Fede, roba da adulti
Germogli
“germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;
“germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;
“germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).
Alberto Bigarelli
É ovvio, non è necessariamente l’anagrafe a definire il carattere adulto della persona. Il termine “adulto” viene dalla lingua latina adultus, che vuol dire cresciuto. Se si cerca in un dizionario il significato del vocabolo, generalmente si trova: «colui che ha raggiunto una maturità fisica, psicologica e sessuale»; una definizione che non è però una gran conquista. Molto meglio quello che dice Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Jonio: «adulta è la persona capace di fare sintesi, di darsi un preciso orientamento e di avere punti di riferimento certi» (Adulti nella fede in un mondo che cambia, Rass. di Teol. 4-2012, 534). Attitudini tanto più apprezzabili, quanto più il nostro tempo appare in trasformazione vorticosa e accelerata; un tempo di disorientamento e confusione, il cui carattere complesso si mostra devastante sulle personalità più fragili, e non solo su queste. È un impatto che fa sentire i suoi effetti non solo sul piano professionale ed educativo, ma anche su quello dei riferimenti etici, dei modelli di valore e delle appartenenze religiose.
L’adulto/uomo contemporaneo è stato efficacemente paragonato al visitatore del Pantheon. Il Pantheon (“tempio di tutti gli dei”) è un edificio della Roma antica costruito come tempio dedicato alle divinità dell’Olimpo. Accogliendo in una pianta circolare le statue di molte divinità, il visitatore non sa come orientarsi, non sa come definire delle priorità, da che parte iniziare il tour, un tour che torna su se stesso e in cui una divinità vale più o meno come l’altra.
A provocare nell’adulto uno stato di malessere rispetto alla sua identità, si aggiunge anche l’indebolimento dei punti di riferimento tradizionali quali la famiglia, la nazione, la Chiesa. C’è un certo scarto tra ricerca di una identità ben definita e un’offerta che si presenta in maniera sfuocata e dispersiva. Tutto questo concorre a liquidare per sempre e in maniera eclatante la concezione dell’età adulta come età della stabilità.
Maggiormente rispetto ad altre epoche, oggi l’età adulta, più che uno “stato”, si presenta e va percepita come un “processo”. Oggi soprattutto, adulti si diventa! Questa è la sfida che, sia sul piano antropologico, che su quello dell’esperienza di fede sta davanti a noi. È vero che il nostro mondo è caratterizzato dal crollo, o solo dall’indebolimento delle appartenenze culturali, sociali, familiari e relazionali. Questo però non si traduce subito in impossibilità a vivere l’esperienza di fede. Vuol dire piuttosto avere a che fare con una esperienza di fede in continuo stato di itineranza, di ricerca e talvolta può essere segnata da smarrimento. In altri termini, la precarietà, la frammentazione, l’itineranza che l’adulto vive in ordine alla definizione della propria identità appartiene anche alla sua esperienza di fede.
Anche se il suo sguardo sul mondo contemporaneo non è mai stato uno sguardo sfiduciato, Papa Wojtila ha osservato che il nostro mondo è attraversato da «persistente diffusione dell’indifferentismo religioso e dell’ateismo nelle sue più diverse forme»; e, con amarezza, ha riconosciuto anche la perdita da parte di interi gruppi di battezzati del «senso vivo della fede, o addirittura il non riconoscersi più come membri della Chiesa, conducendo un’esistenza lontana da Cristo e dal suo Vangelo» (Redemptoris missio, 33). «Solo una nuova evangelizzazione – prosegue Giovanni Paolo II – può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà [ … ], formare comunità ecclesiali mature [ … ], rifare il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali» (Ib. 34).
Dunque “nuova evangelizzazione” che vuol dire tornare alle fonti della fede, che vuol dire ritornare alla persona e all’insegnamento di Gesù. Pochi testi, come il discorso alla Conferenza episcopale della Scandinavia, liquidano con chiarezza gli equivoci che possono sorgere intorno al senso da dare alla all’espressione “nuova evangelizzazione”. Ai Vescovi della Scandinavia diceva Giovanni Paolo II: «É giunto il momento di ricuperare le fondamenta perdute della fede attraverso comuni sforzi, rinnovati e rafforzati. Questo è un dovere che si fa sempre più pressante e totalizzante. Io l’ho definito con la parola “nuova evangelizzazione” di cui necessitano non solo la società moderna, ma anche vasti ambiti della Chiesa stessa» (Oslo, 1 giugno 1989). E precisava qualche tempo dopo, rivolgendosi ai vescovi latino-americani: «In realtà, il richiamo alla nuova evangelizzazione è prima di tutto un richiamo alla conversione. Infatti attraverso la testimonianza di una Chiesa sempre più fedele alla sua identità e più viva in tutte le sue manifestazioni, gli uomini e i popoli di tutto il mondo, potranno continuare a incontrare Gesù Cristo» (S.Domingo, il 12 ottobre 1992). Giovanni Paolo II non va per il sottile, anzi usa espressioni “pesanti”: «ricuperare le fondamenta perdute della fede», a cui sono interessati «vasti ambiti della Chiesa stessa»; parla di «richiamo alla conversione» pena non essere più capaci di offrire Gesù al mondo e cioè pena non essere più «in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Vale a dire diventare una chiesa snaturata.
Nella Novo millennio ineunte (Epifania 2001), è sempre lo stesso Giovanni Paolo II a mettere in guardia da alcuni seri rischi, a partire dai quali possono trovare origine altrettanti equivoci. Nella stessa Lettera apostolica, si legge: «Il nostro è tempo di continuo movimento che giunge spesso fino all’agitazione, col facile rischio del “fare per fare”. La strada per resistere a questa tentazione è quella di “essere” prima che di “fare”. Ricordiamo a questo proposito il rimprovero di Gesù a Marta: “Tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno” (Lc 10,41-42)». Pertanto – conclude il Papa – il “mistero di Cristo” deve essere sempre «fondamento assoluto di ogni nostra azione pastorale»(15). Poco oltre, al n. 29 della stessa Lettera apostolica Novo millennio ineunte, si trova un’affermazione che ritengo a dir poco disattesa nell’azione pastorale ordinaria: «Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: lo sono con voi!». Solo l’incontro con Cristo Gesù può essere all’origine di una fede adulta e, conseguentemente, di una testimonianza autentica e appassionata.
Fede, roba da adulti – Ci domandiamo adesso quando la fede può dirsi adulta? Per rispondere, guardiamo al cammino dei discepoli che seguono Gesù, così come viene descritto nei vangeli sinottici. Molti passi biblici parlano di fede, di fede iniziale e di fede matura, ma solo nei vangeli si scorge un vero e proprio itinerario, nel quale sono segnalate le tappe che indicano la differenza fra una fede iniziale e una fede adulta.
Prima tappa: dal Dio dei miracoli al Dio crocifisso – Il vangelo di Marco è un racconto all’interno del quale si sviluppa un dibattito il cui centro appare una contraddizione che l’evangelista non attenua in alcun modo: da una parte, parole e gesti di Gesù in cui si manifesta la potenza di Dio; dall’altra, una sconcertante debolezza. I gesti di potenza, i miracoli, gli esorcismi infatti, non sottraggono Gesù al dissenso, e soprattutto diminuiscono e spariscono a mano a mano che e ci si avvicina alla croce. Quello di Marco è il vangelo dei miracoli, ma i miracoli muoiono sulla croce, dove Gesù, che ha salvato gli altri, non salva se stesso. Potenza e debolezza, sono le due facce del mistero di Gesù: i miracoli mostrano che in lui agisce la potenza di Dio, e la croce rivela che la potenza di Dio è l’amore e il dono di sé. È chiaro che Marco vuol condurre il discepolo a capire la croce, perché la croce è il luogo più denso in cui si può cogliere l’identità di Gesù, l’identità dello stesso discepolo e il vero volto di Dio. Quello della croce è un insegnamento duro che mette in crisi il discepolo, che dapprima non comprende.
Vediamo il brano: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”»(Mc 8,27-33). Pietro non comprende e in seguito, insieme a tutti gli altri, lo abbandona: «Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono». (Mc 14,50). Per l’evangelista il vero discepolo è paradossalmente il centurione, che ai piedi della Croce riconosce il Figlio di Dio nella morte: «Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (l5,39). Lo riconosce non nei miracoli, ma in quella morte. Gesù ha compiuto i miracoli, ma non salva il mondo coi miracoli, né i soli miracoli sono in grado di rivelare la sua identità.
Seconda tappa: dal merito alla grazia – Considero il vocabolo grazia nel senso originario di dono gratuito (gr. charis). All’episodio del giovane ricco (cf. Mc 10,17-27) segue un discorso di Gesù sul distacco dalle ricchezze. Questo discorso coinvolge gli stessi discepoli, i quali chiedono sbigottiti: «Se è così, chi si può salvare?» La risposta di Gesù va subito al nocciolo della questione: «È impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio» (Mc 10,27). Non c’è modo di salvarsi, ma c’è modo di essere salvati. Il discepolo è invitato a comprendere il motivo della grazia: è distogliersi dalla fiducia in se stesso per confidare unicamente nell’amore di Dio. Capire la grazia è essenziale, se si vuole essere veramente discepoli dalla fede matura. Perciò ci permettiamo di insistere.
A un primo livello di lettura la figura del discepolo nei vangeli è fallimentare. Ma a un secondo livello la figura del discepolo appare come una realtà aperta, carica di avvenire. Questo perché la fedeltà di Gesù vince la debolezza del suo discepolo. Guardiamo il passo dell’invio in missione: «Alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto. E disse loro: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”» (Mc 16,14-15). La sostanza e la struttura teologica è tutta qui: il discepolo è un uomo che, chiamato, viene meno, e tuttavia non viene meno la fedeltà di Gesù nei suoi confronti. Il discepolato è una struttura aperta, perché Gesù rimane legato ai suoi discepoli nonostante la durezza del loro cuore e non cambia i suoi amici. Certo l’annuncio del vangelo richiede la nostra coerenza, ma non poggia sulla nostra coerenza. C’è il dovere della coerenza, ma non c’è posto per l’angoscia della coerenza. Anche se peccatori, abbiamo il diritto di annunciare il vangelo.
Terza tappa: dal progetto alla persona – La folla segue Gesù immaginandolo come un messia conforme alla propria attesa: accorgendosi, invece, che è un messia diverso, lo abbandona. La folla non cerca Gesù, ma se stessa. Anche il discepolo si è posto alla sequela con il medesimo schema messianico della folla (molti passi evangelici ne conservano le tracce), ma a differenza della folla il discepolo, a mano a mano che Gesù appare diverso, rimane nonostante tutto. Il discepolo è fedele alla persona del Signore più che al progetto che si è fatto di lui. É normale iniziare il cammino della fede con un progetto, con attese precise, ma è altrettanto normale lungo la vita accorgersi che il volto di Dio è differente. È questa la vera crisi, forse la tappa fondamentale che segna lo spartiacque tra fede iniziale e fede matura. La vera crisi non accade quando si cerca il Signore, ma quando lo si trova e ci si accorge che è diverso. Un esempio. Anche se non è discepolo, ma precursore del messia, anche il Battista ha delle perplessità: «Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”» (Mt 11,2-6).
Quarta tappa: dal lasciare al trovare – Che il distacco per la sequela debba essere totale e definitivo è detto sin dall’inizio: subito i primi discepoli lasciarono il lavoro, il padre e la proprietà (cf. Mc 1,16-20). Tuttavia anche il distacco ha un suo itinerario, che secondo il vangelo di Marco si sviluppa lungo due direttrici.
La prima la troviamo in Mc 10,17-22: «Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”.Per seguire Gesù occorre considerare la motivazione del distacco, che progressivamente si purifica da ogni residuo dualistico e ascetico per concentrarsi sulla vera ragione: la libertà per il vangelo. Lo spazio del distacco – in termini positivi, lo spazio della libertà – si allarga a misura che il vangelo diventa l’unico interesse. Il cammino del discepolo è al tempo stesso una liberazione e una concentrazione graduali, un distacco per un’ appartenenza.
La seconda direttrice è la convinzione che il distacco necessario per seguire Gesù non costituisce una perdita ma un guadagno, non una diminuzione ma una pienezza. L’affermazione di Pietro: «“Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”». (Mc10,28). La risposta del Signore è molto chiara, netta e non a caso si trova non all’inizio del cammino di sequela, ma nel suo momento più maturo, quando già si profila l’ombra della croce: la vita eterna nel tempo futuro e il centuplo nel tempo presente.
Quinta tappa: dal chiuso all’aperto – Il cammino della fede è fin dall’inizio orientato alla missione: «Vi farò pescatori di uomini»(Mc 1,17). La prima parola di Gesù al discepolo è: “Seguimi”. E l’ultima: «Andate nel mondo intero»(Mc 16,15). Il discepolo ha molto da imparare: non deve parlare a nome proprio, ma su incarico “andate!”; non deve parlare di sé, ma unicamente dell’amore di Dio; il suo orizzonte non è la piccola comunità, ma il mondo intero: in questa impresa missionaria non è solo, ma sempre in compagnia del suo Signore: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Soprattutto, deve ricordare che l’universalità evangelica non è semplicemente quantitativa, ma qualitativa. Gesù è disceso in profondità sino a solidarizzare con l’ultimo degli uomini, e dal quel punto, dal basso, ha visto e raggiunto il mondo intero. Anche questo è un segno inconfondibile della maturità della fede.
Sesta tappa: oltre la giustizia – Oltre la giustizia c’è la gratuità. La fede adulta esige una conversione dalla fiducia in se stessi alla fiducia in Dio. Per illustrare ulteriormente il valore della gratuità ci riferiamo alle parabole del figliol prodigo (cf. Lc 15,11-32) e degli operai pagati allo stesso modo (cf. Mt 20,1-16). Il centro della parabola del prodigo non è la conversione del figlio che decide di ritornare a casa, ma l’amore del padre che l’accoglie prevenendolo. Il figlio incontra un perdono del tutto gratuito che precede la sua stessa conversione: il figlio voleva pagare il suo rientro a casa, e invece il padre neppure lo lascia parlare! Il figlio non conosceva il padre, né quando si era allontanato da lui né quando decide di ritornare. Lo ha conosciuto incontrando il suo perdono del tutto gratuito. Sta qui la meraviglia, l’incontro con il vero volto di Dio. Analoga – possiamo immaginare – deve essere stata anche la meraviglia degli ultimi operai che si sono visti dare la stessa paga dei primi. A sua volta il “giusto” (cioè il fratello maggiore della parabola) è invitato a ragionare come il padre, oltre le strettoie della giustizia per approdare agli spazi larghi della gratuità. E gli operai della prima ora sono invitati a uscire dall’angustia della proporzionalità in cui s’inceppa il ragionamento umano. Solo così si comprende qualcosa del Dio di Gesù Cristo.
Oltre la giustizia ci sta anche la piccolezza, l’umiltà in luogo del potere e dell’arrivismo. Vale per tutti gli altri, il brano di Matteo: «In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”. Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli” (18,1-4). é un reale capovolgimento. Convertirsi qui vuol dire ritornare a uno spirito d’infanzia del quale non viene celebrata tanto l’innocenza, quanto l’atteggiamento di fiducia e di abbandono fra le braccia e all’azione educativa e direttiva del papà. Tanto più cresce la docilità, l’obbedienza, la certezza dell’amore del Padre, tanto più si diventa adulti nella fede.
Senza questa apertura ci potrà essere una fede severa, impegnata, piena di opere e di meriti, ma non una fede adulta, veramente cristiana.
La sfida, come si vede, è di “integrare il messaggio evangelico nell’esperienza quotidiana”. L’unificazione di vita e fede è in alternativa sia alla concezione di fede come realtà privata, sia alla fede come “altra cosa” rispetto al vivere quotidiano. La comunità adulta nella fede aiuta il credente a integrare le domande che emergono dal vissuto con le parole del Vangelo e quindi a osare, reinventando stili di vita che aiutino a essere cristiani nei luoghi della nostra vita quotidiana; a unificare sempre di più la propria vita, affinché l’esistenza del cristiano sia una vita bella, riuscita, degna di essere vissuta, affascinante e capace di contagiare.
È questa la strada che porta il cristiano adulto, a contribuire alla determinazione dell’ethos storico: la sua esperienza di fede, vissuta nella comunità, non può non avere una rilevanza etica. Particolarmente illuminante, a questo proposito, resta un testo poco noto, ma di grande immediatezza. Mi riferisco a un discorso di Giovanni Paolo II ai vescovi lombardi nel 1991. In quell’occasione, e parlando di formazione a una fede adulta capace di generare comunità accoglienti, egli ricordava che questa comporta: «il passaggio da una fede di consuetudine, pur apprezzabile, a una fede che sia scelta personale, illuminata, convinta, testimoniante. E tale fede, celebrata e partecipata nella liturgia e nella carità, che nutre e fortifica la comunità dei discepoli del Signore e li edifica come Chiesa missionaria e profetica […]. Il cristiano adulto, che aderisce con scelta personale e convinta al mistero di Cristo, va quindi guidato a essere capace di offrire agli altri le ragioni della sua fede e della sua appartenenza ecclesiale e va spronato a inserirsi con stile cristiano nel mondo della cultura, nelle strutture pubbliche, nelle realtà sociali, e nell’impegno politico».
Nello stendere questa riflessione mi hanno guidato due articoli: N.Galantini, Adulti nella fede, Rassegna di Teologia 4 (2012)533-541; Editoriale, Per una fede adulta, Rivista del clero italiano 10(2012)651-654.