Dio nella bufera del secolo breve

Il silenzio di Auschwitz

Il testo è tratto dallo schema del relatore (Giovanni Tangorra)

“Il giorno in cui il male non ci scandalizzasse più, in cui l’acqua di un ruscello che passa sul volto di un bambino ci lasciasse indifferenti come quando la vediamo passare su un sasso, allora per noi Dio definitivamente non ci sarebbe, e non avremmo più bisogno né di lui né di parlare di lui. Per noi dire “Dio” significa dire bisogno di redenzione, di tutto il dolore, non solo dell’uomo ma di tutta la natura, non solo presente ma anche passato e dimenticato. E rinunciare a questa volontà redentrice significa tradire l’esigenza più vera e più alta che è in noi”

(S. Quinzio, Silenzio di Dio, Mondadori, Milano 1982, 70)

Video della conferenza di Giovanni Tangorra.


L’incontro che si è tenuto Domenica 21 novembre 2021 si inserisce nel ciclo dedicato al silenzio di Dio, tema difficile ma ineludibile, soprattutto in relazione all’esperienza del male e della sofferenza. La domanda su come il male sia entrato nel mondo è stata posta dai tempi antichi, senza però approdare a risposte definitive, per questo lo si chiama enigma, scandalo, mysterium iniquitatis.  L’interrogativo del credente è diretto: perchè Signore? Perchè la devastazione, l’ingiustizia , la morte?. Se lo chiede il salmista, invocando una parola: “Dio, non startene muto, non restare in silenzio e inerte, o Dio (Sl 83,2), e con lui credo in tanti. Il pensiero va alle vittime di questa epidemia, che hanno vissuto l’agonia, spegnendosi in una triste solitudine.

Nello specifico è stato sollevato il problema del “Silenzio di Auschwitz”, come l’ha chiamato Andrè Neher, definendolo il silenzio-limite, e aggiungendo che da solo riepiloga tutti gli altri. La vicinanza di Fossoli, che nel 1943 fu “campo di deportazione anche per ebrei”, ha dato una speciale eco all’incontro. Riflettere su Auschwitz fa saltare molte certezze, quotidiane e banali, ma anche ideologiche, storiche, filosofiche, religiose. A precipitare sono gli ottimismi: della teodicea, dell’antropodicea, e di quelle visioni lineari della storia o del progresso su cui si stende lo sguardo melanconico dell’Angelo di Walter Benjamin, il filosofo che contempla la storia partendo dalle sue rovine.

Pesante eredità di un secolo terribile, l’orrore di Auschwitz è divenuto simbolo e paradigma del male, segnando una frattura epocale, nella fede e nella cultura. Niente è più come prima e tutto dev’essere pensato dopo Auschwitz. Se le domande sul piano storico-culturale portano a chiedersi “dov’era l’uomo”, cercando di comprendere, che cosa lì è accaduto, e perché; quelle sul piano teologico si concentrano intorno all’interrogativo “dov’era Dio” ad Auschwitz.

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La proposta del relatore è stata quella di riaccendere la memoria , sollevando alcune questioni che diano un quadro delle ripercussioni di Auschwitz nel pensiero ebraico e cristiano.

L’esposizione si è articolata in 3 punti

1 Di cosa stiamo parlando. Approcci, dati, testimonianze (Primo Levi, Elie Wiesel, Etty Hillesum).

2 Un secolo di discussione. Auschwitz non riguarda solo i credenti e dà l’occasione per fare i conti con le contraddizioni del secolo breve, La critica alla modernità (Adorno, Bauman, Ellul), le reazioni della teologia (Johann Baptist Metz), il rapporto cristiani/ebrei.

3 Il discorso su Dio. La principale sfida posta alla teologia è come parlare di Dio dopo Auschwitz. Sono state esaminate quattro posizioni:

l’eclissi (Buber)

la negazione (Rubenstein)

la revisione (Jonas)

il Crocifisso (Moltmann)

Auschwitz è come il roveto ardente di Mosè, dove brucia una rivelazione che gli uomini hanno il dovere di comprendere, respirandone le ceneri, e cercando una rivelazione nel suo silenzio. La valenza paradigmatica dell’evento consente di tenere gli occhi aperti sulle altre tragedie della storia. Non c’è niente di monolitico, e la memoria di Auschwitz ha un senso proprio perché quel massacro non è l’unico, se si calcolano gli altri che abbiamo ignorato o dimenticato, e che continuiamo ancora a conoscere e altrettanto a ignorare o a dimenticare. Auschwitz diventa così l’accaduto sul quale è sempre necessario ritornare, per imparare la lezione. Oggi, invece, si assiste a un fenomeno di rimozione, personale e storiografico, che va trasformando Auschwitz in un’occasione celebrativa , e i campi di concentramento in un’attrazione per turisti in cerca di emozioni. Fu lo sdegno di Elie Wiesel:

“L’olocausto non richiama più il mistero dell’anatema; non suscita più paura o tremore, nemmeno insulti o compassione. Per voi è solo una disgrazia fra le altre, un po’ più patologica delle altre. Vi entrate e ne uscite, per ritornare alle vostre preoccupazioni usuali. Avete pensato di poter immaginare l’innimaginabile, e non avete visto nulla. Avete creduto di discernere l’indicibile, e non avete capito nulla”

(Un ebreo oggi, Morcelliana, Brescia 1986, 197).

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Dal punto di vista teologico , gli interrogativi sono destinati a restare senza risposta. Qualcosa però la fede può dire: che Dio non vuole il male ma salva condividendo, e che il suo silenzio è un appello alla nostra responsabilità. Tali questioni non possono perciò essere affrontate solo sul piano teorico (Paul Ricoeur), sia perché di Dio, come rammenta Tommaso d’Acquino, “ ci è noto non tanto che cosa è , quanto piuttosto che cosa non è”; sia riguardo alle vittime, così da non meritarsi il rimprovero di Giobbe agli amici teologi: “Magari taceste del tutto: sarebbe per voi un atto di sapienza!” (Gb. 13,5). Non fu una teoria a salvare il malcapitato sulla strada di Gerico, ma la compassione di un samaritano che seppe farsi prossimo (Lc 10,29-37; cf. Gv 9,1-7).

Ebrei e cristiani condividono l’idea di un Dio redentore. Dopo Auschwitz il credente dovrà accettare una fede meno riparata, imparando a resistere e amare, nell’incontro-scontro di Giobbe che seppe lottare fino allo “spuntare dell’aurora” (Gn 32, 23-33). Il male esiste e per questo abbiamo bisogno di un Dio redentore.

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