamente, se l’anima conservasse il ricordo delle esperienze passate, potrebbe partire da esse per progredire; ma se deve rifare tutto da capo, a che vale averle fatte nelle passate esistenze? La reincarnazione, così, appare del tutto inutile.
In altre parole, la reincarnazione avrebbe senso se, per esempio, un grande scienziato come Einstein, reincarnandosi, potesse partire dal punto in cui è giunto in questa vita per progredire ulteriormente; se invece deve ripartire da zero, perché non ricorda nulla di quanto ha appreso nella vita precedente, la reincarnazione è perfettamente inutile per il suo progresso intellettuale e morale e anche per il progresso della scienza, e quindi della civiltà. L’anima sembra più perdere che conservare la propria identità. Diventa una tabula rasa? In realtà, se fosse vera la dottrina della reincarnazione, dato che sono passate centinaia di migliaia di anni dall’apparizione dell’uomo sulla terra e dato che a ogni reincarnazione l’anima progredisce sempre, dovremmo oggi avere tutti uomini altamente progrediti intellettualmente, spiritualmente e moralmente. Invece, nell’umanità attuale, non mancano le persone buone e intelligenti, ma ce ne sono anche molte non buone, né progredite intellettualmente e spiritualmente. E non occorre andare molto lontano per incontrarne.
L’elemento teologicamente più grave è il fatto che la reincarnazione escluda la salvezza che Gesù ha portato, venendo fra noi, con la sua morte e risurrezione. La reincarnazione annulla la Pasqua del Signore, la rende inoperante perché si presenta come via di salvezza: la purificazione è legata alle rinascite. Non dimentichiamo quello che Pietro ha detto nel suo terzo discorso a Gerusalemme dopo la Pentecoste: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito [da Dio] che noi siamo salvati» (At 4,12), e neppure dimentichiamo quello che ha scritto l’apostolo Paolo ai Galati: «Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema!» (1,8).
La posizione cristiana della salvezza può essere espressa in otto caratteristiche che sono importanti da ricordare quando si parla della reincarnazione.
La salvezza viene da Dio, che risuscita i morti. La vita eterna non è il risultato dell’immortalità dell’anima, né deriva naturalmente dall’evoluzione storica. È un dono gratuito e immeritato.
La salvezza è rivelata e attuata nella storia di questo mondo e nella storia personale di ogni creatura umana. In quanto viaggio verso Dio, la vita cristiana si basa sulla fede che Dio ha già compiuto il suo viaggio verso di noi, avendo creato questo mondo come luogo della presenza e dell’azione di Dio. La morte non è semplicemente un passaggio senza significato; e invece un momento integrale e integrante in modo definitivo del tempo di questa nostra vita terrena. È il tempo il luogo concreto della rivelazione salvifica che Dio fa di se stesso. Come dice Rahner: «In realtà, è nel tempo e come frutto maturo di esso, che 1’eternità diviene».
La salvezza è la misericordiosa comunicazione che Dio fa di se stesso al mondo nell’amore. In quanto condivisione dello stesso Spirito divino di vita e libertà, è pure perdono, riconciliazione, pace e gioia con Dio e tra gli uomini e le donne. La nuova vita dello Spirito comincia ora nella vita di grazia e raggiunge la sua pienezza attraverso la morte e la risurrezione nella vita di gloria.
Poiché la salvezza è vista come una relazione personale di amore, la risposta della persona umana ha un valore essenziale. Per il cristiano, ricevere il dono dell’amore di Dio vuol dire riconoscere il regno di Dio e diventare discepolo di Gesù. La sua azione salvifica ci rafforza e ci sfida ad imitarlo. Bisogna seguire Gesù sulla via della croce con un amore e un servizio accondiscendenti, se si vuole partecipare alla vita della risurrezione. Perciò, le nostre azioni hanno un’importanza decisiva.
La salvezza riguarda tutta la persona umana. Il purgatorio non è la purificazione dalla materia. La risurrezione non significa la partenza o la liberazione dell’anima dal corpo, ma la liberazione di tutto l’essere, di tutto ciò che abbiamo fatto e che siamo diventati in quanto persone uniche, dal peccato e dalla morte. Ecco perché il Nuovo Testamento e le antiche professioni di fede parlano molto chiaramente della risurrezione della carne o del corpo.
La salvezza riguarda l’intera famiglia umana. A mano a mano che diminuiva l’attesa del ritorno del Signore (parusia: venuta), la spiritualità cristiana divenne sempre più individualista. Se, da un lato, la vita eterna è veramente personale, dall’altro, però, non consiste semplicemente nel progresso e nella perfezione dei singoli. Come la vediamo simboleggiata dal regno di Dio predicato da Gesù, è piuttosto la fondazione e il perfezionamento di una comunità umana universale di amore, basata sulla comunione con Dio. La risurrezione della carne è radicalmente connessa con l’intera comunità dei credenti, con il corpo di Cristo, che è un «sacramento di comunione con Dio e di unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium 1). Questa comunione comprende sia i vivi che i morti. Persino i santi hanno ancora a che fare col mondo e con la storia. Infatti, non sono mai stati considerati semplicemente come persone che hanno raggiunto la perfezione morale, l’illuminazione perfetta e la beatitudine eterna in qualche mondo “altro”. Appunto perché sono completamente con Dio, essi sono con il mondo e per il mondo. La gloria di Dio non raggiungerà la sua pienezza prima che tutta la carne sia risuscitata e tutto il creato sia definitivamente trasformato.
La salvezza cristiana riguarda ancora il mondo intero. È un principio già racchiuso in un’antropologia che vede la persona umana come un’unità irriducibile di corpo e di spirito. Questo mondo nella sua materialità terrena e nelle sue creature che hanno avuto in dono lo spirito è destinato a raggiungere la sua fine e conclusione nella risurrezione “nell’ultimo giorno”. Ne derivano conseguenze importanti per il modo in cui esercitiamo il nostro potere sulla terra e su tutte le sue creature e per la responsabilità che ne abbiamo. Perciò, la speranza cristiana nella risurrezione non attende una liberazione promessa dal mondo e dalla sua storia: attende invece la liberazione del mondo dal peccato e dalla morte e che il suo tempo maturi fino a diventare eterno (Rahner). Extra mundum nulla salus: insomma, fuori del mondo non c’è salvezza (Schillebeeckx).
Come la morte e la risurrezione di Gesù segnano l’inaugurazione della fase finale del compimento della storia, e per ciò stesso le conferiscono un significato radicalmente nuovo, così anche la morte del singolo credente, appunto perché è una morte in Cristo, dà alla sua vita una profondità e un’urgenza radicali. La morte è il tempo della venuta di Dio ed è pure il tempo della decisione e della risposta definitiva dell’essere umano. È il tempo in cui troviamo Dio e la nostra più vera personalità, oppure li perdiamo entrambi. Viviamo in un “adesso” rivolto al futuro, senza la minaccia o il conforto di una possibile ripetizione “più tardi”. Ciò che facciamo ha valore eterno.
Tuttavia, il nostro tempo è contrassegnato non solo dalla sua fine nella morte, ma anche dalla sua anticipazione del giudizio misericordioso e dell’amore trasfigurante di Dio. In realtà, la vita della risurrezione non è semplicemente l’eterno permanere di ciò che ho compiuto in vita: è la mia vita sanata, trasformata e perfezionata dalla bontà divina. Perciò, il cristiano che affronta la morte accogliendola come una gradita liberazione dalle sofferenze o temendola come una terribile realtà sconosciuta, pur essendo ben conscio delle mancanze, delle insufficienze, delle speranze e delle delusioni della propria esistenza, può trovare coraggio e conforto nel consegnare umilmente la vita nelle mani di Dio, nella sicura speranza che colui da cui essa proviene la porterà a compimento in un figliolanza compiuta.
Da questa riflessione si può concludere che la reincarnazione è un mito illusorio, una creazione fantastica, senza alcun fondamento razionale. «Dalla rivelazione sappiamo con certezza che abbiamo soltanto questa vita da vivere sulla terra. La reincarnazione, tanto sbandierata, è una falsità!» (G. Amorth – P.Rodari, Il segno dell’esorcista, Milano 2014, 79). Essa si basa su una concezione radicalmente errata. L’uomo per i reincarnazionisti non sarebbe un essere unico, composto di due principi incompleti (l’anima e il corpo) che unendosi formano un unico essere completo nello stesso tempo spirituale e corporeo, ma uno spirito (o un corpo sottile materiale) che si unisce in maniera accidentale e passeggera a un corpo, per poi abbandonarlo al momento della morte e reincarnarsi in un altro corpo. Cioè, secondo i reincarnazionisti, l’anima e il corpo sarebbero due esseri completi e distinti, che si uniscono e si separano accidentalmente. Per essi il corpo non farebbe parte dell’individualità della persona.
L’esperienza umana, la psicologia e la neurologia ci dicono che l’uomo è un essere personale non diviso, ma unico, in cui spirito e materia sono così intrinsecamente uniti e quasi fusi insieme che tutto ciò che il corpo fa porta l’impronta dello spirito, e tutto ciò che lo spirito pensa e vuole porta l’impronta della materia. La ragione a sua volta spiega quest’esperienza d’unità, affermando che nell’uomo l’anima spirituale, come principio d’informazione, «informa» attivamente la materia e ne fa un corpo umano, che è tale precisamente in quanto è «informato» dall’anima. Quest’unione sostanziale, nell’uomo, del principio spirituale e del principio materiale fa sì che ogni anima sia in un rapporto unico col corpo che essa informa – col «suo» corpo, – cosicché non si può pensare che essa possa perdere tale rapporto per informare un altro corpo.
Possiamo trovare la risposta a questi problemi nella rivelazione cristiana. Essa afferma, anzitutto, che ogni essere umano ha una sola vita, nella quale si compie il suo destino eterno. Ma il compimento di questo destino non è opera del solo uomo. La salvezza, infatti, è dono di Dio, il quale porta a compimento il bene che l’uomo, aiutato e sostenuto dalla grazia, ha compiuto nella sua vita, e con il suo perdono cancella le colpe che ha commesso. Non è dunque l’uomo che si salva da sé, progredendo dall’una all’altra reincarnazione: ciò è impossibile, perché da solo l’uomo non può raggiungere, per quanti sforzi faccia, la perfezione assoluta; ma è Dio che lo salva e lo rende perfetto con la sua grazia. Si spiega così che anche una sola vita umana può bastare per giungere all’assoluta perfezione. Si spiega che gli uomini possano salvarsi, pur trovandosi all’ora della morte avendo compiuto poco bene e molto male; se essi si pentono del male fatto e si affidano a Dio per il bene realizzato in vita, Dio perdona il male compiuto – e così lo distrugge – e porta a compimento il bene fatto con la sua grazia.
«Poiché il corso della nostra vita terrena è unico (cf. Eb 9,27; Lumen Gentium 48) e poiché in esso ci vengono offerti gratuitamente l’amicizia e l’adozione divina con il pericolo di perderla con il peccato, appare chiaramente la serietà di questa vita; infatti le decisioni che si prendono in essa hanno conseguenze eterne. Il Signore ci ha posto dinanzi “la via della vita e la via della morte” (Ger 21,8)… La chiesa prende sul serio la libertà umana e la misericordia divina che ha concesso la libertà all’uomo come condizione per ottenere la salvezza» (CTI, Problemi attuali di escatologia, 1991 EV 13, 563).
In conclusione, il cristianesimo risponde al problema del destino dell’uomo superando le contraddizioni della credenza reincarnazionista, prospettando non un itinerario evolutivo senza fine, ma la visione faccia a faccia con Dio subito dopo la morte (o dopo la purificazione del Purgatorio, se essa è necessaria) e alla fine dei tempi la risurrezione dei morti. «La vita terrena sembra ai reincarnazionisti troppo breve per poter essere unica. Per questa ragione pensavano alla sua reiterabilità. Il cristiano dev’essere cosciente della brevità di questa vita terrena, che sa bene essere unica. Poiché “tutti manchiamo in molte cose” (Gc 3,2) e il peccato si è presentato frequentemente nella nostra vita passata, è necessario che “profittando del tempo presente” (Ef 5,16) e deponendo “ciò che di peso e il peccato che ci intralcia, corriamo con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (cf. Eb 12,1-2). “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13,14). Così il cristiano come straniero e pellegrino (cf. 1Pt 2,11), si affretta per giungere con la vita santa alla patria (cf. Eb 11,14) nella quale sarà sempre con il Signore” (cf. 1Tess 4,17)» (ib. 565).